La Suprema Corte incontra il mercato

Fabio Signorelli
09 Marzo 2016

La norma di cui all'art. 63, comma 1, d.lgs. n. 270 del 1999, come interpretato dall'art. 11, comma 3-quinquies, della legge 21 febbraio 2014, n. 9, ha inteso chiarire che il prezzo a cui l'azienda viene ceduta non deriva dal valore a cui lo stesso è stato stimato, bensì dal valore di mercato quale viene a determinarsi in ragione dell'interesse manifestato dai potenziali acquirenti e dalle offerte di prezzo da questi avanzate.
Massima

La norma di cui all'art. 63, comma 1, d.lgs. n. 270/1999, come interpretato dall'art. 11, comma 3-quinquies, della legge 21 febbraio 2014, n. 9, ha inteso chiarire che il prezzo a cui l'azienda viene ceduta non deriva dal valore a cui lo stesso è stato stimato, bensì dal valore di mercato quale viene a determinarsi in ragione dell'interesse manifestato dai potenziali acquirenti e dalle offerte di prezzo da questi avanzate.
L'erronea determinazione del valore dell'azienda in esercizio da parte dell'esperto nominato nel corso della procedura non determina alcuna nullità sotto il profilo della violazione di una norma inderogabile posta a tutela dei creditori del negozio successivamente stipulato dai commissari con l'autorizzazione del Ministero dello Sviluppo economico, in quanto non appare idonea a pregiudicare la finalità dell'ottenimento del miglior prezzo di mercato.

Il caso

Una società in amministrazione straordinaria ricorreva contro il decreto della Corte d'Appello di Ancona (che, curiosamente, per un evidente errore di dattilografia, la sentenza in commento indica come Corte d'Appello di Bologna) che aveva confermato, ad eccezione delle spese relative alla consulenza tecnica d'ufficio che poneva a carico in pari quota alle parti, il precedente decreto del Tribunale di Ancona che aveva dichiarato la nullità, ai sensi dell'art. 1418 c.c., della cessione del complesso aziendale intercorsa tra i Commissari straordinari della società in amministrazione straordinaria e gli acquirenti, nonché la nullità del precedente contratto preliminare stipulato tra le stesse parti, di ogni ulteriore atto conseguente e successivo, disapplicando, ai sensi dell'art. 5 della legge 2248/1865, all. E, le autorizzazioni amministrative rilasciate, su richiesta dei Commissari, dal Ministero dello Sviluppo economico (per una ricognizione del precedente grado di giudizio, vedi, su questo portale R. Amatore, Conseguenze in ordine alla mancata applicazione dei criteri di stima per la vendita delle aziende in esercizio ex artt. 62 e 63 d.lgs. 270/1999).

Il Tribunale, per ciò che qui interessa, previo riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario, aveva affermato, nella sostanza, che vi fosse stata un'errata valutazione dei beni oggetto della cessione, ritenendo inderogabile il criterio in base al quale, nella determinazione del valore dell'azienda ai fini dell'alienazione, la redditività negativa dovesse essere calcolata solo con riferimento al biennio successivo alla stima (e non al quadriennio successivo, come era stato fatto dal perito nominato dai Commissari).

La severa censura che veniva mossa dalla società in amministrazione straordinaria alla sentenza della Corte territoriale anconetana non era tanto quella di aver condiviso il ragionamento logico-giuridico del Tribunale, quanto, piuttosto, di non aver conferito il dovuto rilievo al disposto interpretativo, di nuova introduzione, dell'art. 11, comma 3-quinquies, della L. 21 febbraio 2014, n. 9, in forza del quale il valore del compendio aziendale stimato dall'esperto non costituisce “un limite inderogabile ai fini della legittimità della vendita”.

La questione e le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, innanzitutto, affronta e dichiara infondate le censure di carenza di giurisdizione del giudice ordinario a favore di quello amministrativo, ribadendo senza alcuna esitazione che la giurisdizione del primo giudice discende direttamente dall'art. 65 del decreto legislativo n. 270/1999, laddove prevede che contro gli atti e i provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, relativi alla liquidazione dei beni di imprese in amministrazione straordinaria, è ammesso ricorso al Tribunale.

La sentenza in commento osserva che, se da un lato, la procedura di amministrazione straordinaria coinvolge sia diritti soggettivi che interessi legittimi, dall'altro lato non possono sussistere dubbi che i diritti soggettivi dei creditori rimangano tali fino a liquidazione compiuta e, anzi, le norme di carattere procedurale che disciplinano la liquidazione dei beni dell'impresa in amministrazione straordinaria sono poste proprio a (maggior) tutela dei diritti dei creditori, in modo tale da garantire il miglior risultato possibile per il miglior soddisfacimento di tali diritti (soggettivi) di credito, con la conseguenza che la violazione di tali norme procedurali comporta la violazione di situazioni giuridiche di diritto soggettivo con inevitabili ripercussioni ai fini della validità della procedura di liquidazione. Di converso, il potere discrezionale della pubblica amministrazione interviene solo all'atto della decisione di vendere e nella scelta dell'acquirente, ed è solo in questi casi che potrebbe sussistere la degradazione di diritti soggettivi a meri interessi legittimi.

D'altra parte non v'è dubbio alcuno che l'amministrazione straordinaria sia una procedura liquidatoria riguardante imprese private, attuata secondo le regole delle procedure concorsuali, così come non v'è dubbio che l'intervento della pubblica amministrazione si giustifichi in ragione delle dimensioni dell'impresa in relazione agli effetti che la sua liquidazione potrebbero determinare nell'ambito del settore produttivo nazionale e dell'occupazione, valorizzando il fatto che i beni posti in liquidazione appartengono all'impresa privata e che i contratti di cessione sono a tutti gli effetti contratti di diritto privato in nulla assimilabili o equiparabili a contratti di natura pubblica. A tali contratti di cessione dei beni dell'impresa saranno, dunque, applicabili le regole generali in tema di nullità ed annullabilità stabilite dal codice civile.

Ben più interessante è, invece, la questione concernente la nullità dell'atto di cessione dell'azienda, confermata, appunto dalla Corte territoriale, nonostante l'interpretazione autentica dell'art. 11, comma 3-quinquies, della L. 21 febbraio 2014, n. 9, in forza del quale il valore del compendio aziendale stimato dall'esperto non costituisce “un limite inderogabile ai fini della legittimità della vendita”.

Rimandando, per i contenuti e per il commento alla sentenza della Corte d'Appello di Ancona, al già ricordato articolo di R. Amatore (ut supra), basterà qui ricordare che la sentenza in commento conferma e fa propri i principi già precedentemente affermati dalla stessa Suprema Corte con la sentenza 27 maggio 2009, n. 12247 (in Dir. banc., 2010, I, 119 e in Fall., 2010, 302), che ribadiscono il carattere vincolante ed inderogabile delle disposizioni di cui agli artt. 62 e 63 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 [(osservanza dei criteri generali dettati dal Ministero dell'Industria, accertamento preventivo del valore dei beni da liquidare, adozione di sistemi di pubblicità idonei per beni immobili, le aziende ed i rami d'azienda di valore superiore a cento milioni (di vecchie lire)] al fine della salvaguardia degli interessi dei creditori, dei lavoratori, nonché dell'interesse generale alla conservazione del patrimonio produttivo. La violazione di tali principi comporta, ipso facto, la nullità dell'atto di cessione, così come la nullità degli atti prodromici e conseguenti.

Tuttavia, in tale contesto, s'inserisce la novità legislativa di cui all'art. 11, comma 3-quinquies della L. 21 febbraio 2014, n. 9, di conversione del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, norma di interpretazione autentica dell'art. 63 d.lgs. 270/99 a tenore della quale “L'art. 63 del decreto legislativo 8 luglio 1999 n. 270 si interpreta nel senso che, fermi restando gli obblighi di cui al comma 2 e di valutazione discrezionale di cui al comma 3, il valore determinato ai sensi del comma 1 non costituisce un limite inderogabile fini della legittimità della vendita”.

Quid iuris?

L'insegnamento delle Sezioni Unite sembra essere chiaro: posto che se tale interpretazione autentica si limitasse a confermare un principio chiaro da sempre, in virtù del quale, in qualsiasi procedura concorsuale, il prezzo di vendita di qualunque bene è sempre suscettibile di aumento o diminuzione in relazione alle offerte pervenute o alla mancanza delle stesse, essa sarebbe del tutto inutile e superflua, lo sforzo dell'interprete deve andare oltre, indagando ogni possibile ulteriore significato che, a giudizio della Suprema Corte, non sembra (tale è il verbo usato) altro che la volontà espressa di introdurre una eccezione all'inderogabilità dei principi di cui agli artt. 62 e 63 più volte citati; ed anzi, il legislatore, con l'interpretazione autentica, avrebbe tenuto presente proprio il precedente arresto giurisprudenziale della Suprema Corte, di cui alla già citata sentenza n. 12247/09.

Che il perito nominato dai Commissari abbia tenuto presente nella sua valutazione un quadriennio anziché, come stabilito dalla norma, un solo biennio, non è così rilevante da comportare la nullità dell'atto di cessione, perché – questo è l'insegnamento della Suprema Corte ed il nocciolo della questione – il prezzo a cui l'azienda viene ceduta non deriva dal valore a cui lo stesso è stato stimato, bensì dal valore di mercato quale viene a determinarsi in ragione dell'interesse manifestato dai potenziali acquirenti e dalle offerte di prezzo da questi avanzate.
Se tale conclusione appare condivisibile, potrebbe apparire altrettanto inutile la stima del perito nominato dai Commissari, perché qualunque errore (in buona fede, naturalmente) egli possa compiere, tale errore non sarà mai rilevante ai fini della validità della vendita, perché l'unica cosa che conta è il prezzo che il mercato si sarà determinato a pagare. Dunque, e conclusivamente, una perizia ci dovrà pur sempre essere, perché lo prevede la legge, ed ogni violazione di tale disposizione comporterà la nullità della vendita, ma ben poca importanza avrà il prezzo da essa indicato, perché sarà il mercato a determinare il (vero) prezzo di vendita.

Le conclusioni

Il ragionamento della Suprema Corte appare di tipo liberista,perché, diversamente dalla Corte d'Appello di Ancona, non sembra ancorato a criteri dirigisti nella determinazione del prezzo. Mentre per la Corte territoriale appare vincolante “come” è stato determinato il prezzo di vendita (anche, se poi, il prezzo sarà pur sempre stabilito dalle leggi del mercato), la Suprema Corte (interpretando l'interpretazione autentica) ritiene l'operato del perito nominato dai Commissari ed i criteri usati nella determinazione del prezzo mere variabili non cogenti perché, in ogni caso, il prezzo di vendita sarà inevitabilmente stabilito dalla domanda e dall'offerta.

Da ultimo, il rinvio alla medesima Corte d' Appello di Ancona, in diversa composizione, che dovrà valutare se la mancata osservanza del criterio di cui all'art. 63, comma 1, del d.lgs. 270/99 comporti effetti relativamente alla validità del negozio di cessione dell'azienda di natura diversa dalla nullità, sembra poco rilevante, perché l'invalidità dei negozi giuridici si caratterizza solo per nullità, annullabilità ed inefficacia (artt. 1418 e ss. c.c.). “Tolta di mezzo” la nullità, non rimarrebbe che concentrarsi sull'eventuale annullabilità del contratto di cessione, che, tuttavia, può essere eccepita solo dalla parte a protezione della quale essa è stabilita dalle legge. Inoltre, l'eventuale annullamento non può essere provocato da chiunque vi abbia interesse: non può, infatti, essere domandato dai terzi, e neppure dalla controparte, né può essere pronunciato d'ufficio dal giudice; in questo modo il soggetto tutelato viene reso il solo arbitro della sorte del negozio: a lui solo spetta di decidere se tenerlo in piedi, oppure no (P. Trimarchi,Istituzioni di diritto rivato, Milano, 2009, 236 e ss.). Né sembra in alcun modo prevedibile un'annullabilità assoluta, costituita dalla possibilità di agire da parte di chi, soggetto ulteriore rispetto alle parti di un determinato rapporto giuridico, possa dirsi titolare di un interesse ad agire in base alle norme processuali (è il caso, ad esempio, di cui all'art. 1441, comma 2, c.c., così come di altre ipotesi in materia di matrimonio e testamento).

Infine, anche l'inefficacia sembra puramente teorica, non ravvisandosi, nel caso di specie, un negozio giuridico in tutto o in parte privo di effetti, tenuto conto che l'ipotesi d'efficacia subordinata al rilascio di autorizzazioni amministrative è stata ampiamente superata dalla concessione delle autorizzazioni medesime.

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