Società a partecipazione pubblica e fallimento. Nuovi argomenti a favore della non fallibilità?

Paolo Pizza
21 Novembre 2013

Per poter imprimere ad una società a partecipazione pubblica la qualificazione di “ente pubblico” è necessaria l'espressa previsione legislativa in tal senso, non risultando abrogato l'art. 4 L. n. 70/1975.
Massima

Per poter imprimere ad una società a partecipazione pubblica la qualificazione di “ente pubblico” è necessaria l'espressa previsione legislativa in tal senso, non risultando abrogato l'art. 4 L. n. 70/1975.

Non può essere sottoposta alla procedura fallimentare, in quanto non qualificabile come imprenditore commerciale, la società a partecipazione pubblica che operi in situazione di esclusiva o di monopolio e svolga attività economica non diretta al pubblico degli utenti e dei consumatori.

Il caso

Con le pronunce in commento il Tribunale di Palermo, chiamato a valutare la fallibilità di una società che ha attualmente come socio unico il Comune di Palermo e svolge, con i suoi 1800 dipendenti, servizi di pulizia, di manutenzione, di custodia e di gestione di impianti, gran parte dei quali è di proprietà dello stesso Comune di Palermo, ha statuito che essa non è qualificabile come imprenditore commerciale, da ciò derivando l'impossibilità di dichiararne il fallimento o lo stato di insolvenza ai fini della ammissione all'amministrazione straordinaria, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 270 del 1999.
L'itinerario argomentativo percorso dal giudice nei decreti in commento è sostanzialmente il seguente:
1) l'indagine circa la qualificabilità o meno di un ente costituito nella forme di società per azioni come ente pubblico è operazione esegetica non lecita al fine della valutazione circa la fallibilità dell'ente medesimo, e ciò in quanto la qualificazione di “pubblico” può essere impressa ad un ente metaindividuale solo dal legislatore e non anche dall'interprete;
2) la costituzione in forma di società per azioni di un ente non consente di qualificare automaticamente lo stesso come “imprenditore commerciale”;
3) per stabilire se un ente costituito in forma di società per azioni sia qualificabile o meno come “imprenditore commerciale” occorre stabilire se esso eserciti o meno una attività commerciale;
4) le condizioni da prendere in considerazione per stabilire se un ente avente forma di società per azioni svolga o meno una attività commerciale sono costituite dall'oggetto e dalle modalità di espletamento dell'attività, mentre non ha alcun rilievo la natura di servizio pubblico o servizio di interesse generale dei servizi che la società deve erogare;
5) se lo statuto dell'ente costituito in forma di società per azioni prevede che l'attività sia svolta in un ambiente non concorrenziale e non sia diretta al pubblico degli utenti e dei consumatori, allora deve escludersi che l'attività svolta abbia carattere commerciale;
6) nel 2011 la Cassazione, con sentenza delle Sezioni Unite n. 10068, ai limitati fini dell'applicazione del codice degli appalti, ha qualificato la medesima società palermitana come “organismo di diritto pubblico”, escludendo che essa svolga attività di natura industriale o commerciale: in particolare, la Suprema Corte ha escluso che gli interessi che essa è destinata a soddisfare abbiano natura industriale o commerciale in quanto la società “non opera in ambiente concorrenziale essendo il solo soggetto di cui il Comune di Palermo si avvale per la prestazione dei servizi” previsti dallo statuto;
7) dallo statuto della suddetta società emerge che l'attività svolta non è diretta al pubblico degli utenti e consumatori, ma è diretta esclusivamente al Comune di Palermo;
8) pertanto, tale società non svolge attività commerciale e dunque, non è assoggettabile a fallimento.

Osservazioni

Il Tribunale di Palermo considera illegittimi e comunque irrilevanti ai fini della determinazione della fallibilità gli itinerari argomentativi volti a dimostrare che le società in mano pubblica, sussistendo determinate caratteristiche, devono essere qualificate come enti pubblici. Alcuni spunti.
Le pronunce in commento si segnalano per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, deve evidenziarsi che il Tribunale di Palermo rifiuta nettamente (nello stesso senso si veda, di recente, App. Napoli, 24 aprile 2013, in Fall., 2013, 767 ove si legge che “le società in mano pubblica, anche quando siano concessionarie esclusive di servizi pubblici essenziali, forniscano i beni o i servizi esclusivamente all'ente pubblico che ne è unico socio, siano alimentate da risorse pubbliche, siano sottoposte a penetranti poteri di ingerenza e di controllo di carattere pubblicistico e siano, ad altri specifici effetti, equiparate agli enti pubblici, non possono essere definite, in via generale, enti pubblici al fine della sottrazione alla procedura di fallimento, di concordato preventivo o di amministrazione straordinaria, salvo che, ai sensi dell'art. 4 della L. 70/1975, sia la stessa legge a definirle espressamente come tali ovvero a fornire indicazioni ermeneutiche tali da indurre a ritenere del tutto impredicabile il contrario”) le teorie dottrinali e giurisprudenziali che, con varie sfumature, mirano a sottrarre le società in mano pubblica al fallimento mediante la riqualificazione delle stesse come “enti pubblici” (per un quadro generale dei vari orientamenti cfr. FIORANI, Società pubbliche e fallimento, in Giur. comm., 2012, 532 ss., ove, per quanto riguarda la giurisprudenza contraria alla fallibilità, vengono citate le pronunce Trib. Catania, 20 luglio 2010; Trib. Messina, 29 aprile 2010; Trib. Termini Imerese, 3 agosto 2009; Trib. Patti, 6 marzo 2009; Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 gennaio 2009. Più di recente, hanno negato la fallibilità, tra le altre, Trib. Napoli, 31 ottobre 2012, Trib. La Spezia, 20 marzo 2013; Trib. Alessandria, 9 luglio 2013, n. 77, Trib. Avezzano, 26 luglio 2013. Tra le pronunce che hanno invece ammesso la fallibilità delle società in mano pubblica v., ex multis, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 22 marzo 2012; Trib. Foggia, 18 gennaio 2012; Trib. Massa, 22 settembre 2011; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 24 maggio 2011; Trib. Velletri, 8 marzo 2010, Trib. Nola, 17 giugno 2010, App. Torino, 15 febbraio 2010).

A questo proposito, il giudice richiama l'art. 4 della legge n. 70 del 1975, a mente del quale “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”.
Pur non essendo necessario in questa sede affrontare ex professo l'annosa problematica relativa alla “natura” delle società in mano pubblica, visto e considerato che il giudice palermitano l'ha considerata del tutto irrilevante, occorre tuttavia segnalare al lettore che l'argomento esegetico appena riportato, seppur significativo, non è comunque dirimente, posto che la disposizione normativa evocata è suscettibile di una pluralità di interpretazioni, tra cui sia quella – fatta propria dalla Corte palermitana - secondo la quale la qualifica di ente pubblico può essere attribuita solo dalla legge (che deve farlo in via espressa), sia quella secondo la quale la norma in questione si limita ad individuare come carattere necessario dell'ente pubblico soltanto l'essere esso istituito o riconosciuto dalla legge, ma non anche l'essere l'ente espressamente qualificato come “pubblico” dal legislatore.
Peraltro, ponendosi in una prospettiva generale che prescinde dalla specifica tematica affrontata dal Tribunale di Palermo, pare a chi scrive che dal vigente ordinamento giuridico siano oggi desumibili altri argomenti esegetici che risultano più convincenti di quello legato all'art. 4 della legge n. 70 del 1975 al fine di suffragare l'idea secondo la quale le operazioni interpretative volte a riqualificare come “enti pubblici” le società in mano pubblica dotate di determinate caratteristiche sono in un buon numero di casi vietate (o, comunque, scoraggiate) dal legislatore.
Si allude, in particolare, alle argomentazioni che possono ricavarsi dall'art. 4, comma 13, della legge n. 135 del 2012, a mente del quale “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.
Da tale disposizione, infatti, come ha affermato la Cassazione (Cass. Civ., Sez. Un., 13 maggio 2013, n. 11417), è desumibile una “..norma di chiusura del sistema..”, che individua in modo cogente una regola interpretativa generale applicabile a tutte le disposizioni normative espressamente dedicate agli enti a partecipazione pubblica esplicitamente qualificati dal legislatore o dall'atto costitutivo che ne regola l'esistenza come “società”.
In particolare, la regola in questione, se non si erra, impone all'interprete di ritenere che la qualificazione societaria espressamente attribuita all'ente dal legislatore o dall'atto costitutivo implichi necessariamente, salvo espressa disposizione normativa contraria, l'applicazione all'ente stesso di tutte le disposizioni dedicate alle società di capitali rinvenibili nel codice civile, ferma restando la prevalenza su queste ultime delle disposizioni speciali eventualmente esistenti e applicabili.
Viene così, in ultima analisi, vietato all'interprete di utilizzare argomenti esegetici il cui esito sia quello di consentire la disapplicazione delle norme dettate in tema di società dal codice civile e, di conseguenza, la creazione di lacune normative in realtà non esistenti.
Dall'art. 4, comma 13, della l. n. 135 del 2012 emerge, dunque, con estrema chiarezza, un'impostazione “nominalista” volta, evidentemente, a tutelare la certezza dei traffici giuridici: il legislatore, infatti, sembra dire che laddove un ente sia qualificato ed operi nella realtà come “società”, allora ad esso andranno applicate tutte le disposizioni presenti nel codice civile che trovano in tale qualificazione il presupposto per la loro applicazione, salvo che l'applicazione di tali disposizioni sia esplicitamente esclusa da ulteriori disposizioni normative espresse.
In definitiva, la disposizione di cui si discorre obbliga l'interprete ad applicare sempre e comunque “la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.
Il problema, allora, diventa quello di comprendere, da un lato, che cosa si intenda per “disciplina del codice civile in materia di società di capitali”, e dall'altro, di stabilire come ci si deve relazionare alle disposizioni che, seppur dedicate espressamente alle società di capitali, non trovano la propria sede nel codice civile. Si tratta di questioni che nel presente contributo possono essere soltanto accennate.
Per quanto qui interessa, peraltro, giova comunque sottolineare che, se da un lato l'art. 4, comma 13, della l. n. 135 del 2012 rivela un generale disfavore per le operazioni di riqualificazione che si traducono in disapplicazione di disposizioni in realtà applicabili; dall'altro deve dirsi che, con specifico riferimento alla fallibilità della società, l'enunciato normativo in questione non consente di affermare che le società di capitali sono sempre e comunque assoggettabili al fallimento, posto che manca nel codice civile una disposizione che ciò disponga espressamente, e tenuto conto del fatto che l'art. 2221 cod. civ., laddove ritenuto appartenente al novero della “disciplina del codice civile in materia di società di capitali” (opinione che, peraltro, andrebbe motivata), esclude gli enti pubblici dall'applicazione della procedura fallimentare.
Il problema della possibilità o meno di procedere a operazioni di riqualificazione pubblicistica, dunque, pur essendo stato oggi risolto in senso negativo nella parte in cui la riqualificazione conduce alla disapplicazione delle disposizioni previste dal codice civile in materia di società e alla loro sostituzione con disposizioni appartenenti al c.d. statuto legale dell'ente pubblico, resta comunque in piedi con riferimento alle ipotesi in cui lo statuto legale delle società di capitali contenuto nel codice civile non preveda alcunchè.
Non pare discutibile, tuttavia, che l'esistenza dell'art. 4, comma 13, della l. n. 135 del 2012 finisce senz'altro con l'indebolire gli itinerari esegetici basati su “sintomi di pubblicità”, poiché tende a privare di rilevanza “sintomatica”, ai fini della riqualificazione pubblicistica, le disposizioni legislative speciali che si occupano espressamente delle società in mano pubblica, ovverosia le disposizioni che storicamente hanno costituito la base sulla quale sono stati edificati gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali “pubblicizzanti”.

3. La questione della qualificabilità come “commerciale” dell'attività svolta: a) la non condivisibile interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 10068 del 2011 prospettata dal Tribunale di Palermo: dalla sentenza delle Sezioni Unite non è ricavabile l'implicazione logica “se un ente è stato istituito per soddisfare interessi generali aventi carattere non commerciale o industriale, allora l'attività svolta dall'ente ha carattere non commerciale o industriale”.
Le pronunce in commento si segnalano, poi, in quanto qualificano come “non commerciale” l'attività svolta dalla società partecipata dal Comune di Palermo e, di conseguenza, reputano che essa non sia sottoponibile alla procedura fallimentare.
L'itinerario percorso dal Tribunale di Palermo per giungere a tale conclusione, prevalenetemente basato su rinvio al contenuto della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 10068 del 2011 (la quale aveva qualificato la società in questione come “organismo di diritto pubblico”), non pare condivisibile per varie ragioni.
Innanzitutto, non corrisponde al vero che la Cassazione avrebbe affermato che la società partecipata dal Comune di Palermo svolga un'attività non avente carattere imprenditoriale o commerciale: nella sentenza Cass. Sez. Un. n. 10068/11, infatti, si sostiene semplicemente che essa è stata istituita per soddisfare esigenze di carattere generale aventi carattere non industriale o commerciale, il che è cosa ben diversa dall'affermare che la società in questione svolge un'attività di carattere non industriale o commerciale.
Ciò che si vuole dire è che una cosa sono i bisogni per soddisfare i quali un ente è istituito, altra e diversa sono le attività esercitate in concreto dall'ente stesso, sicchè la qualificazione in un certo modo del fine perseguito da un'attività non si traduce automaticamente nella qualificazione nel medesimo modo dell'attività svolta per perseguire tale fine.
Contrariamente a quanto implicitamente ritenuto dal Tribunale di Palermo, dunque, nella sentenza della Corte di Cassazione non si rinvengono nè l'implicazione “se l'ente è stato istituito per soddisfare bisogni di carattere non commerciale o industriale, allora l'ente non svolge un'attività di carattere industriale o commerciale”, né l'implicazione “se l'ente è qualificabile come organismo di diritto pubblico, allora l'ente non svolge un'attività di carattere industriale o commerciale”.
D'altra parte, occorre tenere presente che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, (CGUE, 15 gennaio 1998, causa C-44/96, Mannesmann; Corte di giustizia CE, 10 novembre 1998, causa C-360/96, BFI Holding BV), nell'interpretare la nozione di organismo di diritto pubblico – che, lo si ricorda, ha matrice comunitaria e vale esclusivamente ad individuare i soggetti obbligati ad applicare il procedimento di aggiudicazione ad evidenza pubblica in relazione a tutti i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta (infatti l'art.1, comma 1, lett. b) della direttiva 92/50, all'esclusivo fine di individuare i soggetti obbligati ad applicare il procedimento di aggiudicazione ad evidenza pubblica in relazione a tutti i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta, statuisce che “per "organismo di diritto pubblico" si intende qualsiasi organismo:- istituito per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, e- avente personalità giuridica, e - la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico”) - ha affermato che la qualificazione di organismo pubblico può essere attribuita anche a soggetti che svolgono in concreto un'attività commerciale, ben potendo essere che un ente che risulta istituito per soddisfare interessi generali di carattere non commerciale o industriale eserciti un'attività senz'altro commerciale (sul punto: M. LIBERTINI, Organismo di diritto pubblico, rischio di impresa e concorrenza: una relazione ancora incerta, federalismi.it; F. CINTIOLI, Di interesse generale e non avente carattere industriale o commerciale: il bisogno o l'attività? (Brevi note sull'organismo di diritto pubblico), in giustamm.it).
Da questo punto di vista, poi, deve sottolinearsi, altresì, che la nozione di organismo di diritto pubblico fu delineata dal legislatore comunitario proprio per evitare che lo svolgimento in concreto di un'attività commerciale potesse di per sé essere considerato elemento sufficiente per impedire sempre e comunque l'applicazione delle disposizioni relative agli appalti pubblici (si veda, in proposito, M. LIBERTINI, Organismo di diritto pubblico, rischio di impresa e concorrenza: una relazione ancora incerta, cit.).
Non c'è, dunque, alcuna inconciliabilità tra qualificazione come “organismo pubblico” (o, comunque, tra qualificazione come ente che persegue fini di carattere non commerciale o industriale) e svolgimento di un'attività commerciale, ed anzi la nozione di organismo di diritto pubblico, nel momento in cui fa riferimento al perseguimento di interessi di carattere non commerciale o industriale, pare costruita per assorbire dentro di sé anche enti che svolgono un'attività senz'altro qualificabile come commerciale.
In definitiva, la finalità di soddisfare bisogni non commerciali o industriali, da una parte, e lo svolgimento di attività qualificabili come commerciali o industriali, dall'altra, sono caratteri che possono tranquillamente coesistere in capo al medesimo ente, da ciò derivando che l'accertamento del fatto che un ente è stato istituito per soddisfare bisogni non commerciali o industriali (o che sia qualificabile come organismo di diritto pubblico) non implica automaticamente che tale ente svolga un'attività non commerciale e, similmente, l'accertamento del fatto che un ente svolge un'attività commerciale non esclude automaticamente che tale ente persegua bisogni non commerciali o industriali (o sia qualificabile come organismo di diritto pubblico).
La corrispondenza biunivoca tra perseguimento di interessi di carattere non commerciale e svolgimento di un'attività non commerciale erroneamente rintracciata dal Tribunale di Palermo nella sentenza della Corte di Cassazione, dunque, non regge.

4. Segue: b) infondatezza dell'argomento secondo il quale il fatto che l'attività sia svolta in un ambiente non concorrenziale implica necessariamente che l'attività stessa debba essere qualificata come “non commerciale”.
Alla luce di quanto si è detto nel paragrafo precedente, viene del tutto meno la base delle ulteriori affermazioni rinvenibili nei decreti in commento.
Al riguardo deve sottolinearsi che il Tribunale di Palermo - dopo aver ricordato che la Cassazione, per escludere che gli interessi che la società partecipata dal Comune di Palermo è diretta a soddisfare abbiano natura industriale o commerciale, ha fondato il proprio ragionamento sul presupposto che la società “…non opera in un ambiente concorrenziale essendo il solo soggetto di cui il Comune di Palermo si avvale per la prestazione di servizi”, da ciò conseguendo che “essa è stata istituita per soddisfare esigenze di carattere generale aventi carattere non industriale o commerciale” - afferma che la società stessa “…non opera in un mercato concorrenziale, ma soddisfa esigenze di carattere generale, e, dunque, non svolge un'attività economica diretta al pubblico degli utenti e dei consumatori, caratteristica primaria della commercialità”.
Il sillogismo è, dunque, il seguente: a) se un ente svolge un'attività in condizioni non concorrenziali, allora l'ente persegue fini non commerciali o industriali; b) se un ente persegue fini non commerciali o industriali, allora l'ente svolge attività non commerciale; c) pertanto, se un ente svolge un'attività in condizioni non concorrenziali, allora l'ente svolge un'attività non commerciale.
Anche in questo caso il Tribunale travisa il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione: quest'ultima, infatti, ha ritenuto che la condizione costituita dall'esercizio dell'attività in un ambiente non concorrenziale costituisce sintomo della non commercialità dell'interesse generale per la cui soddisfazione l'ente è stato istituito, e non invece sintomo della non commercialità dell'attività stessa.
Anche ammettendo, dunque, che esista una corrispondenza biunivoca – cosa, peraltro, tutt'altro che scontata – tra svolgimento di un'attività in condizioni non concorrenziali e perseguimento di fini non commerciali o industriali, da tale situazione non può certo inferirsi che esista una corrispondenza biunivoca anche tra svolgimento di un'attività in condizioni non concorrenziali e natura non commerciale dell'attività stessa, e ciò per la semplice ragione che, come s'è già detto, non esiste una corrispondenza biunivoca e necessaria tra perseguimento di fini non commerciali o industriali e natura non commerciale dell'attività.
Non dirimenti, dunque, appaiono le affermazioni del Tribunale volte a sottolineare che:
a) la società partecipata dal Comune di Palermo per statuto può stipulare soltanto contratti nei quali sia controparte il Comune medesimo, o comunque, soltanto contratti che consentano di realizzare un interesse del Comune di Palermo;
b) il Comune di Palermo è socio della stessa;
c) il Comune di Palermo acquista i servizi rientranti nelle tipologie contemplate dall'oggetto sociale di tale società soltanto da quest'ultima, e, dunque, non si rivolge alle altre imprese che producono la stessa tipologia di servizi.
Tali affermazioni - fermo restando che il Comune di Palermo, seppur socio unico, è comunque soggetto terzo rispetto alla società, circostanza che il Tribunale sembra non considerare - potrebbero al più, forse, valere per sostenere che la società non opera in un ambiente concorrenziale (ma ciò è comunque assai opinabile, posto che, come ha correttamente sottolineato la giurisprudenza amministrativa più recente, "la mancanza di un mercato non può ovviamente derivare dal fatto che in esso operi la sola società pubblica, ma occorre stabilire se un mercato abbia la possibilità di esistere valutando le caratteristiche dei beni e dei servizi offerti, i loro prezzi, nonché la presenza anche solo potenziale di più fornitori": così

Cons. St., Sez. VI, 20 marzo 2012

, n. 1574 e Cons. St., sez. V, 30 gennaio 2013, n. 570; il Tribunale di Palermo, invece, sembra aver preso in considerazione esclusivamente la posizione di monopolista di fatto della società in questione, di per sé non sufficiente per dimostrare che vi è una vera e propria assenza di concorrenzialità sul mercato), ma questo dato, a sua volta, potrebbe valere come indice della non commercialità del bisogno soddisfatto dall'attività, e non come sintomo necessario e sufficiente della non commercialità dell'attività imprenditoriale svolta.
D'altra parte, non si capisce per quale ragione l'esistenza di un mercato non concorrenziale dovrebbe automaticamente privare l'attività svolta dai soggetti che su quel mercato operano della qualifica di “commerciale”, tenuto conto che mancano nel nostro ordinamento specifiche disposizioni normative che prevedano alcunchè in tal senso (non a caso, il Tribunale non ne menziona alcuna).

Conclusioni

Alla luce di quanto si è illustrato nelle pagine precedenti, pare a chi scrive che l'itinerario interpretativo percorso dal Tribunale di Palermo non sia condivisibile e che, dunque, la valutazione circa la natura di imprenditore commerciale ai fini della applicazione delle disposizioni relative al fallimento avrebbe dovuto essere operata alla luce dei classici criteri desumibili dal codice civile (art. 2082, art. 2195 etc.).
C'è da dire, peraltro, anche se non vi è in questa sede spazio sufficiente per affrontare la questione, che l'operare di una società in mano pubblica in un ambiente non concorrenziale e il non essere l'attività svolta da tale società diretta in concreto ad una pluralità di soggetti terzi sono stati assunti dalla Corte Costituzionale [si allude a Corte cost., 1° agosto 2008, n. 326; al riguardo sia consentito rinviare a P. PIZZA, Partecipazioni pubbliche locali e regionali e art. 13 del D.L. n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani), in Le società “pubbliche”, a cura di C.IBBA] al fine di individuare il corretto riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni in materia di società a partecipazione pubblica c.d. strumentali, come caratteri dirimenti per distinguere la c.d. attività amministrativa in forma privatistica dall'attività imprenditoriale degli enti pubblici.
Ed è meditando sugli argomenti – anche se, invero, non chiarissimi – enucleati dalla Corte Costituzionale che potrebbe, forse, giungersi ad una conclusione analoga a quella raggiunta dal Tribunale, ma per il tramite di un itinerario argomentativo per ciò stesso ben diverso da quello esaminato nel presente contributo.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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