Il fallimento dell'ente non preclude l'applicazione della disciplina e delle sanzioni del d.lgs. 231/01

16 Ottobre 2013

Il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l'estinzione dell'illecito o della sanzione amministrativa prevista dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
Massima

Il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l'estinzione dell'illecito o della sanzione amministrativa prevista dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

Il caso

La Corte di Cassazione, nell'annullare con rinvio la sentenza impugnata, ha statuito che l'instaurazione della procedura concorsuale non integra una situazione assimilabile a quella della morte dell'autore del reato, come invece sostenuto dal giudice del merito.

Le questioni giuridiche e la soluzione - La responsabilità da reato delle società fallite


Il legislatore non disciplina le interferenze tra la disciplina della responsabilità da reato degli enti e le procedure fallimentari, rimettendone la soluzione alla elaborazione della giurisprudenza.
Un primo e significativo punto di emersione di tale tematica è, peraltro, costituito proprio dal tema della ammissibilità della applicazione della disciplina e delle sanzioni del D.Lgs. 231/01 alle società fallite.
Alcune pronunce di merito (Trib. Palermo sent. 22 gennaio 2007, in Rivista Penale, 7-8/2008, 797, con nota di F.P. Di Fresco, La morte per fallimento della società. Note a margine di una pronuncia in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche) hanno, infatti, ritenuto non applicabile le prescrizioni sanzionatorie del D.Lgs. 231/01 alla società fallita, giustificando la soluzione sulla base di una equiparazione sostanziale del fallimento alla estinzione della società.
La Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe confuta integralmente tale ricostruzione giuridica, annullando con rinvio la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Roma che aveva dichiarato il non luogo a procedere di una società, imputata per illeciti amministrativi dipendenti dai reati di corruzione ed ostacolo alle funzioni di vigilanza, perché l'illecito amministrativo si era estinto per sopravvenuto fallimento della società stessa.
Il G.u.p. del Tribunale di Roma aveva affermato che con il fallimento la società entra in uno stato di quiescenza assimilabile alla morte della persona fisica; ricorrendo, pertanto, all'applicazione analogica delle norme in materia di estinzione del reato per morte del reo (art. 150 c.p.), aveva ritenuto che il fallimento dell'imprenditore collettivo avesse determinato l'estinzione della particolare figura di illecito prevista per le società dal decreto legislativo 231/01.
Il giudice di prime cure aveva, inoltre, argomentato la propria soluzione sulla base del principio della personalità della responsabilità, in quanto il curatore fallimentare è pacificamente un terzo rispetto alla società fallita e, pertanto, sarebbe irragionevole comminare a quest'ultimo una sanzione per comportamenti rispetto alle quali lo stesso sia estraneo.
La curatela, peraltro, potrebbe trovarsi in una posizione processuale di tipo incompatibile, essendo da un lato legittimata a costituirsi parte civile in un ipotetico processo per bancarotta collegato ad atti di corruzione e dall'altro potrebbe trovarsi ad assumere la veste di soggetto chiamato a rispondere dell'illecito amministrativo dipendente dal reato commesso dall'amministratore.
Il giudice rilevava, peraltro, come non vi fossero elementi che inducessero a ritenere possibile un ritorno in bonis della società, essendo anzi verosimile la prossima chiusura del fallimento; pertanto, il rinvio a giudizio della società avrebbe determinato un aggravio di ulteriori spese per la procedura fallimentare a danno della massa dei creditori nel perseguimento di una responsabilità che non sarebbe suscettibile di essere portata ad esecuzione.

Osservazioni - Le ragioni dell'assoggettamento della società fallita alle prescrizioni sanzionatorie del d.lgs. 231/01


La Corte di Cassazione nella pronuncia in commento evidenzia plurime ragioni sistematiche per escludere l'assimilazione quoad effectum tra fallimento dell'ente e morte del reo e, conseguentemente, per assoggettare al diritto punitivo degli enti anche le società fallite.
L'infondatezza della tesi prospettata dal giudice di primae curae si rivela ove si consideri che il fallimento non produce l'estinzione della società, che non consegue automaticamente nemmeno alla chiusura della procedura, essendo necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore. Fino a quel momento la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali.
Per effetto della dichiarazione di fallimento, pertanto, non solo non vi è cessazione formale dell'ente, ma soprattutto si viene a creare una situazione non definitiva e suscettibile di regresso con il rientro in bonis dell'impresa. L'argomento sistematico che fa riferimento agli artt. 28-32 del d.lgs. 231/01 è, inoltre, errato; tali norme non contemplano il fallimento non perché ritengono di differenziarlo dalle altre cause modificative che non estinguono il “reato”, bensì per il fatto che la procedura concorsuale non comporta una modificazione soggettiva dell'ente. A seguito del fallimento la società non muta, ma viene esclusivamente sottoposta a una liquidazione di tipo concorsuale ad opera di un pubblico ufficiale e sotto il controllo dell'autorità giudiziaria. Non è legittima, pertanto, un'interpretazione a contrario, che ritiene di desumere dalla mancata contemplazione del fallimento negli articoli suddetti la sua esclusione dalla punibilità.
Sono parimenti infondate le considerazioni relative alla non eseguibilità della sanzione, posto che anche qualora la società non abbia fondate prospettive di tornare in bonis, la sanzione irrogata nel corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero dell'importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo.
Si tratta, peraltro, di un credito assistito da privilegio, la cui funzione pratica sarebbe assai limitata se tale causa di prelazione non potesse essere azionata in caso di fallimento della società.
Né, d'altronde, si può affermare che un'eventuale difficoltà od anche impossibilità concreta di recupero dei credito (ad esempio per un fallimento privo di attivo) possa legittimare la declaratoria di estinzione del reato, posto che il nostro sistema giuridico è slegato da principi di effettiva eseguibilità delle pronunce giurisdizionali. Parimenti non è fondato il rilievo secondo il quale l'applicazione della sanzione al fallimento non colpirebbe il soggetto autore dell'illecito, ma un soggetto terzo incolpevole; il fallimento, va ribadito, non è soggetto terzo, ma una semplice procedura di gestione della crisi, che non determina alcun mutamento soggettivo dell'ente, il quale continua ad essere soggetto passivo della sanzione (di cui risponde con il suo patrimonio ai sensi dell'art. 27 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231), Quanto alla affermazione che la curatela potrebbe in alcuni casi trovarsi in una posizione processuale di tipo incompatibile nel processo ex d.lgs. 231/01, l'individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell'ente è una questione processuale da risolvere nel processo e non può costituire argomentazione per introdurre un'ipotesi non codificata di estinzione del reato.

Le conclusioni - il superamento della equiparazione sostanziale del fallimento alla estinzione della società


La pronuncia in commento si segnala per la confutazione, ampia e convincente, della tesi della equiparazione sostanziale tra fallimento ed estinzione delle società, in quanto la stessa è fondata su una assimilazione impropria nella sintassi del sistema.
Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, non si è al cospetto di un vuoto normativo, quanto piuttosto di una valutazione legislativa di irrilevanza, ai fini della irrogazione della sanzione, del fallimento della società.
La sanzione irrogata ai sensi del d. lgs. 231/01, pertanto, continuerà a gravare sul patrimonio dell'ente anche quando, per l'incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, venga dichiarato il fallimento di quest'ultimo.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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