Il giudizio di responsabilità dei sindaci di società fallita e le prove raccolte nel procedimento penale

Marco Nicolai
05 Giugno 2013

Il giudice, in mancanza di un divieto di legge, può utilizzare prove raccolte in altro giudizio fra le stesse o altre parti. Può anche avvalersi di una consulenza tecnica o di una perizia purché gli accertamenti siano espletati nel contraddtitorio delle parti.
Massima

Il giudice, in mancanza di un divieto di legge, può utilizzare prove raccolte in altro giudizio fra le stesse o altre parti. Può anche avvalersi di una consulenza tecnica o di una perizia purché gli accertamenti siano espletati nel contraddittorio delle parti.

Il caso

Il curatore di un fallimento conveniva in giudizio i sindaci della società fallita affinché fossero condannati, in solido fra loro e unitamente all'amministratore, al risarcimento dei danni cagionati dalla violazione di obblighi loro imposti dalla legge. Il Tribunale riteneva provati i fatti allegati dal fallimento, condannando i convenuti. La Corte d'Appello confermava il decisum statuendo che la consulenza tecnica d'ufficio, disposta dal P.M. nel corso delle indagini preliminari di cui al procedimento penale, fosse stata correttamente valutata dal giudice di primae curae al fine di accertare la responsabilità dei sindaci con riferimento all'inosservanza dei doveri di controllo e di vigilanza incombenti sui medesimi.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Le problematiche esaminate dalla Suprema Corte di Cassazione nel provvedimento sono, in ragione dei diciannove motivi di impugnazione articolati dai sindaci, numerose. Tuttavia, quelle rilevanti sono sostanzialmente tre.
La prima, affrontata con i primi nove mezzi di gravame, attiene alla natura, contrattuale ovvero extracontrattuale, dell'azione che il curatore ha inteso esercitare nel giudizio di responsabilità promosso ex art. 146 l. fall. A questo riguardo, la Corte Suprema riferisce di un orientamento giurisprudenziale costante secondo cui l'azione prevista dall'art. 146 l. fall. cumula in sé sia l'azione contrattuale di responsabilità ex art. 2393 c.c., sia quella extracontrattuale ex art. 2394 c.c.
La seconda questione, intrinsecamente connessa alla prima, riguarda il termine di prescrizione per l'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. Secondo i sindaci ricorrenti la prescrizione dell'azione risarcitoria, normalmente quinquennale, non può comunque travalicare quella decennale ordinaria. Nel caso in esame, però, gli inadempimenti posti in essere integravano una fattispecie di reato. Il tenore letterale dell'art. 2947, comma 3, c.c. fuga, per il Supremo Collegio, ogni dubbio sul punto. Infatti, nell'ipotesi in cui il fatto costituisca reato, è fissato un termine di prescrizione commisurato a quello previsto per il delitto estendendosene l'applicazione all'azione civile. In questo modo, il danneggiato può esercitare l'azione risarcitoria se il reato è ancora perseguibile. Infine, precisa il Collegio, eventuali diminuzioni di pena non determinano l'estensione della più breve prescrizione del reato all'azione risarcitoria.
La terza e ultima questione rappresenta, forse, quella più interessante. La Corte di legittimità censura la sentenza della Corte d'Appello, che ha condannato i sindaci per non aver contestato, né prodotto documenti e atti idonei a smentire, una consulenza tecnica utilizzata nel procedimento penale contro l'amministratore, per due ordini di ragioni. La prima, perché il collegio non ha accertato se e in quale misura le irregolarità contabili riscontrate avessero effettivamente comportato un pregiudizio economico alla società. La seconda, perché la consulenza è stata disposta dal Pubblico Ministero nel corso delle indagini preliminari in un giudizio in cui i sindaci non erano parti. La Suprema Corte, alla luce di tali apprezzamenti, ribadisce il consolidato principio per cui in un procedimento giudiziario sono utilizzabili le prove, fra cui anche la consulenza tecnica o la perizia, raccolte in altro giudizio. Tuttavia, gli accertamenti devono essere disposti nel contraddittorio delle parti.

Osservazioni

Le conclusioni a cui il giudice di legittimità perviene sono largamente condivisibili. La Corte di Cassazione considera la valenza della consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero raffrontandola con le consulenze di parte nel processo civile. A questo riguardo, così come la prima non ha valore di prova, trattandosi di mera attività di parte, anche le seconde costituiscono allegazioni difensive di cui il giudice non deve necessariamente tener conto.

I contrasti

Cass. 2 luglio 2010 n. 15714 sembra dettare un principio di diritto parzialmente diverso e non conforme a quello qui enunciato. Infatti, il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica eseguita nell'ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando ha ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi.

Conclusioni

In realtà, le situazioni processuali sono differenti poiché, nella sentenza commentata, diversamente da quella sopra citata, la consulenza disposta dal Pubblico Ministero nel corso delle indagini preliminari è stata eseguita senza che i sindaci prendessero parte al procedimento. Pertanto, l'effettivo e concreto impiego, fra le stesse o altre parti, di prove assunte in un diverso giudizio, deve inevitabilmente soggiacere al principio del contraddittorio. Inoltre, tali prove ma anche le sentenze rappresentano documenti che il giudice può liberamente valutare in una prospettiva globale e nel quadro di un'indagine unitaria e organica non limitata all'esame isolato di singoli elementi.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In generale sulle prove e sulla loro valutazione, senza alcuna pretesa di esaustività, S. Patti, Le prove. Parte generale, in Trattato Iudica Zatti, Milano, 2010.
In generale sull'art.146 l. fall., cfr. Toffoletto, § 78 ss., in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 256 ss.; sulla natura e sul contenuto di tale azione, che cumula quelle di cui agli artt.2393 e 2394, c.c., Caiafa, La legge fallimentare riformata e corretta. Dalla legge 12 maggio 2005, n.80 al d. lgs. 12 settmbre 2007, n.169, Padova, 2008, 144 ss. In giurisprudenza ex pluribus Cass. 21 giugno 2012, n. 10378; Cass. 21 luglio 2010, n. 17121; Cass. 29 ottobre 2008, n. 25977; Cass. 25 maggio 2005, n. 11018; Cass. 6 dicembre 2000, n. 15487.
L'art. 2947, comma 1, c.c., dispone che il diritto al risarcimento dal danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni. Il comma 3 dello stesso articolo viene da tempo interpretato dalla giurisprudenza nel senso che, quando il fatto illecito è considerato dalla legge come reato e per questo è stabilita una prescrizione più lunga, il diritto di credito si prescrive nel momento in cui il reato si estingue per prescrizione. Cfr. Cass. 17 maggio 1985, n. 3013; Cass. 20 giugno 1978, n. 3036; Cass. 10 aprile 1973, n. 1030.
Ai fini del computo della prescrizione penale, occorre avere riguardo al reato contestato nel capo d'imputazione e qualunque diminuzione della pena per effetto di determinazioni operate dal giudice nel corso del procedimento - come l'applicazione di circostanze attenuanti ovvero il mutamento del titolo di reato - non «estende al diritto l'eventuale più breve prescrizione del reato ritenuto in sentenza». Su tale aspetto esiste un orientamento consolidato e risalente nel tempo Cass. 9 giugno 2004, n. 10967; Cass. 17 maggio 1997, n. 4431; Cass. 4 dicembre 1992, n. 12919; Cass. 17 aprile 1981, n. 4118; Cass. 18 maggio 1977, n. 2026; Cass. 22 gennaio 1968, n. 175.
La derubricazione del capo di imputazione eventualmente disposta dal giudice, secondo Cass. 7 giugno 2006, n. 13272, non importa - trattandosi di situazione non prevedibile del danneggiato - l'estensione dalla più breve prescrizione del reato, come definitivamente ritenuto nella sentenza, al diritto al risarcimento del danno la cui prescrizione resta invece ancorata a quella prevista in base alla pena edittale stabilita per il reato inizialmente contestato. Cass. 2 aprile 1992, n. 4044 ritiene, invece, che nel caso di fatto illecito considerato dalla legge come reato, ove di questo, con sentenza penale irrevocabile resa nel giudizio penale, sia stata dichiarata l'estinzione per prescrizione, il diritto al risarcimento del danno soggiace al termine di prescrizione quinquennale che inizia a decorrere nuovamente dalla data in cui la sentenza predetta è divenuta irrevocabile.
Costituisce principio consolidato quello secondo cui il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, valutandole liberamente. Cfr. Cass. 19 settembre 2000, n. 12422; Cass. 11 agosto 1999, n. 8585; Cass. 1 aprile 1997, n. 28339; Cass. 17 gennaio 1995, n. 478.
Costante l'orientamento secondo cui la consulenza di parte costituisce mera allegazione difensiva di contenuto tecnico priva di autonomo valore probatorio. In questo senso Cass. 29 gennaio 2010, n. 2063; Cass. 6 maggio 2002, n. 6432; Cass., 18 aprile 2001, n. 5687; Cass., 8 marzo 2001, n. 3371; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15572; Cass., 23 maggio 1998, n. 5151; Cass., 28 luglio 1989, n. 3527; Cass., 9 maggio 1988, n. 3405; Cass., 18 dicembre 1987, n. 9441; Cass., 24 aprile 1987, n. 4032. Secondo Cass. 19 maggio 1997, n. 4437 la perizia di parte non è dotata di efficacia probatoria e ad essa si può solo riconoscere valore di indizio.

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