Il fallimento delle società partecipate pubbliche

Marco Vinicio Susanna
10 Marzo 2016

La legge delega in tema di riforma della pubblica amministrazione, c.d. Legge Madia n. 124/2015, prevede importanti conseguenze per le partecipate pubbliche. Il Legislatore ha ritenuto di perseguire meglio le finalità della legge delega attraverso un testo unico delle partecipate pubbliche, che dovrà portare ad una disciplina armonica delle diverse fattispecie e fornire soluzioni anche in merito al discusso tema dell'assoggettabilità, o meno, al fallimento delle società partecipate pubbliche.
Premesse

La legge delega in tema di riforma della pubblica amministrazione, c.d. Legge Madia n. 124/2015, prevede importanti conseguenze per le partecipate pubbliche.

All'art. 18, della legge delega, vengono definite le linee guida sul riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, che hanno come finalità prioritaria quello di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza. Pertanto, alla lett. a) dello stesso art. 18 si prevede una suddivisione tra tipi di società in relazione: 1) alle attività svolte; 2) agli interessi pubblici di riferimento; 3) alla determinazione quali-quantitativa, nonché diretta o indiretta, della partecipazione; 4) alla modalità dell'affidamento diretto oppure con procedura di evidenza pubblica; 5) alla quotazione in borsa o all'emissione di strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati; 6) all'individuazione della relativa disciplina civilistica ivi compresa quella in materia di organizzazione e crisi d'impresa.

Il Legislatore ha ritenuto di perseguire meglio le finalità della legge delega attraverso un testo unico delle partecipate pubbliche, che, come appena ricordato, dovrà portare ad una disciplina armonica delle diverse fattispecie e fornire soluzioni anche in merito al discusso tema dell'assoggettabilità, o meno, al fallimento delle società partecipate pubbliche.

Dottrina e giurisprudenza, infatti, sono ancora divise e conseguentemente permane la situazione di incertezza degli operatori, delle amministrazioni e in generale del mercato. I provvedimenti legislativi si susseguono ormai incessantemente e il legislatore nel tempo sembra avere sostituito interventi tendenti a disciplinare il futuro utilizzo, in tal senso si veda quanto previsto dalla legge di stabilità n. 147/2013 ai commi da 550 a 569 dell'art. 1, nonché con la legge di stabilità n. 190/2014 dove viene imposto un piano operativo di razionalizzazione, delle società pubbliche ad interventi tendenti a limitare, o meglio a ridimensionare, il fenomeno della utilizzazione delle stesse.

L'abuso di questo strumento è ormai da tempo all'attenzione del nostro legislatore e della magistratura, anche contabile. Quest'ultima negli anni più recenti ha ristretto l'ambito di utilizzo di questo strumento societario al fine, in primis, di ridurre la spesa pubblica, ma nello stesso tempo di evitare possibili strumentalizzazioni dirette, ad esempio, ad eludere i vincoli imposti dal “patto di stabilità”, nonché a ledere la libera concorrenza.

Nonostante la chiarezza con cui si esprimono sia l'art. 1, comma 1, della legge fallimentare -“Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”- , sia l'art. 2221 c.c. - “Gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti in caso di insolvenza alle procedure del fallimento e del concordato preventivo salve le disposizioni delle leggi speciali” nonché le recenti pronunce della Corte di Cassazione (vedi da ultimo Cass. n. 22209/2013) restano ancora dubbi almeno per le società c.d. in house providing, species, secondo alcuni,del genere società partecipate pubbliche.

In altri termini, il “mondo” delle partecipate pubbliche, ancora oggi non disciplinato da una norma organica, è oggetto di interventi contingenti che impediscono una lettura sistematica, oltre il dettato della singola disposizione. In particolare, i dubbi, a parere di chi scrive, sembrano essere stati alimentati anche dalla recente sentenza delle Sezioni Unite (vedi Cass. SS.UU. n. 26283/2013) e continuano a svilupparsi al di fuori, o meglio nonostante, i precetti normativi.

Considerazioni sulle norme dettate dal Codice Civile

La prima considerazione non può non partire dalla ben nota Relazione al Codice Civile n. 998, relativa agli artt. da 2458 a 2460, ove è stato affermato che “è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. […] La disciplina comune delle società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato e di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano”.

Tale assunto potrebbe essere considerato alla base delle decisioni di legittimità in quanto appare lampante che in tema di società pubbliche è il pubblico che decide di “vestire abiti” privati e non viceversa (le cui origini possono farsi risalire già all'epoca delle società anonime ante Codice Civile, Cass. SS. UU. del 7 marzo 1940 n. 1337 in Massima, Foro It., 1941, 200 e ss. con nota di G. Ferri).

Si deve infatti osservare che:

i) nel nostro Codice Civile poche sono le disposizioni previste in tema di intervento pubblico e precisamente sono limitate all'art. 2449 come modificato;

ii) le recenti riforme in tema di diritto societario e fallimentare (Cfr. Relazione accompagnatoria al d.lgs. n. 3/03 che ha modificato il Codice Civile, mentre il d.lgs. n. 5/06 di riforma del diritto fallimentare, non ha modificato il R.d. n. 267/42, art. 1, comma 1. Ivi “Restano quindi esclusi dall'assoggettabilità alle procedure concorsuali, oltre agli imprenditori agricoli ed agli enti pubblici che esercitano in via esclusiva o prevalente un'attività economica, anche tutti i piccoli imprenditori, siano essi imprenditori individuali che collettivi.” confermando quindi che esclusi restano gli Enti pubblici e non le società a partecipazione pubblica) non hanno introdotto modifiche;

iii) lo schema di disegno di legge delega sulla riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza (Commissione Rordorf) all'art. 2, comma 1, lett. e) prevede l'esclusione esplicita solo per gli enti pubblici. Si tratta ancora di uno schema di disegno di legge delega recante “Delega al Governo per la riforma organica della disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza”. Oggi all'art. 2, comma 1, lett. e) prevede di assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore (persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore commerciale o agricolo) con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinandone distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all'apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive ed oggettive.

In tale contesto sembra potersi confermare l'intento del nostro legislatore di non disciplinare specificamente le società partecipate pubbliche in modo che le stesse restino “attratte” nella disciplina delle società private. Non si deve dimenticare infatti che le società pubbliche sono innanzitutto società per le quali la natura di imprenditore commerciale viene acquisita dal momento della loro costituzione ed iscrizione nel registro delle imprese. In altri termini, le società costituite secondo una delle forme previste dal Codice Civile sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall'effettivo esercizio dell'attività, in quanto la qualità di imprenditore commerciale collettivo viene assunta dal momento stesso della loro costituzione e non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale.

Si deve tuttavia constatare la vigenza di una serie di norme pubblicistiche (come ad es. norme speciali: in materia di contratti pubblici di cui al d.lgs.n. 163/06, in materia di accesso agli atti di cui alla L. n. 241/90, in tema di reclutamento del personale con i conseguenti divieti e limiti di assunzione, previsti dalla L. 147/2013, comma 557, nonché all'assoggettamento a obiettivi di finanza pubblica , al comma 553 della stessa legge, ovvero in tema di responsabilità contabile, stabilita all'art. 4, comma 12 del D.L. n. 95/12, in tema di anticorruzione e trasparenza) emanate di volta in volta anche per le società partecipate pubbliche private. Tuttavia, le dette ultime norme non sembrano in alcun modo portare a qualificare come enti pubblici, le società private partecipate da amministrazioni pubbliche.

Definizione del perimetro delle società pubbliche e norme in materia di fallimento di società e di enti

Le considerazioni dirette ad affermare la fallibilità delle società partecipate pubbliche appaiono diverse sotto diverse prospettive e in definitiva possono ricondursi anche a motivazioni di ordine normativo derivanti essenzialmente dalle previsioni di cui all'art. 4 della l. n. 70/75 che non permette di istituire o riconoscere nessun nuovo ente pubblico se non per espressa previsione legislativa.

In altri termini se non vi è una espressa previsione normativa che attribuisca natura pubblica alla società partecipata non risulta possibile alcuna riqualificazione in tal senso di una società privata.

A tale disposizione fanno da corollario quella di cui all'art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 conv. nella legge n. 135/2012, laddove si afferma che in tema di società a totale o parziale partecipazione pubblica si applica comunque la disciplina del Codice Civile in materia di società di capitali.

A queste si aggiungano quelle di cui al d.l. del 28 agosto 2008, n. 134, come conv. nella legge 27 ottobre 2008, n. 166 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi) che ha modificato la legge sulla ristrutturazione delle grandi imprese in crisi (d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 c.d. L. Marzano) che prevede espressamente per le società partecipate pubbliche, esercenti servizi pubblici essenziali, una particolare procedura, quella della ristrutturazione delle grandi imprese in crisi, rientrante, comunque, nell'alveo delle procedure di risoluzione della crisi. Fanno da corollario a tali motivazioni le raccomandazioni che Uncitral e Banca Mondiale hanno espresso in tema di insolvenza.

Pertanto, mancando un principio generale che declini nel senso di una esclusione si avverte che le eventuali eccezioni all'applicazione delle leggi sull'insolvenza devono essere chiaramente espresse ed essere fondate su stringenti ragioni non potendosi ammettere orientamenti giurisprudenziali mutevoli e/o incerti (Cfr. Assonime, Società a partecipazione pubblica e procedure concorsuali, Il Caso n. 2/2014, pag. 11).

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