Trasferimento di imprese, diritti dei lavoratori e concordato preventivo: rilievi di diritto comunitario

25 Giugno 2013

Al fine del mantenimento dei diritti dei lavoratori come previsti ai sensi dell'art. 2112 c.c., il nuovo comma 4-bis dell'art. 47, L. 428/90 distingue i casi in cui sia intervenuta la dichiarazione dello stato di crisi aziendale ai sensi della L. 675/77 dalle ipotesi di procedura concorsuale (fallimento e concordato preventivo), di liquidazione coatta amministrativa e dell'amministrazione straordinaria di grandi imprese in crisi di cui al D. Lgs. 270/90. Nel caso di grave crisi aziendale è possibile stipulare un accordo sindacale con cui sono definiti i limiti entro i quali trova applicazione l'art. 2112 c.c., a condizione che si preveda il mantenimento anche parziale dell'occupazione. Negli altri casi è possibile derogare alla disciplina di cui all'art. 2112 c.c. qualora sia stipulato un accordo che preveda il mantenimento anche parziale dell'occupazione (massima non ufficiale).
Massima

Al fine del mantenimento dei diritti dei lavoratori come previsti ai sensi dell'art. 2112 c.c., il nuovo comma 4-bis dell'art. 47, L. 428/90 distingue i casi in cui sia intervenuta la dichiarazione dello stato di crisi aziendale ai sensi della L. 675/77 dalle ipotesi di procedura concorsuale (fallimento e concordato preventivo), di liquidazione coatta amministrativa e dell'amministrazione straordinaria di grandi imprese in crisi di cui al D. Lgs. 270/90. Nel caso di grave crisi aziendale è possibile stipulare un accordo sindacale con cui sono definiti i limiti entro i quali trova applicazione l'art. 2112 c.c., a condizione che si preveda il mantenimento anche parziale dell'occupazione. Negli altri casi è possibile derogare alla disciplina di cui all'art. 2112 c.c. qualora sia stipulato un accordo che preveda il mantenimento anche parziale dell'occupazione (massima non ufficiale).

Il caso

Con la sentenza in oggetto il Tribunale di Roma affronta la questione, finora poco trattata dalla giurisprudenza nazionale, della possibilità di derogare alla disciplina di cui all'art. 2112 c.c. in caso di trasferimento di imprese sottoposte a concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni, ovvero a procedure finalizzate alla liquidazione del patrimonio del debitore. Il caso ha dunque offerto l'occasione ai giudici capitolini di pronunciarsi, sulla scia di quanto affermato dalla Corte di Giustizia dell'UE, sulla compatibilità della normativa italiana con la Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti. Nella presente fattispecie, una società operante nel settore dei prodotti per la cosmesi, previo affitto della propria azienda, presentava di seguito un ricorso ex art. 160 e ss. l. fall. Successivamente all'omologazione del concordato preventivo, una dipendente non trasferita alla cessionaria proponeva ricorso ex art. 414 c.p.c.: in particolare, parte attrice sosteneva che il concordato preventivo sarebbe stato paragonabile ad una procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e, pertanto, non avente finalità liquidatoria; per tale ragione, e con riferimento alla cessione di azienda effettuata nell'ambito della suddetta procedura concorsuale, non avrebbe dovuto essere applicato l'art. 47 della legge 428/1990 che ammette una deroga al diritto dei lavoratori, in caso di trasferimento d'azienda, a continuare il rapporto di lavoro con il cessionario, alle medesime condizioni normative e contrattuali preesistenti.
Il Tribunale di Roma ha, tuttavia, respinto il ricorso, riconoscendo, da un lato, la piena conformità dell'art. 47 della legge 428/1990, come da ultimo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, alla Direttiva 2001/23/CE e, dall'altro, che l'avvenuta omologazione del concordato preventivo con cessione di beni giustifica la mancata applicazione della citata Direttiva e, quindi, della disciplina di cui all'art. 2112 c.c.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il Tribunale di Roma si è anzitutto soffermato ad analizzare la deroga all'applicazione dell'art. 2112 c.c., riconoscendone la legittimità poiché posta in essere nel pieno rispetto della normativa nazionale e comunitaria in materia di aziende in crisi.
L'art. 2112 c.c. stabilisce, infatti, che, in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario, alle medesime condizioni normative e contrattuali preesistenti; questa disciplina può essere tuttavia derogata nel caso in cui il trasferimento interessi aziende in crisi.
Occorre preliminarmente osservare che l'articolo 47 della L. n. 428/90, nella versione antecedente alla novella del 2012, stabiliva che nel caso di trasferimento di aziende di cui il CIPI aveva accertato lo stato di crisi, non si applicasse l'art. 2112 c.c. ai lavoratori trasferiti. La stessa norma riconosceva ai lavoratori rimasti alle dipendenze del venditore un diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dal cessionario entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi; anche in caso di assunzione di questi lavoratori si escludeva l'applicazione dell'art. 2112 c.c.
La disciplina contenuta nell'art. 47 della L. n.428/90, è stata portata avanti alla Corte di Giustizia Europea per contrasto con la Direttiva 2001/23/CE.. In particolare, al fine di proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, l'art. 3 della Direttiva stabilisce che i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario. Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest'ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo.
La stessa Direttiva dispone, poi, all'art. 5 che gli Stati membri non sono obbligati a garantire le tutele previste per i casi di trasferimento d'azienda, ove il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di insolvenza analoga, aperta in vista della liquidazione dei beni, a condizione che tali procedure si svolgano sotto il controllo di un'autorità pubblica competente. Tuttavia, secondo la Direttiva citata, nelle ipotesi in cui esista procedura di insolvenza, il legislatore interno può disporre che il cessionario e il cedente, da un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall'altro, possano convenire modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti.
Sulla scorta di quanto riferito dalla summenzionata Direttiva, la Commissione europea ha impugnato la disciplina italiana, sostenendo che l'art. 47 della L. 428/90 (nella versione antecedente alla novella del 2012) non era conforme alla normativa comunitaria, laddove non garantiva l'applicazione dell'art.2112 c.c. in caso di trasferimento di azienda in stato di crisi. Nello specifico, la Commissione sosteneva che un'impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi non poteva rientrare nelle previsioni di cui all'art. 5 della Direttiva, in quanto lo stato di crisi non era equiparabile a una procedura di insolvenza finalizzata alla liquidazione dei beni, così come statuito da tale disposizione.
La Corte di Giustizia, con sentenza dell'11 giugno 2009, causa C-561/07, ha accolto i rilievi critici della Commissione. Veniva, infatti, rilevato che l'art. 3, n. 4, della Direttiva prevede un'eccezione alla regola che impone al cessionario di mantenere i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente dal rapporto di lavoro; tale eccezione riguarda i diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari di previdenza professionali o interprofessionali, esistenti al di fuori dei regimi legali di sicurezza sociale. Trattandosi di eccezione alla regola, secondo la Corte la disposizione deve essere interpretata restrittivamente; inoltre, quando gli Stati membri applicano tale eccezione, essi sono tenuti ad adottare i provvedimenti necessari a tutelare gli interessi dei lavoratori per quanto riguarda i diritti da essi maturati o in corso di maturazione a prestazioni di vecchiaia, comprese quelle per i superstiti, dei regimi complementari di cui alla lett. a) della medesima disposizione.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha dichiarato che l'Italia, al momento dell'approvazione dell'art. 47, avrebbe dovuto garantire l'adozione di tutti i provvedimenti necessari a tutelare gli interessi dei lavoratori con riferimento ai loro diritti a prestazioni di vecchiaia. Pertanto, in virtù delle differenze sostanziali tra stato di crisi e stato di insolvenza, la Corte ha concluso per l'esclusione dell'applicazione dell'eccezione prevista dall'art. 5 della Direttiva alle imprese in crisi di cui all'art. 47 della legge italiana, e ha dichiarato che l'art. 47 della L. n. 428/90 non garantiva i diritti dei lavoratori nel caso di trasferimento di un'azienda “in crisi”.
Per dare attuazione alla sentenza in questione, il legislatore nazionale ha introdotto l'art.19-quater della legge 20 novembre 2009, n. 166 (con cui è stato convertito il D.L. 25 settembre 2009, n.135), che ha modificato l'art. 47 della L. 428/1990. È stato, anzitutto, aggiunto il comma 4-bis che prevede che nel caso sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, l'art. 2112 c.c. trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:
a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale ex art. 2, comma 5, lettera c), L. 1977, n. 675;
b) per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria ai sensi del D. Lgs. n. 270/1999, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività;
b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo;
b-ter) per le quali vi sia stata l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti.
In secondo luogo, è stato mantenuto in vigore l'art. 47, comma 5 che esclude l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. alle situazioni di insolvenza dell'impresa (concordato preventivo con cessione di beni, amministrazione straordinaria), senza tuttavia il riferimento alle aziende o unità produttive delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale.
In queste circostanze il Tribunale di Roma ha riconosciuto che, se il trasferimento riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, o per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ma l'attività continua e non cessa, è possibile stipulare un accordo sindacale con cui sono definiti i limiti entro i quali trova applicazione l'art. 2112 c.c., a condizione che sia previsto il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione. Se, invece, il trasferimento riguarda imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, allora non trova applicazione l'art. 2112 c.c. e tale mancata applicazione dell'art. 2112 c.c. è condizionata alla stipula di un accordo sul mantenimento anche parziale dell'occupazione.
Con specifico riferimento al caso di specie, il Tribunale ha quindi considerato che i requisiti previsti dall'art. 47 della L. 428/1990, per l'operatività delle deroghe circa l'applicazione dell'art. 2112 c.c. erano stati integralmente soddisfatti. In primo luogo, erano state rispettate tutte le normative regolanti la disciplina circa la richiesta e concessione della CIGS. Secondariamente, il trasferimento dell'azienda era avvenuto: i) previa la dichiarazione dello stato di crisi per cessazione di attività; ii) previa la stipulazione di accordi sindacali redatti a norma dell'art. 47, Legge 428/1990, come novellato dall'art. 19-quater della legge 166/2009; iii) nell'ambito di un concordato preventivo c.d. per cessio bonorum.
A fondamento di tali valutazioni, il Tribunale ha infine sottolineato come il concordato preventivo dell'azienda in questione avesse avuto finalità liquidatorie, avendo previsto l'intera dismissione del patrimonio della società (diversamente rientrano nell'ambito di applicazione della Direttiva 2001/23/CE i trasferimenti operati nell'ambito di imprese sottoposte a procedure concorsuali il cui scopo è la salvaguardia del patrimonio del debitore e la prosecuzione dell'attività di impresa), con la conseguenza che il rapporto di lavoro della ricorrente non poteva considerarsi legittimamente trasferito ai sensi dell'art. 2112 c.c.

Osservazioni

La pronuncia in esame risulta particolarmente interessante in quanto l'analisi condotta dal Tribunale di Roma appare pienamente conforme alla giurisprudenza formatasi a livello comunitario in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda, come disciplinato dalla Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001. Ai sensi di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, rientrano, infatti, nell'ambito di applicazione della direttiva solo i trasferimenti effettuati nell'ambito di imprese sottoposte a procedure concorsuali il cui scopo sia la salvaguardia del patrimonio del debitore e la prosecuzione dell'attività di impresa; al contrario, non vi rientrano le procedure cd. ‘liquidatorie', miranti cioè alla liquidazione del patrimonio del debitore. Ai sensi dell'art. 1, n. 1, la direttiva 2001/23 si applica ai trasferimenti di imprese in seguito a cessione contrattuale o a fusione. La Corte è stata indotta a precisare la nozione di «cessione contrattuale» in relazione, in particolare, ai trasferimenti di imprese effettuati nell'ambito di procedimenti amministrativi o giudiziari.
Nella sentenza 7 febbraio 1985, Abels la Corte ha dichiarato che la direttiva 77/187 (applicabile in quel periodo, ma le cui disposizioni sono state poi riprese dalla direttiva 2001/23/CE) non si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti avvenuti nell'ambito di un procedimento fallimentare mirante, sotto il controllo della competente autorità giudiziaria, alla liquidazione dei beni del cedente. Per contro, dalla stessa sentenza risulta che la direttiva 77/187 si applica a un procedimento di «surséance van betaling» (sospensione dei pagamenti), benché presenti talune caratteristiche comuni con il procedimento fallimentare (punti 28-29 della sentenza). La Corte ha, infatti, dichiarato che i motivi che si opponevano all'applicazione della direttiva 77/187 nei procedimenti fallimentari non erano validi allorché il procedimento in questione comportava un controllo del giudice di portata più limitata rispetto al procedimento fallimentare, e allorché esso mirava, in primo luogo, alla salvaguardia del patrimonio e, eventualmente, al proseguimento dell'attività dell'impresa mediante la sospensione collettiva dei pagamenti.
Nella sentenza 25 luglio 1991, D'urso e a., la Corte ha dichiarato che la direttiva 77/187 non si applicava ai trasferimenti di imprese effettuati nell'ambito di una procedura concorsuale quale quella prevista dalla normativa italiana sulla liquidazione coatta amministrativa, i cui effetti sono equiparabili a quelli del fallimento. Per contro, essa ha dichiarato che la direttiva 77/187 si applica allorché, nell'ambito della normativa italiana sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, l'autorità competente ha autorizzato la continuazione dell'attività dell'impresa e finché questa decisione rimane in vigore. In una tale ipotesi, la finalità del procedimento di amministrazione straordinaria sta anzitutto nel restituire all'impresa un equilibrio che consenta di garantire la sua attività futura. L'obiettivo economico e sociale così perseguito non può spiegare né giustificare il fatto che, quando l'impresa interessata costituisce oggetto di un trasferimento, i suoi lavoratori vengano privati dei diritti che la direttiva 77/187 conferisce loro.
Infine, nella sentenza 7 dicembre 1995, Spano e a., la Corte ha dichiarato che la direttiva 77/187 si applica al trasferimento di un'impresa quale un'impresa di cui sia stato dichiarato lo stato di crisi conformemente alla legge italiana n. 675/77. È stato, infatti, osservato che il provvedimento con il quale un'impresa è dichiarata in stato di crisi è volto a consentire il risanamento della sua situazione economica e finanziaria e soprattutto il mantenimento dell'occupazione, che il procedimento in questione mira, quindi, a favorire la prosecuzione della sua attività nella prospettiva di una futura ripresa e che, contrariamente a quanto avviene con i procedimenti di fallimento, esso non implica alcun controllo giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell'impresa, né una sospensione dei pagamenti (punti 26, 28 e 29 della sentenza).
Da questa giurisprudenza risulta pertanto che, per valutare se la direttiva in questione si applichi al trasferimento di un'impresa che costituisce oggetto di un procedimento amministrativo o giudiziario, il criterio determinante da prendere in considerazione è quello dell'obiettivo perseguito dal procedimento stesso (cfr. sentenze D'Urso e a., punto 26 e Spano e a., punto 24).
Nelle successive sentenze Dethier Équipement e Europièces, la Corte ha poi dichiarato che, se il criterio relativo allo scopo perseguito dal procedimento non è concludente, occorre procedere all'esame delle modalità del suddetto procedimento, quali l'esistenza e la portata del controllo giudiziario.
Ebbene, sono questi i principi applicazione ricondotti dal Giudice di Roma al caso di specie e alla cui luce ha valutato l'applicabilità ovvero la deroga della direttiva 2001/23/CE al caso di specie. Che un tale modus procedendi sia l'approccio corretto risulta, peraltro dalle Conclusioni presentate dall'Avvocato Generale Lèger (“AG”) nell'ambito del procedimento C-145/01 che, seppur non sfociato in sentenza di merito, ha trattato la medesima questione. Nello specifico, l'AG ha analizzato la compatibilità della normativa italiana sul concordato preventivo come disciplinato dagli artt. 160-186 l. fall. (ante riforma) rispetto al dettato comunitario sopra richiamato.
L'AG ha in primo luogo riconosciuto che la normativa nazionale non definiva chiaramente che l'obiettivo perseguito dalla procedura del concordato preventivo. Mentre infatti talune disposizioni della legge fall. lasciavano pensare che la procedura controversa mirasse ad assicurare la liquidazione dei beni del debitore al fine di soddisfare collettivamente i creditori, per contro, altre disposizioni del decreto n. 267/42 inducevano a ritenere che la procedura nazionale avesse come obiettivo principale quello di evitare il fallimento del debitore e che essa mirasse, quindi, ad assicurare la continuazione dell'attività dell'impresa. Pertanto, l'AG riconosceva che il criterio relativo all'obiettivo perseguito dalla procedura non consentiva, nella fattispecie, di determinare se la direttiva 77/187 dovesse essere applicata ai trasferimenti di imprese che avvengono nell'ambito di un concordato preventivo consistente nella cessione dei beni.
Conformemente alla giurisprudenza della Corte, l'AG procedeva quindi con l'analisi della normativa italiana sul concordato preventivo, esaminandone le modalità applicative. Nella citata sentenza Dethier Équipement, alla Corte era stata sottoposta la questione se la direttiva 77/187 si applicasse alla procedura belga di liquidazione giudiziaria. Constatando che l'analisi degli obiettivi perseguiti dalla procedura non era concludente, la Corte ha esaminato le modalità di questa procedura nei termini seguenti: “dalla decisione di rinvio si ricava che, nel caso della liquidazione, il liquidatore, benché nominato dal giudice, è un organo della società il quale procede alla vendita dell'attivo sotto la tutela dell'assemblea generale, che non esiste una procedura speciale di accertamento del passivo sotto il controllo del tribunale e che un creditore può, in linea di principio, procedere all'esecuzione forzata nei confronti della società, ottenendone la condanna. Viceversa, nel caso del fallimento, il curatore, in qualità di rappresentante dei creditori, si trova in posizione di terzietà rispetto alla società e procede al realizzo dell'attivo sotto la sorveglianza del giudice, il passivo della società è accertato secondo una procedura speciale e gli atti individuali di esecuzione sono vietati. Sembra pertanto che la situazione di un'impresa in liquidazione giudiziale presenti differenze notevoli rispetto a quella di un'impresa fallita e che le ragioni che hanno indotto la Corte a escludere l'applicazione della direttiva in quest'ultima ipotesi possano venir meno nel caso di un'impresa in liquidazione giudiziale” (punti 29 e 30 della sentenza).
La Corte ha così ammesso tre criteri per concludere che la situazione di un'impresa in liquidazione giudiziale presentava differenze rispetto a quelle di un'impresa fallita. Questi criteri sono: (i) l'appartenenza del liquidatore alla società; (ii) l'assenza di procedura speciale di accertamento del passivo; nonché (iii) la possibilità di procedere all'esecuzione forzata nei confronti della società. Come riconosciuto dall'AG nelle proprie Conclusioni, con riferimento alla procedura di concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni (nella disciplina ante riforma) le tre condizioni non sussistono.
Per quanto riguarda il primo criterio, la Legge Fallimentare (anche quella ante riforma oggetto della analisi dell'AG) stabilisce che sia il commissario giudiziale, sia il liquidatore giudiziale sono organi nominati dal Tribunale col compito di controllare, il primo, e dare impulso, il secondo, all'esecuzione del concordato attraverso il compimento degli atti stabiliti nel piano (al fine di procedere alla liquidazione del patrimonio sociale): tali soggetti non possono appartenere alla società ricorrente (si vedano, in particolare, artt. 165 e 185 l. fall.).
Per quanto riguarda il secondo criterio, la Legge Fallimentare (sia ante riforma che post riforma) contiene una procedura speciale di accertamento del passivo sotto il controllo del tribunale competente (si confrontino artt. 161 e 171, comma 1, l. fall.)
Infine, per quanto riguarda il terzo criterio, l'AG ha rilevato che la normativa italiana vieta formalmente l'esercizio di provvedimenti di esecuzione forzata per la durata della procedura di concordato preventivo (sul punto l'AG ha richiamato quanto stabilito dall'art. 168 l. fall.).
Da questi differenti elementi risulta pertanto che la procedura italiana di concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni presenta caratteristiche che, secondo la giurisprudenza della Corte, si avvicinano maggiormente a quelle del fallimento in quanto mira essenzialmente alla liquidazione dei beni del debitore al fine del soddisfacimento collettivo dei creditori e pertanto, come affermato dall'AG Lèger nell'ambito del procedimento C-145/01, la direttiva 2001/23/CE, invocata da parte attrice nel procedimento che ha portato alla sentenza in commento, non si applica ai trasferimenti di imprese che avvengono nell'ambito di questa procedura.

Le questioni aperte

Nel 1997 la Commissione ha pubblicato un Memorandum sui diritti acquisiti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, poi aggiornato nel 2004 e recante le linee guida per l'applicazione, dapprima, della Direttiva 77/187/CEE come modificata dalla Direttiva 98/50/CE, e successivamente della Direttiva 2001/23/CE, sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'UE. Per garantire la sopravvivenza delle imprese insolventi, l'articolo 5 della Direttiva accorda agli Stati membri una certa elasticità. In linea di massima, gli articoli 3 e 4 della Direttiva non si applicano alle procedure di insolvenza aperte in vista della liquidazione dei beni del cedente sotto il controllo di un'autorità pubblica competente. Quando tuttavia questi due articoli si applicano a una procedura di insolvenza sotto il controllo di un'autorità pubblica competente, gli Stati membri possono prevedere, a norma dell'articolo 5, paragrafo 2:
a) che alcuni debiti del cedente non siano trasferiti al cessionario, a condizione che tali procedure diano adito ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del Consiglio del 20 ottobre 1980. Al fine di beneficiare di tale deroga, questi debiti
- deve risultare da un contratto di lavoro o da rapporti di lavoro e
- devono essere pagati prima del trasferimento o prima dell'apertura della procedura di insolvenza;
e, in alternativa,
b) che le modifiche da apportare al termini dei lavoratori e condizioni di lavoro, a condizione che:
- la normativa vigente e della prassi lo consentano;
- siano dirette a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento o di una parte dell'impresa o delle imprese e
- vi sia l'accordo, da un lato, del cedente cessionario, o della persona o delle persone che esercitano la funzione di cedente, e dall'altro dei rappresentanti dei lavoratori.
Quanto invece all'applicazione dell'articolo 5, paragrafo 3, l'Italia è l'unico Stato membro in cui, al momento di introduzione della disposizione, il diritto nazionale definiva una situazione di grave crisi economica grave tale da autorizzare legittimamente la modifica delle condizioni di lavoro conformemente all'articolo 5, paragrafo 2, punto b). La Commissione ha, tuttavia, ritenuto che la legislazione italiana andasse ben oltre questa semplice modifica delle condizioni di lavoro in quanto comportava l'esclusione dei lavoratori delle imprese in crisi dal beneficio degli articoli 3 e 4 della Direttiva. In tali condizioni, la Commissione ha deciso di porre l'Italia in infrazione ai sensi dell'articolo 226 CE, oggi articolo 258 TFUE (procedura n. 2005/2433). La Corte di Giustizia, chiamata a verificare la compatibilità con l'ordinamento comunitario4 della disciplina italiana rappresentata dall'articolo 47, commi 5 e 6, della L. 428/1990, ha quindi negato con la sentenza dell'11 giugno 2009, causa C-561/07 sopra citata, che l'art. 47 potesse iscriversi nella deroga di cui all'art. 5, paragrafo 3, della Direttiva e ciò per due ragioni: anzitutto il fatto che la norma interna, lungi dal prevedere solo “modifiche delle condizioni di lavoro”, escludeva di fatto l'applicazione di ogni garanzia per i lavoratori e, in secondo luogo, l'assenza di un controllo giudiziale.
Tali requisiti sono stati integrati per mezzo della modifica del citato art. 47 introdotta dall'art. 19-quater della L. 166/2009 di conversione del decreto n. 135/2009. Il nuovo comma 4-bis dell'art. 47 scorpora, al fine di dettare una disciplina più specifica, i casi in cui sia intervenuta la dichiarazione dello stato di crisi aziendale ai sensi della L. n. 675/77 dalle altre ipotesi di procedure concorsuali (fallimento e concordato preventivo), di liquidazione coatta amministrativa e dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al d.lgs. n. 270/99 e successive modificazioni. In effetti, viene anzitutto affermata l'applicabilità delle garanzie di cui all'art. 2112 c.c. e, dunque, in conformità alla sentenza della Corte di Giustizia, l'eliminazione della deroga alla norma codicistica in caso di provvedimento di ammissione alla CIGS. Nel caso di grave crisi economica, è l'accordo raggiunto con le associazioni sindacali a determinare la possibilità di un'applicazione ‘adattata' dell'art. 2112 c.c.: ed, infatti, continuando a fare riferimento ad un accordo sindacale che abbia ad oggetto il “mantenimento, anche parziale, dell'occupazione”, si suppone che l'accordo incida direttamente, escludendolo, sul passaggio al cessionario dei lavoratori che si considerano eccedentari e regoli il passaggio degli altri.
Questo approccio non convince. Ad un'attenta rilettura della sentenza dell'11 giugno 2009, causa C-561/07, la Corte UE aveva condannato l'Italia per mancata conformità alla Direttiva 2001/23/CE delle disposizioni di cui all'art. 47, commi 5 e 6, della L. 428/1990, in caso di crisi aziendale a norma dell'art. 2, comma 5, lett. c), L. 675/77 proprio perché non venivano garantiti i diritti di cui agli art. 3 e 4 della Direttiva nel caso in cui lo stato di crisi sia stato accertato. Non risultano pertanto superati i rilievi proposti dalla Corte di Giustizia UE dal momento che il legislatore nazionale, nella nuova formulazione del comma 4-bis introdotto dalla novella del 2012 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), ha mantenuto la deroga all'art. 2112 c.c. in caso di continuazione o mancata accettazione dell'attività con la conseguenza di negare, di fatto, quegli stessi diritti previsti a livello comunitario e il cui rispetto è stato invece sancito dalla Corte di Giustizia con la sentenza dell'11 giugno 2009.

Conclusioni

La sentenza in commento appare di sicuro interesse in quanto offre un buon esempio di come i giudici nazionali risultano sempre più spesso chiamati a interpretare e applicare le norme di origine UE, con esiti a volte ambivalenti. Senza voler entrare nell'argomento della ripartizione di competenze tra organi UE e nazionali, fermo il principio dell'efficacia solo verticale delle direttive da tempo riconosciuto dalla Suprema Corte di Cassazione, l'art. 47 della L. 428/1990 continuerà a trovare applicazione così come è scritto nell'ambito dei rapporti tra privati, senza che il giudice dello Stato possa avventurarsi in quell'interpretazione ‘comunitariamente orientata' tanto auspicata dalla dottrina, ma che trova un ostacolo insormontabile nella chiarissima espressione della norma interna.
Di conseguenza, l'unico rimedio per il lavoratore che invochi l'applicazione della direttiva anche nei casi di crisi aziendale, sarà quello del risarcimento del danno per violazione della stessa, facendo valere la responsabilità extracontrattuale dello Stato. Pertanto, nella materia in discussione il giudice chiamato a pronunciarsi su una controversia insorta tra i soggetti del posto di lavoro sarà tenuto ad applicare al provvedimento/comportamento in contestazione esclusivamente la vigente normativa interna, ancorché contrastante con la normativa comunitaria di riferimento e anche nel caso in cui la Corte di Giustizia UE si sia già pronunciata in tal senso in sede di rinvio pregiudiziale ovvero all'esito di una procedura di infrazione.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Cfr. anzitutto la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea e, in particolare: sentenza 7 febbraio 1985, causa 135/83, Abels, Racc. pag. 469; sentenza 7 febbraio 1985, causa 179/83, FNV, Racc. pag. 511; sentenza 7 febbraio 1985, causa 186/83, Botzen e a., Racc. pag. 519; sentenza 25 luglio 1991, causa C-362/89, D'urso e a., Racc. pag. I-4105; sentenza 7 dicembre 1995, causa C-472/93, Spano e a., Racc. pag. I-4321; sentenza 12 marzo 1998, causa C-319/94, Dethier Équipement, Racc. pag. I-1061; sentenza 12 novembre 1998, causa C-399/96, Europièces, Racc. pag. I-6965; Conclusioni dell'Avvocato Generale Léger del 10 aprile 2003 e sentenza del 5 giugno 2003, causa C-145/01, Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana, Racc. pag. I-05581; sentenza dell'11 giugno 2009, causa C-561/07, Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana, Racc. pag. I-04959. Tutte le sentenze sono reperibili sul sito curia.europa.eu.
Quanto alla giurisprudenza nazionale, vi si ritrovano alcune sentenze che trattano l'argomento: v. Cass. Civ. n. 19282/2011; Tribunale di Monza, 17 maggio 2011, n. 224/2011; Trib. Torino, 18 febbraio 2005 in Giur. Piemontese 2006, 1, 106; e Cass. Civ. n.7120/2002. Quanto agli effetti solo verticali delle direttive, v. Cass. 21 marzo 2001, n. 4073 e 2 agosto 2002, 11622, relative proprio al trasferimento di aziende in crisi.
In dottrina, cfr. Basilisco, Marcello: Trasferimento d'azienda e diritto dell'Unione – Le questioni aperte, relazione predisposta per i lavori del gruppo di approfondimento su “Il trasferimento d'azienda alla luce del diritto dell'Unione”, previsto all'interno dell'incontro di studi su “Il diritto del lavoro dell'Unione Europea nella concreta esperienza dei giudici di merito”, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura dal 25 al 27 ottobre 2010 a Roma; Bollini, Riccardo: Protezione del lavoro nel trasferimento d'azienda: il D.L. 135/2009 e il C.D. "Caso Alitalia" alla luce della disciplina comunitaria, Rivista italiana di diritto del lavoro 2010 II p.338-348; Brizzi, Silvia: Il trasferimento d'azienda in crisi tra diritto interno e diritto comunitario, Giurisprudenza italiana 2010 p.353-35; Cester, Carlo: Due recenti pronunzie della Corte di Giustizia europea in tema di trasferimento d'azienda. Sulla nozione di ramo d'azienda ai fini dell'applicazione della direttiva e sull'inadempimento alla stessa da parte dello Stato italiano nelle ipotesi di deroga per crisi aziendale, Rivista italiana di diritto del lavoro 2010 II p.232-244; Conti, Roberto, Foglia, Raffaele: Trasferimento d'impresa in "stato di crisi" e tutela dei lavoratori, Il Corriere giuridico 2009 p.1129-1131; Perrino, Angelina-Maria: Le deroghe delle tutele dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda di imprenditore in crisi o insolvente tra i reiterati inadempimenti del legislatore nazionale, Il Foro italiano 2010 IV Col.268-272; Tatarelli, Maurizio: La deroga ai regimi di previdenza complementare deve essere accompagnata da misure di tutela, Guida al diritto 2009 nº 26 p.102-105.
I riferimenti normativi sono: a livello UE, Direttiva 77/187/CEE del Consiglio, del 14 febbraio 1977, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, GUCE L 61 del 5.3.1977, pag. 26; Direttiva 98/50/CE del Consiglio del 29 giugno 1998 che modifica la direttiva 77/187/CEE, GUCE L 201 del 17.7.1998, pag. 88; versioni poi abrogate dalla Direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, GUUE L 82 del 22.3.2001, pag. 16. Si veda altresì il Documento di lavoro della Commissione europea – Memorandum del 2004 sui diritti acquisiti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, punto 3.8; e la Relazione della Commissione sulla direttiva 2001/23/CE del Consiglio, COM(2007) 334 definitivo. Tutte la normativa UE è reperibile sul sito europa.eu.
A livello nazionale, cfr. art. 2112 c.c., art. 47 della L. 428/1990 come modificato dall'art. 19-quater della L. 166/2009 di conversione del decreto n. 135/2009 e, da ultimo, dal D.L. 22 giugno 2012 n. 83; D.lgs. n. 270/99 e successive modificazioni e artt. 160-186 l. fall.

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