Rinuncia alla domanda e contestuale ricorso per preconcordato in pendenza di revoca dell’ammissione per atti in frode

Melania Ranieli
09 Aprile 2013

Al concordato preventivo si applica l'art. 306 c.p.c. con la conseguenza che la rinuncia alla procedura deve essere accettata dalle altre parti. La mancata accettazione da parte di un creditore istante impedisce l'estinzione del procedimento con conseguente inammissibilità della nuova domanda di concordato depositata dopo la rinuncia.
Massima

Al concordato preventivo si applica l'art. 306 c.p.c. con la conseguenza che la rinuncia alla procedura deve essere accettata dalle altre parti. La mancata accettazione da parte di un creditore istante impedisce l'estinzione del procedimento con conseguente inammissibilità della nuova domanda di concordato depositata dopo la rinuncia.

L'attivazione del procedimento di revoca dell'ammissione al concordato preventivo ex art. 173 l. fall. rende inammissibili le modifiche alla domanda di concordato.

Il caso

Successivamente al decreto di ammissione della società debitrice alla procedura di concordato preventivo, il commissario giudiziario, ravvisando il compimento da parte della società di atti in frode ai creditori, attiva il procedimento di revoca dalla ammissione. Nelle more dello svolgimento dell'udienza fissata a tal fine, la debitrice deposita atto di rinuncia alla procedura concordataria in corso e, separatamente, a distanza di pochi giorni dalla rinuncia, una nuova domanda di concordato preventivo c.d. in bianco (ai sensi dell'art. 161, comma 6, l. fall.). La rinuncia non è accettata da un creditore costituito, il quale insiste per la revoca dell'ammissione e per la dichiarazione di fallimento.
In tali condizioni, premessa l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 306 c.p.c., il Tribunale di Parma ha ritenuto che la mancata accettazione da parte del creditore impedisse l'estinzione della procedura concordataria. Secondo il Giudicante, la nuova domanda di concordato con riserva si sarebbe quindi innestata in una procedura concordataria già pendente, con conseguente inammissibilità della stessa. Il Collegio si premura tuttavia di considerare l'eventualità che la nuova domanda possa essere qualificata alla stregua di modifica della proposta precedente, che giudica al pari inammissibile in ragione del fatto che sarebbe intervenuta successivamente all'apertura del sub-procedimento di revoca per atti in frode. Ritenuti sussistenti gli atti in frode di cui all'art. 173 l. fall., il Collegio ha quindi revocato l'iniziale ammissione alla procedura di concordato.

Le questioni giuridiche

La pronuncia in commento offre l'occasione di formulare alcune osservazioni su temi attualmente interessati da un vivace dibattito, soprattutto in giurisprudenza. La vicenda al vaglio del Tribunale di Parma presenta profili di affinità con una serie di casi, oggetto di recenti pronunce di merito (tra altre, v. Trib. Milano 4 ottobre 2012, decr., in IlFallimentarista, con nota di Giovetti, Il nuovo preconcordato: profili di inammissibilità ed abuso del diritto, ove ulteriori riff.; Trib. Latina, 30 luglio 2012, in Ilcaso.it, Trib. Napoli, 23 novembre 2011, ivi) nei quali si riscontra il ricorso da parte del debitore a pratiche, formalmente legittime, ma sostanzialmente dirette a procrastinare una (altrimenti imminente) dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 162 l. fall. (anche in combinato disposto con l'art. 179 l. fall.) o ai sensi dell'art. 173 1. fall. Le posizioni espresse dalla giurisprudenza su tali questioni meritano particolare attenzione, giacché sembrano dirette a pervenire alla, tutt'altro che agevole, individuazione del punto di equilibrio tra il favor per la soluzione concordataria della crisi d'impresa, emergente dal dato normativo, ed il contenimento del rischio che il deposito di domande di concordato, la reiterazione delle stesse tramite alternanza tra rinuncia e nuova proposta o il ricorso a innumerevoli modifiche della proposta iniziale costituiscano espedienti per procrastinare la dichiarazione di fallimento, sì da integrare un sostanziale abuso delle prerogative concesse dalla legge (cfr. Trib. Napoli, cit.). Il Tribunale di Parma segnala in proposito il pericolo che la procedura concordataria si protragga “all'infinito” e sottragga l'imprenditore dal fallimento con un “risultato gravemente dissonante rispetto alle finalità pubblicistiche di controllo e di trattamento concorsuale delle situazioni di insolvenza”.
Nella presumibile consapevolezza della delicatezza delle questioni giuridiche implicate nella decisione, il Collegio provvede a motivare con particolare ampiezza le proprie decisioni, comprese quelle incidentali.
Il Tribunale, preliminarmente, assegna alla rinuncia alla domanda di concordato la qualifica di atto processuale (la rinuncia al concordato si presta, come noto, ad essere diversamente qualificata a seconda della natura prevalentemente privatistica o prevalentemente processualistica assegnata all'istituto: sul punto, anche per i riferimenti alle diverse opinioni, cfr. F. S. Filocamo, Sub art. 175, in La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2011, 1989 e ss.) riconducibile nell'alveo dell'art. 306 c.p.c., sì da attribuire al creditore, il quale aveva chiesto il fallimento della società debitrice, la possibilità di non accettare la rinuncia e quindi di impedire l'estinzione della procedura. Coloro che invece privilegiano la qualificazione in termini prevalentemente privatistici della procedura concordataria ritengono che la rinuncia alla domanda sia da equiparare alla revoca della proposta contrattuale, pertanto possibile fintanto che la stessa non sia stata accettata dai destinatari.
Nella vicenda al vaglio del Tribunale di Parma, l'applicazione dell'art. 306 c.p.c. è stata peraltro agevolata dalla circostanza che la debitrice avesse qualificato la propria richiesta in termini di rinuncia (e non già di revoca) e richiesto l'adozione di provvedimenti compatibili con le previsioni di cui all'art. 306 c.p.c.
La mancata accettazione da parte del creditore istante per il fallimento ha quindi reso inefficace la rinuncia della debitrice. La logicamente successiva decisione del Tribunale di Parma in ordine alla inammissibilità della nuova domanda è stata condizionata dalla mancata estinzione della procedura in corso. Ed infatti, per insegnamento consolidato, l'instaurazione di una nuova procedura concordataria è preclusa dalla pendenza di una precedente procedura, giacché un imprenditore può essere ammesso ad un solo concordato preventivo per la medesima situazione di crisi o insolvenza.
Il Collegio ha quindi intrapreso una via alquanto tortuosa, e forse non necessaria ai fini della decisione del caso concreto, ossia ha valutato la possibilità di qualificare quella che era dichiaratamente una nuova domanda, in termini di modifica della domanda originaria. Tale percorso è stato intrapreso nonostante la “nuova domanda” fosse in bianco e quindi, a rigore, priva di contenuti modificativi. La qualificazione di tale peculiare domanda in termini di modifica della domanda precedente appare quanto meno forzata, salvo a volerla intendere quale richiesta di autorizzazione (non necessaria) a successive modifiche. L'assimilazione di una domanda in bianco ad una modifica della precedente istanza ha, tuttavia, fornito al Giudicante l'occasione per pronunciarsi sulla inammissibilità di modifiche alla domanda di concordato successive alla instaurazione della procedura di revoca dell'ammissione ex art. 173 l. fall. per atti in frode (sui medesimi temi, con convergenza di valutazioni e conclusioni, cfr. in dottrina D. Galletti, Una riflessione sulla revoca dell'ammissione del concordato: la rinunzia alla proposta con “nuova” domanda dopo l'atto in frode, in IlFallimentarista).
Sebbene ininfluente per la decisione di merito, non sussistendo nel caso di specie - come appena ricordato - effettive modifiche alla domanda, questa ultima affermazione ad abundantiam del Tribunale di Parma non pare del tutto condivisibile.
Il rapporto tra modifiche della domanda e procedimento di revoca dell'ammissione merita, a parer di chi scrive, di essere approcciato distinguendo opportunamente due diversi profili: un primo, che attiene alla idoneità o meno della modifica della domanda ad arrestare (rendere improcedibile) il procedimento di revoca; un secondo, che attiene alla circostanza se il Tribunale debba o meno tener conto delle modifiche apportate, e quindi trarre da esse elementi di giudizio, al fine di decidere se revocare o meno l'ammissione alla procedura.
Per il primo aspetto, le pronunce edite convergono nel ritenere che le modifiche alla domanda di concordato non producano l'effetto di arrestare il procedimento di revoca. L'opinione è condivisibile, giacché diversamente la revoca dell'ammissione risulterebbe nella sostanziale disponibilità del debitore, il quale potrebbe impedire la conclusione del procedimento limitandosi ad apportare modifiche, anche minime, alla domanda.
Il secondo profilo della questione, invece, non pare di altrettanta agevole soluzione. Si rileva, infatti, anche una difformità di posizioni in giurisprudenza.
Nel giudicare inammissibili le modifiche intervenute a giudizio di revoca già instaurato, il Tribunale di Parma si conforma ad un orientamento espresso dalla Corte d'Appello di Milano (cfr. App. Milano, 29 giugno 2011, in Ilcaso.it, ad avviso della quale “La procedura ex art. 173, legge fallimentare rende inoperante la procedura di concordato preventivo con la conseguenza che non possono essere introdotte modifiche a proposte che riguardino una procedura che non é in corso). Nella motivazione del decreto in commento tale posizione sembra essere attribuita anche al Tribunale di Latina (Trib. Latina, cit.), il quale invece precisa di non condividere la citata posizione della Corte di Appello di Milano proprio in punto di “precipitato in ordine alla non modificabilità della domanda”. Il Tribunale di Latina ha anzi cura di motivare la propria decisione di revoca precisando che le modifiche apportate alla domanda non avevano eliminato le condizioni di revocabilità dell'ammissione, lasciando intendere che, se così fosse stato, la revoca avrebbe potuto non essere disposta.
Il Tribunale di Latina, richiamato dai giudici di Parma, sembrerebbe quindi ritenere che il Giudice debba decidere se revocare o meno l'ammissione alla procedura anche alla luce delle modifiche apportate alla domanda, anche qualora le stesse siano intervenute a procedimento di revoca già attivato.
Nella definizione della questione, tale soluzione, diversa da quella seguita dal provvedimento in epigrafe, a parere di chi scrive, è da privilegiare. Essa si lascia preferire sia perché, in sintesi: a) attribuisce, seppur indirettamente, alla fattispecie di cui all'art. 173 l. fall. una portata non squisitamente sanzionatoria; b) non contrasta con un dato normativo contenuto all'art. 175 l. fall.; c) individua un accettabile punto di equilibrio tra favor per il concordato e contenimento di pratiche dilatorie e/o abusive.
Quanto al profilo sub a), il Tribunale di Parma sostiene che “l'atto in frode, siccome fatto storico ormai verificatosi, che ha manifestato la sua idoneità a trarre in inganno i creditori … non può essere rimosso attraverso una modifica della proposta. Una modifica può rimuovere un vizio di contenuto non un fatto storico”. Tale opinione si traduce in una scelta interpretativa della portata dell'art. 173 l. fall.; la revoca dell'ammissione è, infatti, intesa come sanzione per il sol fatto di aver posto in essere un atto in frode. Si dovrebbe conseguentemente ritenere che il commissario giudiziario possa addirittura attivare il procedimento di revoca, qualora la circostanza che la originaria domanda fosse fraudolenta (ad es. per effetto di omissioni tali da ingannare i creditori) emergesse in occasione di una modifica della domanda stessa, con la quale le originarie omissioni fossero state emendate. Anche in tal caso, l'atto in frode si sarebbe “ormai verificato” e non potrebbe essere rimosso tramite la modifica. Tuttavia, una tale conclusione appare eccessivamente sanzionatoria. Ed invero, la portata dell'art. 173 l. fall. in punto di revoca per atti in frode parrebbe poter essere intesa diretta a sanzionare soltanto quelle condotte potenzialmente idonee ad incidere sulla consapevolezza del voto (sulla ratio di dell'art. 173 cfr. ex multis, M. Gaboardi, Sub art. 173, in Commentario alla Legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, 641 e ss.). La disposizione esprime l'interesse dell'Ordinamento a che i creditori non votino sulla scorta di una rappresentazione falsata dei fatti e, pertanto, essa, in positivo, tutela il consapevole esercizio del voto. Laddove tale risultato fosse tempestivamente assicurato dalla complessiva condotta del debitore, l'operatività degli strumenti di tutela e sanzione parrebbe non necessaria. In tale prospettiva, la revoca dovrebbe operare tutte le volte in cui i creditori avessero già votato una domanda viziata da falsa rappresentazione; oppure nei casi in cui i creditori si accingano a votare su una siffatta domanda. Lo strumento di tutela non dovrebbe invece operare tutte le volte in cui l'interesse tutelato non sia attualmente minacciato per avere la domanda di concordato perso, per effetto delle successive modifiche, la originaria potenzialità ingannatoria. La domanda destinata ad essere votata dai creditori potrebbe, infatti, essere ormai tale da rappresentare fedelmente la realtà sì da non minacciare la consapevolezza del voto dei creditori. Un simile approccio argomentativo lo si riscontra anche in materia contrattuale, in tema di atto in frode intervenuto nella fase delle trattative. In tale contesto, la giurisprudenza (cfr., ex pluribus, Cass., 20 aprile 2006, n. 9253) ha affermato che comportamenti dolosi integranti omissione di informazioni decisive divengono causa di annullamento del contratto soltanto quando l'intero contegno del decipiens abbia indotto in errore il deceptus alterando la sua rappresentazione della realtà (sulla ammissibilità di una nuova proposta scevra di rappresentazioni infedeli o ingannatorie successivamente alla revoca della proposta precedente per atti in frode, cfr. A. Audino, Sub art. 173, in Commentario breve alla Legge Fallimentare, diretto da A. Maffei Alberti, Padova 2009, 998).
Quanto al profilo sub b), l'art. 175 l. fall. riconosce al debitore la possibilità di modificare la propria domanda fino all'inizio delle operazioni di voto. Il legislatore ha quindi inteso assicurare che la proposta votata dai creditori sia quella definitiva. Qualora nel sub-procedimento di revoca la valutazione del Tribunale si incentrasse esclusivamente sulla versione originaria della domanda si verificherebbe una dissociazione tra la domanda oggetto di valutazione da parte del Tribunale (versione originaria) e la domanda che è destinata (salvo revoca) ad essere sottoposta alla valutazione dei creditori (versione modificata). Parrebbe più coerente con il dato normativo, il quale non subordina la possibilità di modificare la domanda alla circostanza che non sia stato attivato un procedimento di revoca per atto in frode, che le valutazioni rimesse al Tribunale ex art. 173 l. fall. e quelle dei creditori abbiano ad oggetto, quando possibile, la medesima e definitiva domanda. Una tale possibilità sussisterebbe tutte le volte in cui le modifiche alla domanda intervenissero prima che il Tribunale si riservi la decisione (o decida) sulla revoca.
Quanto al profilo sub c), l'opinione che attribuisce al Tribunale la facoltà di decidere sulla revoca per atti in frode alla luce, anche, delle modifiche medio tempore apportate alla domanda, realizza un accettabile equilibrio tra l'interesse del debitore ad evitare il fallimento e gli interessi dei creditori a non essere destinatari di una domanda viziata da false rappresentazioni e a non subire una dilatazione dei tempi della procedura dovuta a pratiche volte alla mera procrastinazione del fallimento. Ed infatti, ammesso che l'intervento di modifiche non arresti di per sé il procedimento di revoca, la circostanza che il Tribunale entri nel merito delle modifiche apportate, al fine di decidere se la domanda, nella sua finale formulazione, sia o meno tale da trarre in inganno i creditori, non pare procrastinare inutilmente la procedura concordataria.

Conclusioni

La decisione del Tribunale di Parma appare alquanto restrittiva in ordine alle possibilità del debitore ammesso a concordato preventivo di evitare o posticipare la dichiarazione di fallimento tramite il ricorso a pratiche dilatorie, quali rinunce alternate a nuove domande o modifiche della domanda successive all'attivazione del procedimento di revoca per atti in frode.
La qualificazione della rinuncia alla domanda di concordato in termini di rinuncia agli atti ex art. 306 c.p.c. produce l'effetto di subordinare l'estinzione della procedura alla accettazione delle altre parti. Tale soluzione interpretativa pare condivisibile, in quanto assicura un adeguato contemperamento dell'interesse del debitore ad arrestare una procedura per, eventualmente, intraprenderne una nuova e l'interesse del creditore istante per il fallimento a contenere i tempi procedurali ed a conseguire una decisione sulla propria domanda nell'ambito di una procedura già pendente e già, almeno parzialmente, istruita.
L'opinione incidentalmente espressa dal Tribunale di Parma, circa la inammissibilità di modifiche alla originaria domanda in pendenza di procedimento di revoca per atti in frode, non pare assicurare, invece, un altrettanto condivisibile punto di equilibrio tra gli interessi del debitore e quelli dei creditori. La soluzione interpretativa adottata nel provvedimento in commento potrebbe condurre, infatti, a sanzionare un debitore che abbia compiuto un atto in frode anche qualora, modificando tempestivamente (art. 175 l. fall.) la propria domanda, lo stesso avesse emendato i vizi della versione originaria. Lo strumento in definitiva opererebbe anche qualora la domanda definitiva, ossia quella sulla quale i creditori dovrebbero pronunciarsi, fosse tale da rappresentare fedelmente la situazione nella quale versa l'impresa e da non compromettere la consapevolezza del voto da parte dei creditori.

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