Il doppio onere probatorio del rivendicante di beni mobili inventariati. Questioni aperte in tema di leasing

Gherardo Soresina
18 Aprile 2013

Al fine di superare la presunzione di appartenenza al fallito del bene rinvenuto presso la sua sede, è onere del terzo che ne rivendica la proprietà provare, con atti aventi data certa opponibili al fallimento, non solo la pregressa proprietà del bene, ma anche il titolo, diverso dalla proprietà o da altro diritto reale, sulla base del quale il bene è stato successivamente affidato al fallito e conservato tra i beni del fallimento.
Massima

Al fine di superare la presunzione di appartenenza al fallito del bene rinvenuto presso la sua sede, è onere del terzo che ne rivendica la proprietà provare, con atti aventi data certa opponibili al fallimento, non solo la pregressa proprietà del bene, ma anche il titolo, diverso dalla proprietà o da altro diritto reale, sulla base del quale il bene è stato successivamente affidato al fallito e conservato tra i beni del fallimento.

La circostanza per cui i beni mobili registrati oggetto di rivendica risultino intestati al terzo rivendicante non vale a vincere la presunzione di appartenenza al fallito che li possegga al momento della dichiarazione di fallimento, atteso che la validità del trasferimento di proprietà degli autoveicoli non dipende dalla forma scritta, la quale è richiesta solo ai fini delle trascrizioni o iscrizioni al P.R.A.

Il caso

Con il decreto in commento il Tribunale di Treviso ha avuto occasione di chiarire l'effettiva portata dell'onere probatorio incombente sul terzo che, assumendosi proprietario o titolare di altro diritto reale su beni mobili inventariati dal curatore fallimentare, ne chieda la restituzione.
Nel caso di specie il ricorrente, all'udienza di verifica del passivo, si era visto respingere la domanda di rivendica “per mancanza di prova del titolo (avente data certa anteriore al fallimento) in forza del quale i beni rivendicati si trovavano nella sede dell'azienda fallita”. Egli proponeva quindi ricorso in opposizione, affermando di essere proprietario di alcuni autoveicoli che erano stati rinvenuti nella sede della società fallita e, pertanto, ne chiedeva la restituzione ai sensi dell'art. 103 l. fall. e, in via subordinata, il controvalore ricavato dalla loro vendita.
Il Tribunale di Treviso ha respinto l'opposizione, in quanto il ricorrente non sarebbe stato in grado di provare né il diritto a rivendicare i beni rinvenuti nella sede della società fallita, per i quali opera una presunzione di appartenenza a quest'ultimo, né il titolo, diverso dalla proprietà o da altro diritto reale, sulla base del quale il bene sarebbe stato affidato alla società fallita.
Nel caso sottoposto ai giudici di Treviso, infatti, il ricorrente si era limitato a produrre i certificati di proprietà dei veicoli e le visure del PRA, senza nulla allegare in relazione al titolo sulla base del quale i beni si trovavano nel possesso della società fallita. Il tribunale, in rigorosa applicazione del regime probatorio di cui all'art. 621 c.p.c., oggi espressamente richiamato dall'art. 103 l. fall., ha pertanto respinto la domanda, ritenendo l'inidoneità della documentazione prodotta a provare l'effettiva titolarità dei beni rivendicati: e ciò non soltanto per la non opponibilità degli stessi al fallimento (perché privi di data certa anteriore), ma anche perché i certificati di proprietà dei beni mobili registrati prodotti non erano comunque sufficienti a superare la presunzione secondo cui le cose che vengono rinvenute nella casa o nella sede del fallito appartengono a quest'ultimo.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Per effetto della riforma del 2006 (D.Lgs. 5/2006), che ha operato una radicale rivisitazione del sistema di selezione dell'attivo fallimentare, ogni azione intesa a recuperare in natura i beni appresi dalla curatela fallimentare trova oggi la propria disciplina generale negli artt. 93 e ss. l. fall., di cui il riformato art. 103 costituisce norma integrativa specificamente diretta a dettare una disciplina comune a tutte le domande di rivendica e restituzione in sede fallimentare.
Nell'ambito della tematica generale che concerne le azioni restitutorie, la questione giuridica affrontata nella pronuncia in commento attiene nello specifico al tipo di prova necessario, ai sensi dell'art. 103 l. fall., per superare la presunzione di appartenenza in capo al fallito dei beni mobili (con particolare riferimento a quelli soggetti a registrazione) che vengono rinvenuti nella sede di quest'ultimo al momento della dichiarazione di fallimento; non presentando particolare criticità, al contrario, la dimostrazione della titolarità su di un bene immobile, il cui trasferimento viene regolato con atto avente forma scritta ad substantiam soggetto a trascrizione.
È da premettere, per quel che qui interessa, che l'effetto principale della riforma del 2006 è stato proprio quello di aver recepito normativamente un indirizzo ormai consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo cui “poiché la dichiarazione di fallimento attua un pignoramento generale dei beni del fallito che trova la sua specificazione con la formazione dell'inventario, le azioni di restituzione proposte nei confronti del fallimento hanno la stessa natura e soggiacciono alla stessa disciplina delle opposizioni di terzo all'esecuzione, regolate per l'esecuzione individuale dagli artt. 619 e ss. c.p.c.” (Cass. 10 dicembre 1984, n. 6482; Cass. 29 luglio 1997, n. 7078; Cass. 19 marzo 2003, n. 4043). Il riformato art. 103 l. fall., infatti, dispone espressamente che “ai procedimenti che hanno ad oggetto domande di restituzione o di rivendicazione, si applica il regime probatorio previsto nell'articolo 621 del codice di procedura civile”. Tale regime probatorio impone al terzo che voglia opporsi all'esecuzione individuale (e quindi anche alle procedure concorsuali di vendita) l'onere di fornire una doppia prova che consiste nella dimostrazione, da un lato, di un proprio diritto in contrasto con la situazione possessoria (dalla quale la legge fa discendere una presunzione di appartenenza al debitore del bene) e, dall'altro lato, del titolo (diverso dalla proprietà) in forza del quale il debitore poi fallito detiene la cosa.
Pertanto, la pronuncia del Tribunale di Treviso, laddove ribadisce la necessità della doppia prova (nella sua veste positiva e negativa), non si discosta dall'ormai costante orientamento, consolidatosi già in epoca precedente alla riforma (per tutte Cass. 9 luglio 2004, n. 12684), ed ora oggetto di riconoscimento normativo.
Secondo tale criterio di giudizio, il terzo rivendicante potrà ottenerne la restituzione solo ove sia in grado di dimostrare, con atto di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, di essere stato già proprietario del bene prima del fallimento, e che il bene stesso, pur in possesso del debitore fallito al momento del fallimento, non è divenuto di proprietà di quest'ultimo per essere stato a lui affidato in forza di un titolo diverso dalla proprietà o altro diritto reale.
In applicazione di tale principio, con particolare riferimento alle azioni di rivendica di beni mobili registrati, la pronuncia in commento ha sancito anche l'irrilevanza del certificato di proprietà ai fini della dimostrazione della proprietà degli stessi, dal momento che il trasferimento dei beni mobili registrati non richiede necessariamente la forma scritta, neppure ai fini delle annotazioni nel P.R.A. del trasferimento di proprietà del veicolo. In caso di vendita verbale, infatti, per consentire l'annotazione dell'avvenuto trasferimento nei registro pubblico, l'art. 13, comma 5, del R.D. 29 luglio 1927 n. 1814 richiede soltanto una dichiarazione unilaterale autenticata del venditore, anche se i contratti in questione sono soggetti all'obbligo della trascrizione ex artt. 2683 e 2684 c.c.
L'annotazione dell'atto di trasferimento del veicolo nel P.R.A., infatti, non costituisce requisito di validità ed efficacia del trasferimento medesimo, rappresentando esclusivamente un mezzo di pubblicità volto a dirimere eventuali conflitti tra più aventi causa dal medesimo venditore, potendo invece l'intestatario dei beni mobili registrati validamente trasferirli in forza di un accordo soltanto verbale, senza poi necessariamente provvedere ad una tempestiva annotazione di detto trasferimento nei pubblici registri.
Il Tribunale di Treviso, pertanto, ha definitivamente respinto l'opposizione, non riconoscendo alle certificazioni rilasciate dal P.R.A. quella valenza probatoria necessaria a superare la presunzione di titolarità in capo al fallito dei beni rinvenuti presso la sua sede, non operando neppure la deroga al rigido regime probatorio prevista dall'art. 621 c.p.c., oggi espressamente richiamato dall'art. 103 l. fall.

Osservazioni

La peculiare rilevanza della pronuncia in commento è da ricercarsi non tanto nell'affermazione di un principio ormai già consolidato - cioè il necessario requisito della c.d. doppia prova nelle azioni di rivendica e restituzione -, quanto nella definizione dello specifico contenuto del regime probatorio richiesto per le azioni di rivendica di beni mobili inventariati.
L'attenzione dei giudici trevigiani, infatti, non si è soffermata sulla mera inopponibilità nei confronti del fallimento delle prove documentali fornite dal ricorrente, che per fondare ogni domanda di insinuazione al passivo fallimentare devono sempre avere data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, ma si è espressamente rivolta al particolare regime probatorio imposto dall'art. 103 l. fall. mediante il richiamo all'art. 621 c.p.c.
Tale regime impedisce al terzo che rivendichi la titolarità di beni mobili rinvenuti nella casa o nella sede del fallito, di provare mediante testimoni e, quindi, anche mediante presunzioni semplici (a mente dell'art. 2729 c.c.), il proprio diritto su detti beni, operando una presunzione iuris tantum di appartenenza al fallito delle cose repertae in domo ac locis ipsius debitoris, e trovando detto regime espressa deroga soltanto nell'ipotesi in cui l'esistenza del contrapposto diritto possa apparire verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore.
Un tale rigore è la logica conseguenza del contemperamento tra l'interesse del terzo rivendicante alla restituzione del bene e quello di tutti i creditori del fallito a mantenere l'integrità dell'attivo fallimentare, con una evidente preferenza accordata a quest'ultimo al fine di evitare possibili collusioni tra il terzo ed il debitore in danno ai creditori.
In questa prospettiva la decisione in commento appare ineccepibile, perché perfettamente in linea con una disciplina delle azioni di rivendica che garantisca il giusto contemperamento tra i contrapposti interessi sopra ricordati.
Il Tribunale di Treviso, infatti, pur senza negare che le visure del P.R.A. ed i certificati di proprietà costituiscono un indizio della titolarità del bene in capo al terzo rivendicante, non ha riconosciuto la loro idoneità a superare la presunzione di appartenenza della cosa al fallito e, quindi, a costituire quella “seconda prova” che è sempre richiesta a colui che agisce in rivendica o restituzione. L'affermazione del contrapposto diritto da parte del terzo e la dimostrazione di un titolo che ne legittimi la pretesa, infatti, costituiscono soltanto il primo degli oneri incombenti sul rivendicante, ben potendo il fallito aver successivamente ottenuto sul bene un autonomo e prevalente diritto che lo abbia legittimato a detenerne il possesso.
Sarà pertanto sempre onere del terzo quello di dimostrare l'assenza in capo al fallito di un titolo (diverso dalla proprietà) che non ne legittimi l'apprensione da parte della massa creditoria.

Le questioni aperte

Il rigore logico-interpretativo utilizzato dal Tribunale di Treviso consente di trascendere dal caso concreto, ben potendo la decisione in commento assurgere a regola di diritto valevole per ogni azione di rivendica e restituzione di beni mobili esercitata in ambito fallimentare.
Ciò consente di fare alcune brevi considerazioni, senza alcuna pretesa di esaustività, in merito ad una delle situazioni più frequenti nella pratica, che presentano profili particolarmente problematici: il contratto di leasing.
Avviene spesso, infatti, che la domanda di rivendica proposta dal concedente venga accolta sulla base della mera allegazione del contratto di leasing, ritenuto da solo sufficiente a dimostrare sia la proprietà del bene in capo al terzo concedente, sia l'affidamento al fallito, con conseguente obbligo restitutorio di quest'ultimo (Trib. Venezia, 16 febbraio 2009; App. Venezia, 1 aprile 2010). Pare a chi scrive che questo orientamento attenui ingiustificatamente il rigoroso regime probatorio richiesto per le azioni restitutorie in ambito fallimentare, così come risulta ben definito dalla decisione in commento.
In primo luogo è da osservare, infatti, che il contratto di leasing non potrebbe neppure essere considerato idoneo di per sé solo a far desumere la proprietà di un bene in capo al concedente; detto contratto è infatti spesso strutturato in maniera tale che il concedente, pur non essendo ancora proprietario del bene, si impegna a far ottenere all'utilizzatore la disponibilità dello stesso (ed eventualmente la proprietà in un momento successivo, laddove questi decida di esercitare il diritto di opzione) promettendo il fatto del terzo ai sensi dell'art. 1381 c.c., ovvero acquistando la proprietà anche dopo la stipula del contratto di leasing, dunque prima dell'esercizio del diritto di opzione da parte dell'utilizzatore. Tale prima eccezione è comunque superata dal fatto che l'art. 103 l. fall. consente espressamente al terzo concedente di agire anche soltanto per chiedere la restituzione del bene, laddove il proprio diritto, diverso dalla proprietà o da altro diritto reale, gli consenta comunque di avere la disponibilità sul bene con prevalenza rispetto ad altri soggetti.
Invece non può essere superata, così come emerge con chiarezza dall'analisi della convincente pronuncia del Tribunale di Treviso, la necessità di vincere la presunzione di appartenenza al fallito mediante l'allegazione di una “seconda prova”, dalla quale poter desumere che il fallito medesimo non abbia successivamente acquistato la proprietà o altro diritto sul bene mobile che si ponga in contrasto con la pretesa restitutoria avanzata dal concedente.
È infatti evidente che la produzione del solo contratto di leasing avente data certa opponibile al fallimento, non potrebbe mai di per sé sola considerarsi idonea a vincere la presunzione di appartenenza al fallito, in assenza della dimostrazione della permanenza dell'obbligo restitutorio in capo a quest'ultimo fino al momento della dichiarazione di fallimento.
Desumere dal solo contratto di leasing l'esistenza di un obbligo restitutorio in capo al fallito e, conseguentemente, la mancanza di titolarità del bene in capo a quest'ultimo, infatti, significherebbe operare una presunzione assolutamente vietata ai sensi dell'art. 621 c.p.c.; o, meglio, una presunzione ammissibile solo ed in quanto l'effettiva esistenza del diritto del terzo sul bene fosse resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dalle parti nel caso concreto.
Grazie anche alla pronuncia in commento, pertanto, l'attenzione dei giudici e dei curatori fallimentari, ma anche quella degli operatori economici del settore, dovrà doverosamente spostarsi sulla “seconda prova”, con tale termine dovendosi intendere una prova documentale opponibile al fallimento, tale da potersi considerare realmente idonea a superare quella presunzione di appartenenza dei beni al fallito, se rinvenuti presso la sua sede o dimora, che è alla base del sistema di selezione dell'attivo fallimentare.

Conclusioni

La decisione del Tribunale di Treviso, pur ribadendo un principio, quello della “doppia prova”, ormai consolidato nell'ambito delle azioni di rivendica e restituzione, si segnala perché definisce con chiarezza e puntuale rigore interpretativo il contenuto positivo del regime probatorio a cui il terzo che chiede la restituzione di un bene inventariato deve attenersi.
Il richiamo all'art. 621 c.p.c., oggi espressamente previsto dall'art. 103 l. fall., infatti, impone sempre al terzo, che chiede la restituzione di beni mobili inventariati, l'obbligo di fornire la prova, opponibile al fallimento, non soltanto di un titolo che astrattamente lo legittimi a chiedere la restituzione ma, soprattutto, dell'assenza (o della sopravvenuta inefficacia) di un diritto in capo al fallito sul medesimo bene rivendicato.
L'allegazione di un titolo da cui si possa ricavare astrattamente la titolarità su di un bene da parte del terzo, infatti, non è mai di per sé sufficiente a vincere la situazione possessoria: da questa deriva una presunzione di appartenenza al fallito della cosa reperita nella sua dimora o presso la sua sede, dovendo sempre essere fornita una seconda prova idonea a contrastare detta presunzione, e potendosi ricorrere alla prova orale ed alle presunzioni semplici soltanto nell'ipotesi in cui l'esistenza del diritto del terzo sul bene sia resa verosimile dalla professione o dal commercio concretamente esercitati dalle parti.

Riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In tema di domande di rivendica e restituzione si segnalano: F. LAMANNA, Il nuovo procedimento di accertamento del passivo, Milano, 2006, 516 e ss.; Id., Questioni controverse in tema di rivendica, restituzione e separazione di beni mobili, in Fall., 1996, 621 e ss.; G.P. MACAGNO, La domanda di rivendica/restituzione, in Fallimento, 2011, 9, 1049; F. DIMUNDO - B. QUATRARO, Accertamento del passivo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, G. FAUCEGLIA - L. PANZANI (a cura di), Torino, 2009, 1069; G. PELLEGRINO, L'insinuazione al passivo. La domanda di ammissione al passivo, in La procedura Fallimentare, U. APICE (a cura di), Torino, 2010; G. CORNO, Dell'accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi, P. PAJARDI (a cura di), Codice del Fallimento, Milano, 2009.
In ordine all'indirizzo interpretativo precedente alla riforma, che vedeva nel procedimento ex art. 103 l. fall. una trasposizione nell'ambito fallimentare dell'opposizione di terzo ex art. 619 codice di procedura civile: fra i molti, SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1990, 329-330; BONSIGNORI, Diritto fallimentare, Torino, 1992, 235-236, che sottolinea l'inammissibilità della prova per presunzioni e l'inutilizzabilità delle scritture contabili dell'imprenditore ex art. 2710 c.c. In giurisprudenza siffatta interpretazione è divenuta ius receptum, ad eccezione di isolati e risalenti precedenti, quali App. Milano 15 maggio 1957, in Dir. fall., 1958, II, 1015. L'applicazione della disciplina dell'opposizione di terzo all'esecuzione viene affermata allo specifico fine di estendere alla verifica del passivo fallimentare il particolare regime probatorio stabilito dall'art. 621 c.p.c.: cfr., fra le tante, Cass. 18 giugno 1972, n. 1918; Cass. 27 giugno 1997, n. 5771; Cass. 9 luglio 2004, n. 12684, cit.; Trib. Padova, 19 ottobre 2001, in Giur. Merito, 2002, 968. Sulla presunzione di appartenenza dei beni al fallito, inoltre, cfr. Cass. 15 dicembre 2011, n. 27092.
In ordine al valore probatorio dei certificati di proprietà e delle visure del P.R.A. si segnalano Trib. Venezia, 27 marzo 1982, in Dir.fall., 1982, 462; Trib. Padova, 14 marzo 2003, in Mass. Giur. Civ. Patavina; Cass. 10 dicembre 1984, n. 6482.
In ordine al contratto di leasing mobiliare ed al regime probatorio richiesto nelle azioni di rivendica si segnalano due sentenze nell'ambito delle quali è stata affermata la prova presuntiva dell'affidamento del bene al fallito in forza del solo titolo contrattuale: Trib. Venezia, 16 febbraio 2009, cit.; App. Venezia, 1 aprile 2010, cit. Tuttavia recentemente è stata evidenziata l'impossibilità di desumere in via indiretta dal solo contratto di leasing la prova della titolarità del bene in capo al concedente: cfr. Cass. 20 luglio 2007, n. 16158, con nota di M. VECCHIARO, Il regime probatorio delle azioni di rivendica e restituzione dei beni in leasing, in Fall., 2008, 30, 298; Cass. 11 novembre 1992; Trib. Padova, 14 marzo 2003, cit.

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