L'istituto del concordato coattivo nell'amministrazione straordinaria

Alessandro Lendvai
19 Novembre 2013

In materia di amministrazione straordinaria ex D. Lgs. 270/1999, nell'ipotesi in cui venga sollevata opposizione all'omologazione del concordato, l'ampiezza del giudizio affidato al Tribunale in sede di omologa - ordinariamente limitato alla verifica della regolarità della procedura ex art. 129, comma 4, l. fall. - è destinato ad estendersi alla valutazione di merito delle censure esposte dai creditori opponenti, tanto più nell'ipotesi in cui la procedura non sia volta alla conservazione dell'attività d'impresa, ma all'eliminazione della stessa dal mercato mediante la liquidazione di ogni cespite attivo.
Massima

In materia di amministrazione straordinaria ex D. Lgs. 270/1999, nell'ipotesi in cui venga sollevata opposizione all'omologazione del concordato, l'ampiezza del giudizio affidato al Tribunale in sede di omologa - ordinariamente limitato alla verifica della regolarità della procedura ex art. 129, comma 4, l. fall. - è destinato ad estendersi alla valutazione di merito delle censure esposte dai creditori opponenti, tanto più nell'ipotesi in cui la procedura non sia volta alla conservazione dell'attività d'impresa, ma all'eliminazione della stessa dal mercato mediante la liquidazione di ogni cespite attivo.

In considerazione della particolare rilevanza pubblica della prosecuzione dell'attività d'impresa, risulta plausibile che l'interesse collettivo sotteso all'amministrazione straordinaria sia perseguito dall'Autorità amministrativa anche quando implichi il connesso sacrificio dei concorrenti interessi dei creditori; qualora invece il perseguimento dell'interesse pubblico conduca a ritenere necessaria la liquidazione della società in amministrazione straordinaria, sembra ragionevole che il rilievo circa la corrispondenza della soluzione concordataria all'interesse pubblico non esaurisca il novero degli interessi che assumono rilevanza, dovendosi tener conto di quelli espressi dai creditori concorrenti medianti le formali opposizioni all'omologazione giudiziale della proposta di concordato.

Il caso

Con decreto del 22 marzo 2013 il Tribunale di Piacenza omologava la proposta di concordato di una s.p.a. in amministrazione straordinaria trasferendo al terzo assuntore la titolarità dei rapporti attivi e passivi a questa facenti capo. Stante l'opposizione di un creditore all'omologazione del concordato, il sindacato del Tribunale veniva esteso al merito della proposta concordataria, implicando la valutazione del giudice in ordine alla convenienza e compatibilità della stessa rispetto alle altre soluzioni concretamente praticabili.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il decreto in commento si segnala in modo particolare in quanto consente di analizzare l'istituto del concordato nel peculiare contesto dell'amministrazione straordinaria di cui al D. Lgs. n. 270/1999.
La problematica che fa da sfondo alla citata procedura viene comunemente individuata nel difficile contemperamento degli interessi, pubblici e privati, che in diversa misura incidono sulle sorti dell'impresa insolvente. L'individuazione di un interesse pubblico nello stato d'insolvenza della grande impresa porta necessariamente a ridisegnare gli equilibri di un contesto in cui la massimizzazione del profitto da parte dei creditori non assurge più a obiettivo unico della procedura, ma deve concorrere con l'esigenza di conservare i valori dell'impresa.
L'altro aspetto significativo, speculare a quello accennato, riguarda l'ampiezza del sindacato giurisdizionale nella fase di omologazione del concordato, potendo il giudice estendere il proprio sindacato fino ad una valutazione dei motivi di convenienza quando, come nel caso di specie, venga sollevata opposizione da parte di uno o più creditori.
La soluzione adottata dal Tribunale di Piacenza si fonda su una serie di assunti che possono così sintetizzarsi:

  • attesa la mancanza della votazione dei creditori e la considerevole ingerenza lasciata all'autorità amministrativa durante tutto l'iter procedurale, il concordato ex art. 78 D. Lgs. n. 270/1999 ha indiscutibili e riconosciute connotazioni non negoziali;
  • nell'ipotesi in cui venga proposta opposizione all'omologazione da parte di uno o più creditori, il sindacato del Tribunale deve investire necessariamente i profili di merito della proposta concordataria;
  • nell'ipotesi in cui – come nel caso di specie – il programma d'indirizzo adottato non contempli la prosecuzione dell'attività d'impresa, la proposta concordataria potrà essere omologata solo a condizione che nella stessa sia previsto un soddisfacimento del ceto creditorio in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Chiariti in questi termini gli snodi del ragionamento adottato dal Tribunale, l'apprezzabile vantaggio della proposta di concordato dell'assuntore – vantaggio dato, a ben vedere, dall'anticipata monetizzazione, in tempi certi e pressoché immediati, degli assets illiquidi della procedura – e la consistenza delle garanzie offerte dall'assuntore a copertura degli obblighi concordatari, hanno consentito di valutare favorevolmente l'omologazione del concordato, quale miglior strada in concreto percorribile. Va inoltre evidenziato che le censure mosse dal creditore opponente non sono andate oltre la previsione di una maggiore soddisfazione, ricavabile dalla prosecuzione dell'attività liquidatoria, sulla base di una valutazione puramente astratta ed ipotetica.

L'inquadramento giuridico

La specialità del concordato in questione ha portato la dottrina a denominarlo ora concordato straordinario (FIMMANO', 347), ora concordato coattivo (DI MARZIO, 12).
Le esigenze cui il legislatore ha inteso far fronte con l'introduzione dell'amministrazione straordinaria hanno necessariamente comportato la rivisitazione dei tratti peculiari dell'istituto, che lo differenziano in maniera radicale dal concordato preventivo e dal concordato fallimentare.
Ciò in ragione del “fine conservativo” sul quale è imperniata l'amministrazione straordinaria, esplicitato a più riprese dal legislatore (vedi artt. 1, 27, 55 D. Lgs. n. 270/1999) ed individuato nella prosecuzione dell'attività d'impresa e nel mantenimento dei livelli occupazionali, il quale assurge a pubblico interesse che concorre, assieme all'interesse del ceto creditorio al massimo realizzo, nella scelta del programma d'indirizzo da adottarsi in concreto. Viene meno, quindi, la centralità dell'interesse dei creditori – che, storicamente, contraddistingue le procedure d'insolvenza tradizionali – in ragione della compresenza di ulteriori interessi, parimenti tutelati a livello costituzionale, come quelli dei lavoratori o, ancora, dell'integrità dei complessi produttivi.
La decisione in commento consente di riflettere su quale relazione lega i suddetti valori con l'interesse dei creditori al massimo realizzo e sulla misura in cui, individuato nell'impresa in crisi un valore produttivo da salvaguardare, detta esigenza possa condurre al sacrificio (ulteriore) per gli interessi del ceto creditorio.
Va detto sin d'ora che il legislatore non sembra aver ben definito il ruolo dei creditori nella procedura in questione.
Partendo dal dato letterale, non aiuta l'espressione utilizzata all'art. 55, comma 1, del citato decreto, in cui il legislatore, con riferimento all'indirizzo programmatico della procedura, afferma che “il programma è redatto sotto la vigilanza del Ministero dell'Industria ed in conformità degli indirizzi di politica industriale dal medesimo adottati, in modo da salvaguardare l'unità operativa dei complessi aziendali, tenuto conto degli interessi dei creditori”.
Per come è formulata l'ultima parte del periodo, il disposto normativo sembrerebbe porre la tutela del credito in posizione secondaria rispetto al “fine conservativo della procedura”; fine che, si badi bene, non viene identificato solo nel complesso dei beni destinati alla produzione, ma anche nei valori acquisiti dall'attività e ad essa inscindibilmente legati, che, in una liquidazione di tipo fallimentare, verrebbero inevitabilmente dispersi.
In tal senso, il perseguimento dell'interesse pubblico risulterebbe quindi slegato dall'interesse dei creditori al massimo realizzo, nonostante questi ultimi, con l'accertamento dello stato d'insolvenza, diventino i veri “fornitori di capitale di rischio senza i diritti tipici dei soci” (STANGHELLINI, 1, 25), ricadendo su di loro, in definitiva, l'esito incerto della continuazione dell'attività d'impresa. D'altro canto, non si rinviene alcuna specifica disposizione normativa che indirizza lo scopo della procedura al massimo soddisfacimento del ceto creditorio.
Più in generale, da parte di chi coglie la prevalenza all'interesse pubblico sull'interesse dei creditori, è posto l'accento sulla peculiarità delle procedure amministrative, nelle quali si determina una compressione dei diritti del ceto creditorio volta a favorire una migliore emersione di istanze configgenti e prevalenti, quale, su tutti, l'interesse al mantenimento dei livelli occupazionali dei lavoratori. L'assunto sarebbe confermato dalla scelta, operata dal legislatore, di rimettere la tutela delle ragioni dei creditori all'autorità amministrativa, “che ne calibrerà la misura concreta in considerazione degli interessi prevalenti” e, in ultima sede, all'autorità giudiziaria (DI MARZIO, 4).
Valga a descrivere la situazione il seguente esempio (STANGHELLINI, 1, 76).
In caso di vendita di azienda in esercizio da parte del commissario straordinario, la scelta dell'acquirente viene effettuata “tenendo conto, oltre che dell'ammontare del prezzo offerto, dell'affidabilità dell'offerente e del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali da questi presentato, anche con riguardo alla garanzia di mantenimento dei livelli occupazionali” (art. 63, comma 3, D. Lgs. 270/1999). Ciò comporterebbe, presumibilmente, che un'offerta che preveda la prosecuzione dell'attività d'impresa con il mantenimento di determinati livelli occupazionali (nonché, ovviamente, il pagamento dei creditori secondo una determinata percentuale), sia da preferire, a conti fatti, ad un'altra che, pur prevedendo una maggior soddisfazione delle ragioni creditorie, al contempo offra minori garanzie di conservazione dell'impresa e di occupazione dei lavoratori.
Il minor realizzo, in termini economici, dalla vendita effettuata dal commissario si traduce in un minor riparto a favore dei creditori, sui quali viene in definitiva scaricato il maggior onere della prosecuzione dell'attività.
L'esempio fatto consente di evidenziare come, con l'introduzione dell'amministrazione straordinaria, il legislatore si sia trovato di fronte alla difficoltà di coniugare la salvaguardia dei valori produttivi con il soddisfacimento dei creditori; obbiettivi, però, che spesso risultano in antitesi tra loro, imponendo quindi il conseguimento dell'uno con il sacrificio dell'altro.
Sulla prevalenza dell'interesse pubblico, tuttavia, non si registrano opinioni unanimi.
In maniera diametralmente opposta, infatti, è stato evidenziato che le finalità di conservazione del patrimonio produttivo (esplicitate all'art. 1 del D. Lgs. n. 270/1999) individuano in realtà solo lo scopo-mezzo della procedura, mentre scopo-fine rimane il soddisfacimento dei creditori, “attraverso” la procedura (ove venga adottato il programma di cessione) o “per effetto” della procedura (ove venga adottato il programma di ristrutturazione). Una simile conclusione trae conforto dall'analisi delle cause che determinano la chiusura dell'amministrazione straordinaria. Tra queste, sono previste (art.74, comma 1, D. Lgs. 270/1999):

  • la mancanza di domande di ammissione al passivo;
  • il recupero della solvibilità da parte dell'imprenditore;
  • l'omologazione del concordato.

Altresì, tra le ipotesi di chiusura specifiche dell'amministrazione straordinaria con indirizzo di cessione, viene contemplato il pagamento integrale (anche extraconcorsuale) dei creditori (art. 74, comma 2, D. Lgs. 270/1999). Tutte ipotesi, quelle sopraelencate, che testimonierebbero come funzione ultima della procedura sia (seppur con diverse modalità rispetto alle altre procedure concorsuali) il soddisfacimento dei creditori.

Secondo tale ricostruzione, quindi, non vi è dubbio che al primo posto debba collocarsi la tutela degli interessi dei creditori e che, pertanto, la salvaguardia dell'unità operativa dei complessi aziendali e la conformità agli indirizzi di politica di cui all'art. 55 costituiscono “linee guida alle quali attenersi solo ove non ne risultino sacrificati quegli interessi” (NIGRO-VATTERMOLI, 1, 448).
La risposta all'interrogativo - posto in apertura di trattazione - in ordine al grado di incidenza che può avere la tutela dell'interesse pubblico sulle aspettative dei creditori (nel senso di sacrificio loro ulteriormente imposto), evidentemente, non sembra potersi ottenere in maniera assoluta, alla stregua di un principio valido ed applicabile alla generalità dei casi.
Preso atto della riconosciuta centralità dell'interesse pubblico, il programma d'indirizzo della procedura dovrebbe assicurare una pari considerazione delle ragioni creditorie, sia nell'ipotesi di cessione dei complessi aziendali, sia nell'ipotesi in cui il programma preveda la ristrutturazione aziendale.
Ciò non toglie che in detta ultima ipotesi i diritti dei creditori potrebbero addirittura essere maggiormente compromessi dalla prosecuzione dell'attività. Invero, il recupero della solvibilità implica necessariamente un periodo di transizione per l'impresa, in cui la stessa sconta la redditività negativa della propria attività. In caso di esito negativo del programma di ristrutturazione e di conversione dell'amministrazione straordinaria in fallimento, i creditori si troverebbero quindi a concorrere su una massa attiva ulteriormente erosa dai costi sostenuti per la continuazione dell'attività d'impresa.
È anche vero, però, che se l'amministrazione straordinaria non può essere proseguita ovvero si presume che non possa raggiungere risultati proficui, in conseguenza di un aggravamento dello stato d'insolvenza, la tutela del ceto creditorio verrebbe fatta salva dal potere, riconosciuto al Tribunale, di convertire, anche d'ufficio, la procedura in fallimento ex art. 70 D. Lgs. n. 270/1999.
Comunque, anche se non è possibile stabilire in quale misura la salvaguardia dell'interesse pubblico giustifichi una compressione del diritto dei creditori al massimo realizzo, il legislatore, presa coscienza della potenziale conflittualità delle diverse istanze in gioco, nel prevedere la disciplina del concordato coattivo ha necessariamente dovuto attribuirgli tratti peculiari.
Alla luce del contesto sopradescritto, infatti, sembra corretto escludere la natura negoziale del concordato ex art. 78 D. Lgs. 270/1999. In particolare, ciò che osta alla classificazione dello strumento in parola nel novero delle “soluzioni negoziate della crisi” è proprio la mancanza dell'accordo tra debitore insolvente e creditori concorsuali, posto che di accordo possa parlarsi fintanto che il diritto di cui si discute possa essere liberamente esercitato dal soggetto che ne è titolare. A riprova di ciò, basti riflettere sulla scelta del legislatore di non sottoporre la proposta di concordato all'approvazione dei creditori, i quali non possono, con il loro dissenso, impedire l'attuazione dell'accordo, ma possono esclusivamente proporre opposizione suscitando l'intervento dirimente del giudice. In una prospettiva più ampia, l'affievolimento dell'interesse creditorio - cui fa da contrappeso una penetrante ingerenza dell'autorità amministrativa – è reso ancor più evidente dalla mancata contemplazione, nella procedura de qua, di un comitato dei creditori, essendo previsto soltanto un comitato di sorveglianza nel quale gli stessi creditori sono, per espressa volontà del legislatore, in minoranza (art. 45 D. Lgs. n. 270/1999). Ed al concordato si addiviene, come precisa l'art. 78, comma 2, D. Lgs. n. 270/1999, su espressa autorizzazione del Ministero dell'Industria, accordata al debitore o ad un terzo (assuntore), “tenuto conto della sua convenienza e della compatibilità col fine conservativo della procedura”. Detta autorizzazione alla presentazione della proposta di concordato – indipendentemente dall'approvazione dei creditori – mette in risalto come la valutazione discrezionale di un interesse pubblico a che l'impresa torni in bonis e riprenda la sua attività sia necessariamente rimessa all'autorità amministrativa (cfr., Cass. 27 dicembre 2005, n. 28774).
Tratto comune del concordato nelle procedure amministrative era (sui profili di novità emergenti dal D. Lgs. 347/2003, in tema di amministrazione straordinaria speciale, si accennerà infra), pertanto, la sua coattività, cioè la mancanza di votazione da parte dei creditori. Tale opzione di fondo marca la volontà del legislatore di evitare che il dissenso dei creditori possa vanificare l'omologazione di una proposta che, siccome autorizzata dal Ministero, si presume conforme all'interesse pubblico.
Una scelta, quella in questione, segno di evidente favor del legislatore per la sopravvivenza dell'impresa, già privilegiata, in ragione delle riscontrate prospettive di recupero, con l'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria in luogo dell'apertura del fallimento (FIMMANO', 355).
Il deficit rappresentato dall'impossibilità di rimettere la proposta concordataria all'approvazione dei creditori non può dirsi sufficientemente controbilanciato dalla facoltà di presentare opposizione nei termine previsto dall'art. 214 l. fall., cui fa espressamente rinvio l'art. 78 D. Lgs. 270/1999. La suddetta facoltà non è per nulla assimilabile al voto contrario, né la sua mancata presentazione implica l'assenso al piano di concordato (FIMMANO', 348). Si tratta, essenzialmente, dell'espressione di un dissenso motivato all'omologazione del concordato e, secondo una parte della giurisprudenza (Cass., 18 marzo 2008, n. 7263) e della dottrina (BLATTI-MINUTOLI, 1620), per come è strutturata, l'opposizione accentua il carattere coattivo dell'istituto, in quanto, a differenza dell'approvazione a maggioranza, è espressione degli interessi del singolo e non dell'intero ceto creditorio.
Si assiste quindi, nel concordato coattivo, ad un radicale cambiamento di prospettiva del creditore.
Infatti, mentre nel concordato preventivo ed in quello fallimentare il creditore salvaguarda la propria aspettativa partecipando in prima persona alle scelte sulla sorte dell'impresa ed autotutelandosi con l'espressione del voto in sede di adunanza, nel concordato ex art. 78 D. Lgs. n. 270/1999 è privato dell'esercizio di un diritto di cui è esclusivo titolare. Con riferimento a tali fattispecie, il legislatore ha scelto la via dell'eterotutela (DI MARZIO, 10); di una tutela del credito, quindi, non affidata al diretto interessato, ma rimessa all'autorità amministrativa (prima) ed all'autorità giudiziaria poi (in sede di omologa).
Nulla quaestio, quindi, nell'ipotesi in cui non vengano presentate opposizioni da parte dei creditori. L'esplicito rinvio all'art. 214 l. fall. porta a concludere che, in assenza di opposizioni, il tribunale circoscriverà il proprio giudizio ai soli aspetti di legittimità della procedura. In altre parole, allo stesso è preclusa la valutazione di compatibilità e convenienza del concordato con il fine conservativo della procedura, essendo quest'ultima prerogativa di stretta competenza ministeriale, obiettivata, inizialmente, nell'autorizzazione del proponente alla presentazione della proposta e, prima del giudizio di omologazione, nell'emissione del parere obbligatorio. Come è stato osservato, se così non fosse, si configurerebbe una ingiustificata sovrapposizione di competenze tra Ministero ed autorità giudiziaria (MAFFEI ALBERTI, 1875).
Il sindacato giurisdizionale è destinato ad ampliarsi, invece, qualora venga promossa opposizione da parte di uno o più creditori dissenzienti. Il giudizio del Tribunale, in tali casi, implica la discussione nel merito delle doglianze espresse dagli opponenti. Nulla vieta che il giudice, anche in presenza del fermo dissenso dei creditori, decida per l'omologazione del concordato. Purché, ovviamente, la proposta risulti conforme al criterio di convenienza e compatibilità; criterio che, quindi, andrà calibrato in modo diverso in situazioni diverse, fino a ridursi all'unico obiettivo del massimo soddisfacimento dei creditori nel concordato meramente liquidatorio (FIMMANO', 345).
Tale ultimo rilievo viene messo in luce altresì nel decreto in commento, in cui il Tribunale, nel differenziare l'ipotesi in cui sia prevista la conservazione dell'attività d'impresa da quelle nelle quali assume ruolo prevalente la funzione riallocativa dell'attivo aziendale, fa derivare un diverso trattamento per il ceto creditorio, in ragione della concorrenza (o meno) dell'interesse pubblico assieme a quello dei creditori.
Ciò significa che, nell'ipotesi in cui l'impresa sia destinata alla liquidazione, il Ministero competente effettuerà un vaglio della soluzione concordataria avuto riguardo, principalmente, alla consistenza economica dell'offerta e, per ottenere parere favorevole, la percentuale di soddisfacimento proposta ai creditori dovrà essere perlomeno equivalente a quella ipotizzabile per effetto della liquidazione.

Conclusioni

Il decreto in commento sembra potersi condividere per le fondate e coerenti argomentazioni poste a fondamento dell'omologazione del concordato.
L'impasse che si viene a creare in ragione della difficile coesistenza di interessi pubblici e privati può essere, quindi, in parte superata dall'intervento dell'autorità giudiziaria, chiamata, in sede di giudizio d'omologazione, a contemperare le diverse istanze spesso in conflitto tra loro.
Ciò, però, può non essere sufficiente, perché una procedura così congegnata appare, attualmente, in controtendenza con la volontà del legislatore, volta sempre più a privatizzare l'intero diritto della crisi d'impresa, rimettendo all'accordo debitore-creditori la regolazione della stessa.
Già con l'introduzione dell'amministrazione straordinaria speciale (D.L. 347/2003) è stato chiaro l'intento legislativo di coinvolgere maggiormente i creditori nella ristrutturazione dell'impresa in crisi, prevedendo un concordato più flessibile e modulabile nel suo contenuto, rimesso in questo caso all'approvazione dei creditori. In un simile contesto, l'allontanamento dalle forme di concordato fino ad allora conosciute è stato vistoso.
Sicuramente, anche sotto il profilo letterale, il concordato ex art. 4-bis D.L. 347/2003 ha costituito il substrato dei cambiamenti che poco tempo dopo (a partire dalla riforma del 2005) avrebbero riguardato altresì il concordato preventivo e quello fallimentare.
Da ultimo, con D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012, il legislatore ha disciplinato per la prima volta il concordato preventivo con continuità aziendale, riconoscendo, così, il valore di quella conservazione dell'impresa che già assurgeva a presupposto fondante dell'amministrazione straordinaria. Anche perché, si è ritenuto, la novella legislativa dovrebbe consentire l'accesso al concordato con continuità di imprese astrattamente soggette alla procedura d'amministrazione straordinaria, posto che verrebbe comunque garantita quella continuazione dell'attività d'impresa che non sarebbe invece preservata da un concordato liquidatorio (MAFFEI ALBERTI, 1327).
Tuttavia non è di poca portata nella nuova normativa l'affermazione chiara del principio di garanzia per i creditori che, quindi, oggi è inequivocabile: la continuità aziendale nel concordato preventivo è realizzabile solo nel caso in cui il complessivo valore del patrimonio del debitore si ridurrebbe se l'attività d'impresa venisse interrotta. È questo il senso dell'art. 186-bis, comma 2 lett. b) secondo cui il professionista “deve attestare che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.
Appare quindi estranea al concordato preventivo la continuità aziendale come valore in sé, affermato e tutelato anche contro l'interesse dei creditori, come abbiamo visto accadere nel caso dell'amministrazione straordinaria.
Di grande rilevanza in questa dimensione la previsione dell'art. 186-bis, comma 2, lett. a), secondo cui il piano “deve contenere anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura” sia nell'ipotesi di continuazione dell'attività di impresa in capo al debitore, sia in quella di cessione o di conferimento dell'azienda in esercizio.
Anche in questo caso la norma è nuovamente dettata per garantire gli interessi dei creditori in tutte le ipotesi in cui l'andamento dell'impresa sia per loro rilevante.
Se questa rilevanza è evidente nella prima sub-fattispecie (NIGRO-VATTERMOLI, 2, 20), in cui lo stesso imprenditore prosegue l'attività d'impresa - e ciò comporta l'ovvia necessità di un'attenta valutazione sulla fondatezza della previsione di costi e ricavi, sulle risorse finanziarie necessarie e sulle fonti realistiche delle stesse - a prima vista potrebbe esserlo meno nella seconda.
Tuttavia, anche in tale ipotesi l'andamento dell'impresa acquista comunque rilevanza per i creditori quando essi sono sottoposti, come è stato efficacemente sintetizzato, al “rischio di perdita” e al “rischio di prededuzione” (STANGHELLINI, 2, 130).
L'introduzione del concordato con continuità aziendale, non configurando a ben vedere una nuova fattispecie, ma una nuova disciplina di una fattispecie già ampiamente nota e realizzata, contribuisce ad affermare il principio che la salvaguardia dei complessi produttivi e il mantenimento dei livelli occupazionali sono sicuramente un valore, ma non possono andare a discapito della migliore soddisfazione dei creditori.
Tale principio, sia pure emergente in un contesto diverso, ma, come visto, non incompatibile con quello dell'amministrazione straordinaria, può fornire spunti fecondi nell'ottica di interpretazione delle norme vigenti e in quella di riforma.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per la dottrina si vedano: C. BLATTI - B. MINUTOLI, Commento all'art. 214 l. fall., in La legge fallimentare, Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, Padova, 2007; F. DI MARZIO, Diritto negoziale e crisi della grande impresa, in il Fallimentarista.it, 13 aprile 2012; F. FIMMANO', La ristrutturazione mediante concordato della grande impresa in amministrazione straordinaria, in Dir. Fall., 2010, 328 ss.; A. MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013; A. NIGRO – D. VATTERMOLI, (1) Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2012; A. NIGRO – D. VATTERMOLI, (2) Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Appendice d'aggiornamento in relazione al d.l. n. 83/2012 conv. dalla l. n. 134/2012, Bologna, 2012; L. STANGHELLINI, (1) Le crisi d'impresa tra diritto ed economia, Le procedure d'insolvenza, Bologna, 2007; L. STANGHELLINI (2) Concordato con continuità aziendale: la fattispecie, in AA.VV., Crisi d'impresa e continuità aziendale, Atti del corso di perfezionamento “Il nuovo diritto fallimentare”, Firenze, 15 e 29 novembre 2012, II, 130 s..
Per la giurisprudenza: Cass., 27 dicembre 2005, n. 28774; Cass., 18 marzo 2008, n. 7263.

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