Fallimento della holding società di fatto sulla base di crediti risarcitori per abusiva attività di direzione e coordinamento

24 Maggio 2013

L'attività di holding è attività di impresa e, nel caso in cui sia svolta da più persone fisiche, si crea tra loro una società di fatto, soggetta a fallimento in caso di insolvenza.
Massima

L'attività di holding è attività di impresa e, nel caso in cui sia svolta da più persone fisiche, si crea tra loro una società di fatto, soggetta a fallimento in caso di insolvenza.
L'attività di holding consiste nell'attività, svolta in modo professionale e organizzato, di controllo e coordinamento delle società partecipate, direttamente o indirettamente, mirante a perseguire risultati economici per la holding, causalmente ricollegabili all'attività medesima, ulteriori e diversi rispetto a quelli relativi alle società coordinate e dirette, senza che sia necessaria la spendita formale del nome della holding.
Anche la persona fisica può essere ritenuta responsabile nei confronti dei soci e dei creditori delle società su cui è esercitata attività di direzione e coordinamento, ai sensi dell'art. 2497 c.c., per violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale.
Tra le ipotesi di responsabilità del soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento per violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale vi è la continuazione dell'attività da parte delle società soggette a direzione e coordinamento quando è integrata la causa di scioglimento di cui all'art. 2484, n. 4 c.c.

Il caso

Il tribunale di Venezia dichiara il fallimento della società di fatto che svolgeva attività di holding su una serie di società di capitali fallite. Nel corso del procedimento prefallimentare aveva anche imposto misure cautelari ex art. 15, comma 8, l. fall.
I curatori di tre società partecipate e amministrate dalle stesse persone - l'imprenditore, sua moglie e una dipendente delle società -, affermandosi creditori per il danno da abuso di direzione e coordinamento, chiedono che sia dichiarato il fallimento dell'imprenditore stesso come holding persona fisica nonché della società occulta o di fatto costituita dall'imprenditore, la moglie e la figlia. L'obiettivo è di aggredire il patrimonio delle società immobiliare di famiglia, nelle quali era confluito il patrimonio familiare e le cui quote erano state donate dai genitori alla figlia.
Il tribunale si trova dinanzi a una storia di fallimenti pregressi e - stando a quanto risulta dalla motivazione - ad una miriade di atti sintomatici della confusione tra le diverse società, sia dal punto di vista patrimoniale, sia dal punto di vista amministrativo (l'imprenditore interviene sistematicamente, in carenza di poteri, per firmare per società di cui non era formalmente investito di alcuna carica); di atti apparentemente distrattivi che, se esistenti, integrerebbero pacificamente fattispecie di bancarotta fraudolenta; nel complesso, di quella che si potrebbe definire una vicenda di “abuso della personalità giuridica”.
Per sanzionare questo comportamento il tribunale ricorre alla figura dell'impresa holding per dichiararne il fallimento; impresa che riconduce all'imprenditore e alla società di fatto esercitata da imprenditore, moglie e figlia, con la conseguente dichiarazione di fallimento in estensione anche a tutt'e tre i soci.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Tra gli strumenti elaborati dalla giurisprudenza per reprimere condotte genericamente abusive in cui vi siano distrazioni di fondi e confusione di patrimoni in presenza di insolvenza rientra la tesi dell'impresa-holding. Qualificata la persona fisica al centro della costellazione di società - talvolta formalmente un gruppo, legato da rapporti di controllo azionario, talaltra invece solo un gruppo di fatto, qualificato dalla comune direzione e coordinamento - come holding; qualificata l'attività di holding di partecipazioni come attività d'impresa; accertata l'insolvenza di questa impresa, si procede alla dichiarazione di fallimento dell'impresa-holding. Questa può essere una holding-persona fisica o una holding-società di fatto.
Per contiguità di materia, si può ricordare qui che, per reprimere condotte analoghe, la giurisprudenza, specie dopo la riforma del diritto societario, che ha ammesso in linea generale la possibilità che una società di capitali alle società di persone (art. 2361 c.c.), è ricorsa alla figura della “super-società di fatto”, ovverosia a una società di fatto tra le società e le persone fisiche che le dominano. Si tratta peraltro di una figura che presenta significativi problemi, primo fra tutti quello per cui è difficile scorgere l'affectio societatis in una società che viene dominata e usata come strumento (per perpetrare abusi) dalle persone fisiche che la controllano.
Per giungere alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore e della società di fatto-holding il tribunale deve superare una serie di obiezioni, nessuna delle quali in grado di mutare l'esito della decisione.
In primo luogo, e condivisibilmente, il tribunale esclude che vi sia alcun limite alla possibilità di configurare un'attività di direzione e coordinamento in capo alla persona fisica, come alcuni argomentano dal testo dell'art. 2497 c.c. (che si riferisce a società od enti), indipendentemente dall'intento del legislatore storico (che così cambiò l'espressione “chi”, che sicuramente comprendeva anche le persone fisiche).
In realtà, dal testo dell'art. 2497 c.c. si poteva, al limite, dedurre l'impossibilità di configurare una responsabilità da abusiva direzione e coordinamento in capo alla persona fisica, non certo l'impossibilità che una persona fisica potesse esercitare attività di direzione e coordinamento: la giurisprudenza è, come si è riferito, saldamente nel senso della piena ammissibilità di una persona fisica-holding (e della sua possibile soggezione al fallimento, in quanto imprenditore). Il tribunale deve però intrattenersi sul punto perché l'insolvenza, nel caso di specie, derivava proprio dall'impossibilità di fare fronte al debito risarcitorio da abuso di attività di direzione e coordinamento. In altri termini, se non fosse stato applicabile l'art. 2497 c.c., allora non vi sarebbe stato un credito dei creditori delle controllate verso la holding e, quindi, non vi sarebbe stata non solo legittimazione degli istanti, ma neppure insolvenza.
Dopo essersi occupato del tema, il tribunale afferma però che la questione dell'ammissibilità di una holding persona fisica non era rilevante nel caso di specie, posto che l'attività di direzione e coordinamento era imputabile a una società occulta - e quindi una s.n.c. - tra marito, moglie e figlia. Sebbene menzioni sia il comma 4, sia il comma 5 dell'art. 147 l. fall., la pronuncia appare fatta ai sensi del comma 5, che prevede che, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l'impresa è riferibile a una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, si procede alla dichiarazione del fallimento in estensione a tutti i soci. Di conseguenza, non sarebbe stato infondato sostenere che la possibilità di configurare una impresa individuale - pur solo apparente, in quanto sottostante vi era una società - fosse in realtà un antecedente logico necessario per la dichiarazione di fallimento.

Osservazioni

Il tribunale fa applicazione della giurisprudenza che si può ormai dire consolidata, sia di legittimità, sia di merito, questa volta con una particolarità in grado di superare uno dei più gravi limiti di questa tesi.
Il problema che si aveva nella declaratoria di fallimento della holding era l'individuazione di quali fossero i debiti di cui la holding dovesse rispondere: e questi venivano individuati in quelli assunti direttamente dalla holding (persona fisica), e così debiti per garanzie, per versamenti, ecc.; tanto che si chiedeva che l'attività della holding fosse svolta in nome proprio della holding, circostanza molto difficile a verificarsi.
Il fallimento, essendo solo uno strumento per l'attuazione della responsabilità, non migliorava la condizione dei creditori delle società dominate se non nella misura in cui, facilitando l'attuazione della responsabilità patrimoniale per quei creditori per cui la holding fosse coobbligata, fosse “alleggerito” il passivo fallimentare delle società dominate.
Qui la situazione è diversa. L'art. 2497 c.c. offre lo strumento per far “risalire” la responsabilità patrimoniale al livello superiore, beninteso nei limiti in cui ricorrano i presupposti della responsabilità per abuso di direzione e coordinamento. Questo consente di incrementare il patrimonio destinato ai creditori delle società controllate per effetto del sorgere di un credito risarcitorio verso chi ha esercitato, abusandone, attività di direzione e coordinamento, arrecando pregiudizio a questi creditori.
È evidente però che l'attuazione della responsabilità non richiede necessariamente il fallimento di chi, esercitando attività di direzione e coordinamento, sia debitore del credito risarcitorio.
Si pone qui la necessità di distinguere tra mera attività di direzione e coordinamento, quale inerente all'esercizio delle prerogative del socio di controllo, e svolgimento dell'attività di holding, che è attività d'impresa, in quanto svolta professionalmente e in modo organizzato; in difetto, se qualsiasi attività di direzione e coordinamento fosse da considerarsi, anche se svolta da una persona fisica, un'attività d'impresa (in quanto attività di gestione di partecipazioni), allora dovrebbe discendere che, sussistendo i requisiti dimensionali, qualsiasi persona fisica potrebbe astrattamente essere dichiarata fallita per il solo fatto dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. Il discrimine verrebbe affidato solo al requisito dell'insolvenza.
Ma questo ragionamento, che pur sembra leggersi tra le righe della sentenza, non può essere seguito, pena la quasi inevitabile sovrapposizione tra il piano della responsabilità ex art. 2497 c.c. e quello della “imprenditorialità” e, quindi, fallibilità.
È necessario, conseguentemente, distinguere tra la diverse graduazioni nella qualificazione della persona fisica al vertice di un “gruppo”:
- se vi è mero controllo, ma non attività di direzione e coordinamento, non vi è né impresa (né quindi fallibilità), né possibile responsabilità ex art. 2497 c.c.;
- se vi è attività di direzione e coordinamento, ma nulla di più, si è probabilmente al di fuori dell'ambito dell'impresa, ma si è nel campo di applicazione dell'art. 2497 c.c.: con conseguente possibile responsabilità, ma senza soggezione al fallimento;
- se vi è attività di holding, in quanto l'attività di direzione e coordinamento è svolta in modo organizzato e professionale, vi è impresa, e vi può essere anche responsabilità ex art. 2497 c.c., con possibile soggezione al fallimento qualora vi sia insolvenza, che può derivare da (a) obbligazioni assunte in proprio dalla holding (es., garanzie, finanziamenti); (b) danni di cui la holding debba rispondere ex art. 2497 c.c.
È quest'ultimo il caso deciso dal tribunale di Venezia, con soluzione, in generale, apprezzabile, perché consente di offrire protezione ai creditori pregiudicati dalle distrazioni infragruppo e dalle altre operazione di “spostamento” dei guadagni verso l'alto, che lasciano le perdite nelle controllate. I naturali destinatari sono soprattutto i creditori che non sono in grado di tutelarsi al meglio da sé e, tra questi, soprattutto i creditori fiscali e previdenziali, le cui pretese nascono in base alla legge e non da atti volontari.
Nel caso in commento, il tribunale quantifica - pur se solo ai fini della valutazione della legittimazione degli istanti e dell'insolvenza della società di fatto-holding - il danno in misura pari ai passivi fallimentari delle società ricorrenti. Questa equazione, che riecheggia la vecchia giurisprudenza in materia di responsabilità degli amministratori, non sembra possibile, quanto meno come regola generale. Il danno dovrebbe essere, infatti, pari solo a quella parte di passivo che non sia stato possibile pagare per effetto delle distrazioni e degli spostamenti patrimoniali illegittimi, non solo ovviamente mediante spostamento di denaro, ma anche mediante (per esempio) l'uso di personale delle controllate a vantaggio e per il profitto della holding o di altre società del gruppo. Potrebbe trovare sanzione forse anche, come adombra il tribunale, l'aggravamento del passivo.

Altri punti rilevanti

La sede non consente un commento esaustivo su tutte le questioni sollevate e affrontate dalla sentenza. Un punto meritevole di attenzione è quello della legittimazione ad agire delle curatele delle società eterodirette. Esse, infatti, si legittimano in base a una pretesa risarcitoria, un credito, cioè, illiquido e per definizione contestato. Che il titolare di un credito contestato sia legittimato è conclusione prevalente in giurisprudenza, anche non può considerarsi pacifica. L'abolizione dell'iniziativa d'ufficio ha, infatti, reso di grande importanza l'accertamento del credito del ricorrente: nel caso il credito sia ritenuto insussistente, viene meno la legittimazione e, anche se ci fosse insolvenza, il fallimento non potrebbe essere dichiarato.
Quando si è in presenza di crediti illiquidi di questo tipo si presenta, poi, la necessità di apprestare delle forme di tutela per i falliti, dal momento che l'accertamento del credito avviene in sede di insinuazione nel passivo: la difesa del patrimonio fallimentare sarà quindi affidata a persone nominate dallo stesso tribunale che ha dichiarato il fallimento sulla base dell'accertamento della sussistenza di quei crediti. È un problema comune a ogni accertamento del credito, ma che diventa molto più grave per crediti che richiedono accertamenti di grande complessità e delicatezza, in cui una difesa tecnica e un vero contrasto di interessi possono incidere in maniera determinante sull'esito della lite (si pensi soltanto alla possibile prova dei “vantaggi compensativi”). Il limitatissimo intervento del fallito (che può chiedere di essere sentito in sede di udienza di verifica, ai sensi dell'art. 95, comma 4, l. fall., e che non può impugnare l'ammissione dei crediti) non è certo un presidio sufficiente.
Sempre rilevante quando si intende individuare una società di fatto è, poi, l'accertamento del vincolo sociale, particolarmente delicato quando si tratta di persone legate da rapporti familiari (nel caso di specie, mentre per marito e moglie vi erano, stando a quanto emerge dalla decisione, significativi indizi di appartenenza a una società, per la figlia l'accertamento è assai meno evidente). Occorre, infatti, verificare con rigore se i familiari non siano legati da affectio familiaris piuttosto che da affectio societatis, come richiesto dalla costante giurisprudenza, tenendo conto delle specifiche circostanze del caso concreto. È ovvio, peraltro, che l'esclusione dal fallimento non pregiudica la possibilità, se del caso, di agire contro i familiari (pur non soci), sia in base all'art. 2497, comma 2, c.c. (secondo cui “[r]isponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio), sia con gli ordinari strumenti per la tutela della garanzia patrimoniale.
Un cenno, infine, al tema delle misure cautelari adottate dal tribunale nel corso dell'istruttoria prefallimentare: il tribunale, ai sensi dell'art. 15, comma 8, l. fall. dispone la nomina di un amministratore giudiziario delle due società in cui si erano concentrate tutte le attività della società, e le cui quote erano state trasferite ad uno dei componenti della famiglia (la figlia). La possibilità di nominare un amministratore giudiziario non è pacifica; mentre ci si può domandare se sia possibile ricorrere a questa misura cautelare atipica anche quando la società cui si nomina l'amministratore è oggetto della cautela. In alternativa, forse con meno efficacia, si sarebbe potuto disporre il sequestro conservativo delle quote (con nomina di un custode, cui attribuire il diritto di voto). La sola nomina di un amministratore giudiziario, peraltro, non sarebbe stata idonea a impedire la cessione delle quote a terzi (se non di fatto, per la difficoltà di trovare un acquirente delle quote di un società assoggettata ad amministrazione giudiziaria).

Conclusioni

La sentenza è frutto di una convergenza tra diritto dell'impresa e fallimentare, da un lato, e diritto dei gruppi, dall'altro. Il tribunale applica la disciplina dell'abuso dell'attività di direzione e coordinamento in ambito fallimentare, giungendo a risultati interessanti dal punto di vista della repressione delle condotte fraudolente anche dal punto di vista civilistico (dal punto di vista penale, infatti, molte delle condotte addebitate ai soci della holding sarebbero state comunque penalmente rilevanti). Il rischio è quello di eccedere nella repressione; c'è da auspicare che la giurisprudenza non rinunci ad un puntuale accertamento sia dell'ammontare del debito risarcitorio, sia dell'esistenza del vincolo sociale.
Questa decisione si può collocare nella importante tendenza, sia del legislatore, sia della giurisprudenza, a trovare forme di tutela particolari per i creditori “involontari”, come si dice usando un'espressione nata nella dottrina anglo-americana. I creditori da fatto illecito e il fisco non possono essere messi sullo stesso piano dei creditori contrattuali, che entrano nella relazione volontariamente e hanno, o possono avere, tutti gli strumenti per tenere conto della rischiosità del loro debitore: dai più sofisticati covenants inseriti nei contratti finanziari all'opzione di andarsene che hanno i dipendenti se non viene pagato loro lo stipendio. L'applicazione della responsabilità ex art. 2497 c.c. sembra, invero, trovare il suo naturale campo elettivo specialmente nella tutela di quei creditori che non hanno scelto di diventare tali. La sua espansione alla zona dell'insolvenza, consentendo di estendere ex art. 2497 c.c. alla capogruppo la responsabilità per non aver preso misure adeguate a fronteggiare la crisi delle società controllate, può, peraltro, avere una importante funzione, che non sembra ancora adeguatamente esplorata, per ampliare la tutela dei creditori nelle situazioni in cui il rischio di comportamenti opportunistici dei soci e di adozione di decisioni inefficienti da parte degli amministratori è massimo.

Minimi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

La letteratura in materia di gruppi e attività di direzione e coordinamento è ormai vastissima. Sul tema dei gruppi in generale v. U. Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Giuffrè, 2010 (interessante tra l'altro il tema della responsabilità per wrongful trading, che emerge nella sentenza in commento: v. pp. 51-57). Sul tema della responsabilità da direzione e coordinamento v. in particolare A. Valzer, La responsabilità da direzione e coordinamento di società, Giappichelli, 2011 e L. Benedetti, La responsabilità “aggiuntiva” ex art. 2497, 2° co., c.c., Giuffrè, 2012 (entrambi favorevoli alla responsabilità della persona fisica-holding).
Circa la holding persona fisica o società di fatto in giurisprudenza v. Cass. 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439 (caso Caltagirone) con nota di commento di Lamanna, La holding quale impresa commerciale (anche individuale) e il dogma della personalità giuridica, in Fall., 1990, 510 ss.; nonché di recente, sia pur senza grande approfondimento, le due decisioni citate nella sentenza in commento, Cass., S.U., 29 novembre 2006, n. 25275 e Cass., 18 novembre 2010, n. 23344. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano, 11 aprile 2011, in Fallimento, 2011, 1229 (caso Lele Mora); Trib. Ancona, 10 agosto 2009 e App. Ancona, 5 marzo 2010, entrambe in Giur. comm., 2011, II, 633, con nota di M. Prestipino, Brevi osservazioni sulla fallibilità della holding individuale (ove condivisibili critiche al criterio dell'imputazione delle obbligazioni sociali delle controllate alla holding); App. Napoli, 24 gennaio 2012, in Il Fallimentarista, 8 novembre 2012.
Sulla super-società di fatto v., anche per ampi riferimenti, F. Fimmanò, Il fallimento della super-società di fatto, in Fallimento, 2009, 90 e più in generale Abete, L'insolvenza del gruppo e nel gruppo, in Fallimento, 2009, 1111.
Sulla necessità di accertare l'esistenza del credito ai fini del vaglio della legittimazione a chiedere il fallimento, v. Cass., 18 novembre 2011, n. 24309 (la circostanza che il creditore ricorrente avesse ottenuto un sequestro conservativo non è di per sé sufficiente; nel caso di specie, si trattava di una allegata responsabilità per danni da rovina di edificio ex art. 1669 c.c.); Cass., 11 febbraio 2011, n. 3472 (afferma esplicitamente la rilevanza, ai fini della legittimazione, anche di crediti non liquidi né esigibili; nel caso di specie, si trattava però dell'azione di regresso dei fideiussori, non di crediti risarcitori); Cass., 18 novembre 2010, n. 23338. Nella giurisprudenza di merito Trib. Monza, 8 maggio 2012. (Si confronti per es. con Cass., 24 maggio 1968, n. 1585, secondo cui si può prescindere dall'accertamento della reale esistenza del credito vantato dall'istante poiché il fallimento può pur sempre essere dichiarato d'ufficio).
Si noti che i casi giurisprudenziali che concludono per l'esistenza della legittimazione del creditore hanno riguardo a crediti non liquidi né esigibili, ma sempre di fonte contrattuale, non risarcitoria.
La sufficienza di un credito inesigibile non è unanimemente condivisa: v. per es. F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Cedam, 2012, 36 ss. In giurisprudenza v. Trib. Cagliari, 4 gennaio 2010, in Il Caso.it.
La giurisprudenza esclude che la mancata previsione di un potere in capo al fallito di impugnare i crediti ammessi al passivo sia costituzionalmente illegittima. V. Cass. 13 settembre 2006, n. 19653, che conferma la giurisprudenza costituzionale anteriore (cfr. Corte cost., 29 aprile 1992, n. 205; Corte cost., 13 luglio 1984, n. 222); in termini analoghi, con riguardo alla carenza di legittimazione a proporre ricorso per cassazione, Cass., 29 marzo 2012, n. 5095, che anch'essa si richiama a quei precedenti, pur in un contesto istituzionale ormai significativamente diverso da quello nel quale erano maturate le pronunce della Corte costituzionale.
Circa l'accertamento della qualità di socio di una società di fatto v. Cass. 26 luglio 1996, n. 6770, cui si attengono per es. Trib. Milano, 13 gennaio 2006, in Giur. it. 2006, 75; App. Bologna, 12 febbraio 2003, in Fallimento, 2003, 900 (solo m.).
Sul tema delle misure cautelari in dottrina v. il volume Diritto delle imprese in crisi e tutela cautelare, a cura di F. Fimmanò, Giuffrè, 2012, e in particolare i contributi di I. Pagni, La tutela cautelare del patrimonio dell'impresa nell'art. 15 l. fall. alla luce della novità della l. 7 agosto 2012, n. 134 (contraria alla legittimità della nomina di un amministratore giudiziario); R. Bellè, Sequestri prefallimentari, sequestri penali e gestione giudiziale della crisi di impresa anche dopo le “misure urgenti per la crescita del Paese” (evidenzia l'ampiezza e incisività del sequestro conservativo prefallimentare). In tutti questi scritti ampi e aggiornati riferimenti giurisprudenziali.
Le decisioni in tema di amministratore giudiziario citate nella sentenza (Trib. Prato, 4 febbraio 2011; Trib. Udine 11 luglio 2008) si riferiscono alla nomina di amministratore della società debitrice, non di una società terza. V. anche, di recente, Trib. Napoli, 30 marzo 2012. Dà implicitamente per possibile questa nomina Cass., 1° agosto 2012, n. 13827 (ma obiter).

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