Decorrenza dei termini per la riassunzione da parte del curatore dell’impresa fallita di processi interrotti

26 Marzo 2013

Per il curatore fallimentare il termine per la riassunzione del processo interrotto per effetto del fallimento decorre in ogni caso dalla sentenza dichiarativa.
Massima

Per il curatore fallimentare il termine per la riassunzione del processo interrotto per effetto del fallimento decorre in ogni caso dalla sentenza dichiarativa.

La mancata conoscenza incolpevole da parte del curatore dell'esistenza di una causa pendente non determina un diverso decorso del termine di riassunzione, ma solo la possibilità di chiedere la rimessione in termini.

Il caso

La sentenza in commento respinge le domande formulate da una procedura fallimentare, ritenendo tardiva la riassunzione del processo in quanto avvenuta oltre il termine di tre mesi (oggi previsto dall'art. 305 c.p.c. in luogo dei sei mesi concessi sino all'entrata in vigore della riforma processuale introdotta con L. 18 giugno 2009, n. 69), computato a far tempo dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento.
Il Tribunale romano giunge a tale decisione muovendo dalla inequivoca formulazione dell'art. 43, comma 3, l. fall., coordinato con la previsione degli artt. 299 e 305 c.p.c. che fanno decorrere dall'evento interruttivo il termine per la riassunzione; i giudici capitolini confermano, in particolare, che - essendo individuabile in capo al curatore fallimentare la “conoscenza legale” del fallimento dalla data della sentenza dichiarativa - per l'organo concorsuale il termine per la riassunzione decorre dalla comunicazione al curatore della nomina prevista ai fini della sua accettazione.
Il tribunale, poi, stempera il rigore del principio, precisando che ben può darsi che il curatore venga a conoscenza dell'esistenza del giudizio interrotto solo in data successiva, ritenendo, peraltro, che in tali casi sussistano solo i presupposti per chiedere, al più, la rimessione in termini, senza che si possa invece ipotizzare una diversa decorrenza del termine fissato dall'art. 305 c.p.c.
Nella fattispecie, la sentenza in commento conclude, peraltro, per la declaratoria di estinzione - non senza ricordare che a norma del novellato art. 307 c.p.c. a tale sanzione il giudicante può pervenire anche ex officio -, rilevando che la rimessione in termini non era stata oggetto di espressa richiesta dal parte del fallimento, né la curatela aveva dedotto specifiche ragioni in forza delle quali il ritardo nel riassumere la controversia potesse addebitarsi a causa non imputabile al curatore.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La sentenza pare sembra applicare in modo equilibrato le disposizioni normative in tema di interruzione del processo, contemperando le generali esigenze di certezza del diritto - che impongono celerità nell'assunzione delle decisioni in merito alla prosecuzione o meno dei procedimenti giudiziari interrotti - e di tutela della buona fede della parte che non sia a conoscenza del diritto da tutelare.
Prima della riforma il presupposto della disciplina si fondava sulla equiparazione del fallimento dell'impresa ad una vicenda estintiva del soggetto originario (anche se, a voler essere pignoli, per citare la recente Cass. 13 luglio 2012, n. 11945, “la dichiarazione di fallimento non comporta il venir meno dell'impresa, ma solo la perdita della legittimazione sostanziale e processuale da parte del suo titolare, nella cui posizione subentra il curatore fallimentare”), dalla quale discendeva, secondo la tesi prevalente, l'applicazione dell'art. 300 c.p.c., di modo che l'effetto interruttivo veniva differito - in forza di una sorta di proroga del potere rappresentativo attribuito al difensore - al momento in cui il procuratore del fallito costituito in giudizio ne dava notizia nel processo (per tutte, Cass. Civ., 9 febbraio 1993, n. 1588 e Cass., Sez. lavoro, 10 maggio 2002, n. 6771), essendo invece irrilevante il momento della pronunzia del provvedimento formale di declaratoria dell'interruzione (Cass., sez. un., 20 marzo 2008, n. 7443); l'effetto interruttivo, in applicazione della norma applicata, retroagiva al momento dell'evento solo se la parte non era ancora costituita.
La situazione è radicalmente mutata dopo la riforma, poichè la norma cui si deve oggi fare più precipuo riferimento è l'ultimo comma dell'art. 43 l. fall. (aggiunto dal D.lgs. 5/2006) in forza del quale “l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo”.
Per l'effetto, dopo la riforma, più che alla situazione prevista dall'art. 300 c.p.c., si deve ipotizzare il ricorrere di una situazione che comporta l'interruzione automatica a norma dell'art. 299 c.p.c. (Trib. Terni, 21 febbraio 2011), senza che a nulla rilevi l'avvenuta dichiarazione del difensore dell'impresa fallita e men che meno, come già sancito in passato, la formale dichiarazione del giudice di interruzione del processo (tant'è che è stata ritenuta tardiva la riassunzione avvenuta con il deposito di una memoria dopo che era già decorso il termine, pur se il processo, che veniva perciò dichiarato estinto, non era stato ancora dichiarato interrotto: Trib. Roma, 6 febbraio 2011, in Ilcaso.it).
Se così è, ne deriva che alla dichiarazione di fallimento consegue in via automatica l'applicazione delle norme in tema di interruzione e, tra queste, dell'art. 305 c.p.c. che fissa oggi in tre mesi il termine per riassumere il processo, termine che viene, quindi, fatto decorrere dal momento in cui il fallimento viene dichiarato, a prescindere dal fatto che l'avvio delle procedura sia stato reso noto al difensore e che, di conseguenza, questi ne abbia dato notizia in seno al giudizio pendente.
La rigidità del meccanismo - che ha indotto, ad esempio, Trib. Roma, 30 giugno 2009, in Fall., 2010, 536 a dichiarare tardiva la riassunzione richiesta oltre i sei mesi computati dalla pubblicazione della sentenza di fallimento - è stata poi temperata dall'interpretazione “costituzionalmente orientata” della norma, che non potrebbe andare a ledere i diritti alla tutela giudiziale di quella parte che non sia a conoscenza dell'evento interruttivo.
A seguito dell'intervento della Consulta, infatti, l'interpretazione giurisprudenziale più corretta impone di far decorrere l'evento interruttivo dal momento in cui la parte in bonis viene notiziata dell'avvenuto fallimento, informativa che, peraltro, non necessariamente deve avvenire nel processo, atteso che, come precisa Trib. Terni, 21 febbraio 2011, cit., la conoscenza dell'evento interruttivo non solo è integrata anche dalla certificazione del fallimento contenuta nella relata dell'ufficiale giudiziario che notifichi un atto alla procedura anziché al soggetto fallito, ma ben può essere fatta decorrere da una comunicazione formale del curatore (Trib. Bari, 14 dicembre 2010), come quella prevista dall'art. 92 l. fall.
Sennonchè il ragionamento vale a differire il termine di riassunzione per le controparti dell'impresa fallita, non anche per il curatore, che acquisisce la conoscenza legale del fallimento - ovvero dell'evento interruttivo - nel momento in cui esso viene dichiarato, o meglio, più propriamente - come la sentenza ha il merito di precisare -, quando accetta la carica e quindi da quello stesso momento sa di dover riassumere le cause pendenti, sempre che lo ritenga opportuno (ad esempio, la curatela non avrà interesse a proseguire le cause passive di accertamento dei crediti, posto che le stesse sarebbero improcedibili per effetto della prevalenza del rito speciale previsto per la verifica del passivo).
Il problema è che il curatore non sempre è in grado di acquisire in tempi brevi un quadro esaustivo del contenzioso pendente: già reperire il legale rappresentante può risultare attività difficoltosa e, d'altro canto, l'esistenza di cause non emerge di per sé dalla contabilità; di contro, non è affatto scontato che il difensore dell'impresa fallita sia informato del fallimento (non è detto che l'impresa si sia affidata al solo avvocato che, in ipotesi, può averla seguita nel procedimento pre-fallimentare, così come è possibile che il legale non compaia nell'elenco dei creditori ai quali il curatore invierà la comunicazione prevista dall'art. 92 l. fall.) alla data di dichiarazione, in modo da poter segnalare al curatore l'opportunità di proseguire un giudizio pendente (fermo restando che tale comunicazione costituisce precipuo obbligo per il legale del fallito, come precisa Trib. Roma, 10 febbraio 2009, in Foro It., 2009, I, 2534).
A ciò si aggiunga il rilievo pratico che, nella maggior parte delle situazioni, il curatore preferisce nominare un legale di fiducia al fine di valutare l'opportunità di dare seguito ad iniziative giudiziarie e così, dovendo il nuovo difensore studiare il fascicolo, la decisione di riassumere la causa di fatto deve essere assunta dal curatore in tempi assai ristretti.
La sentenza in commento tiene conto di queste esigenze concrete, ma non ritiene che esse possano valere a superare il dato normativo: dovendosi assimilare la disciplina a quella regolata dall'art. 299 c.p.c., ciò che assume rilevanza è la conoscenza dell'evento che provoca ex lege l'interruzione dei processi in generale e quindi, nel caso di specie, dell'avvenuta dichiarazione di fallimento, non rilevando la conoscenza specifica dell'effetto interruttivo prodottosi su un determinato giudizio, pur se ignoto al curatore.
La pronunzia dei giudici capitolini, invece, ammette in astratto che possa applicarsi alla fattispecie l'istituto della rimessione in termini, ritenendo in tal senso consentito al curatore di chiedere di sanare la tardività della riassunzione nei casi in cui questa discende dalla mancata tempestiva comunicazione della pendenza della lite da parte del difensore dell'impresa fallita.
Tuttavia tale beneficio non viene ritenuto applicabile se non nei casi in cui la curatela ne abbia fatto espressa e motivata richiesta, deducendo le ragioni che possano giustificare la rimessione in termini, istanza in assenza della quale il giudicante non può esimersi dal pronunziare l'estinzione del giudizio tardivamente riassunto.

Osservazioni

Sotto il profilo giuridico la sentenza in commento pare ineccepibile: quando il dato normativo è chiaro, non è concesso al giudice di superarlo in via interpretativa: il contenuto precettivo dell'art. 43 l. fall. e degli artt. 299 e 305 c.p.c. non sembra effettivamente possa consentire dubbi circa il momento in cui si produce l'effetto interruttivo, che segna anche il decorso del termine per la riassuzione (tant'è che nel giudizio tributario il legislatore ha ritenuto di derogare a tale meccanismo con l'espressa disposizione dettata dal D.lgs. n. 546/92 che, come precisa Cass., sez. Trib., 13 ottobre 2011, n. 21108, prevale sull'art. 43 l.fall.).
In tal senso, pare corretta la conferma della tesi già consolidata (applicata alla fattispecie riformata anche da Trib. Mantova 2 ottobre 2012, in Ilcaso.it), secondo la quale la dichiarazione formale dell'interruzione non ha rilevanza ai fini del computo del termine; in tal senso depone il chiaro testo della norma processuale, che fa decorrere il termine dall'evento interruttivo. La tesi opposta sostenuta in passato da qualche isolata pronunzia (per tutte, Cass., Sez. lavoro, 16 marzo 2006, n. 5816, peraltro esplicitamente criticata dalle Sezioni unite con la citata sentenza 7443/2008), in forza della quale si vorrebbe attribuire una precipua rilevanza a quel provvedimento, non convince, se non nella misura in cui sia riferita alla “conoscenza legale” che con la dichiarazione del giudice diviene indiscutibile erga omnes; d'altro canto, se - per evitare che la pendenza del processo dipenda da eventi incerti - è necessario stabilire un parametro, non è di per sé sostenibile che l'unico mezzo di conoscenza dell'evento concorsuale sia appunto il provvedimento interruttivo.
Anzi, proprio in quanto la normativa prevede che il termine per riassumere il processo decorra dall'evento interruttivo o meglio dalla sua conoscenza, il limite temporale non può essere tout court differito sino a che il giudice pronunzi l'interruzione, se la conoscenza del fallimento è anteriore, così come è indubbio che la norma faccia riferimento all'evento interruttivo, non al suo accertamento processuale.
Per altro verso, la conoscenza dell'evento interruttivo in capo al curatore non potrebbe neppure essere superata attribuendo rilievo alla figura del difensore: anzitutto, il curatore non ha conferito il mandato difensivo e quel rapporto viene meno con il fallimento (e da ciò discende la coerenza della modifica normativa rispetto ad una corrente che postulava il perdurare del mandato difensivo che appare quanto mai “fittizio” a seguito dello spossamento del fallito) - tant'è che la disposizione dell'art. 43 l.fall. viene correttamente ricondotta all'art. 299 c.p.c., che disciplina l'ipotesi dell'interruzione per eventi che riguardano la parte non costituita (senza neppure dover scomodare il principio generale che si evince dall'art. 1391 c.c. in forza del quale il rappresentato a conoscenza dell'evento interruttivo non potrebbe giovarsi dell'ignoranza del mandatario). Ciò vale anche e soprattutto a voler considerare la finalità acceleratoria della disposizione - indicata anche nella Relazione alla normativa riformata -, la cui ratio viene individuata proprio nella volontà di imporre all'organo concorsuale prontezza di decisioni, evitando lungaggini processuali (come ricordano Trib. Bari, 14 dicembre 2010, in Ilcaso.it e Trib. Roma, 6 febbraio 2011, ivi). D'altro canto, non pare casuale che l'art. 104-ter l. fall. imponga al curatore di inserire nel programma di liquidazione - da depositare entro sessanta giorni dall'inventario - l'indicazione circa “le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare ed il loro possibile esito”: evidentemente, nelle prime due tipologie rientrano anche le azioni introdotte dal fallito di cui, dunque, è necessario che il curatore prenda coscienza quanto prima, salvo tener conto del rilievo che - come accennato - ciò non sempre gli è materialmente possibile.
La rilevanza del possibile ritardo con cui il curatore può apprendere l'esistenza della causa può essere ravvisata, quindi, solo in funzione del prodursi in concreto di una situazione di incolpevole ignoranza della necessità di compiere l'attività processuale specifica, che integra l'ipotesi - di natura generale - disciplinata dall'art. 153 c.p.c. (che comunque riprende il principio già introdotto dall'abrogato art. 184-bis c.p.c.) che consente alla parte di superare ogni decadenza in cui sia incorsa incolpevolmente.
Il richiamo all'istituto della rimessione in termini attuato dalla sentenza in commento pare coerente con altre elaborazioni giurisprudenziali, ed in particolare fa pensare alla corrente affermatasi in tema di perfezionamento della notifica del gravame non andata a buon fine. Si ritiene, infatti, che in quel caso la parte possa riprendere il procedimento notificatorio che non si sia perfezionato senza colpa del richiedente, formulando, poi, istanza di rimessione in termini, sì da far decorrere gli effetti dell'atto dall'avvio della procedura notificatoria (cfr. per tutte Cass. civ., sez. II, 10 ottobre 2012, n. 18074).
Anche in quel caso, peraltro, la giurisprudenza onera la parte di un doppio adempimento: di porre rimedio in tempi ragionevolmente rapidi alla carenza in cui la parte è incorsa (cfr. Cass. civ., sez. II, 26 marzo 2012, n. 4841 e Cass. civ., sez. V, 6 giugno 2012, n. 9114) e, inoltre, di richiedere espressamente (motivando l'istanza con la deduzione e la prova del motivo del ritardo non imputabile, come precisa Cass. civ., sez. lavoro, 28 settembre 2011, n. 19836) la rimessione in termini nel gravame che ne segue e ciò al fine di scoraggiare la parte dal mantenere atteggiamenti dilatori pur dopo che sia venuta meno la situazione di incolpevole inattività.
La sentenza in commento segue, di fatto, la stessa impostazione: l'incolpevole ignoranza della necessità di riassumere un giudizio nei termini non può comportare il differimento sine die del termine di riassunzione, ma impone alla curatela di riassumere prontamente il giudizio e di richiedere espressamente che, nell'ambito del medesimo processo riassunto, venga accertata la ritualità della riassunzione tardiva e quindi la sussistenza dei presupposti - primo fra tutti la non addebitabilità del ritardo al curatore e la tempestività dell'iniziativa assunta - per la rimessione in termini.

Questioni aperte

Alla luce di quanto osservato, la disciplina normativa - così come ricostruita dalla pronunzia del Tribunale romano -, appare coerentemente delineata, anche per effetto della precisazione secondo la quale la decorrenza del termine di riassunzione non può che decorrere dalla comunicazione della sentenza; il pensiero va anche all'ipotesi in cui il curatore nominato in sentenza non accetti l'incarico: in tal caso, sarebbe incongruo far decorrere il termine non solo dalla sentenza, ma anche dalla comunicazione al curatore che non sia poi mai entrato in carica; pare evidente che, in tal caso, l'accettazione deve costituire una condizione per la produzione degli effetti del fallimento che postulano una iniziativa dell'organo, che non può avvenire prima della nomina di un soggetto che accetti di tutelare l'interesse della massa dei creditori.
Sotto tale ultimo profilo, l'unico dubbio che ci si potrebbe porre riguarda il rapporto tra l'inerzia del curatore che non sia scusabile e l'effetto negativo a carico dei creditori: fermo restando che il curatore inerte potrebbe essere sanzionato con la revoca e la responsabilità per i danni cagionati, ci si chiede se il curatore che subentri in surroga possa a sua volta chiedere la rimessione in termini. L'impressione è che la rigidità del sistema non tolleri una simile incertezza, posto che il differimento dell'estinzione del processo dipenderebbe dalla scoperta dell'infedeltà del curatore e dalla sua revoca ed in ogni caso in quanto il rapporto organico fa sì che comunque la decisione del curatore venga riferita al fallimento e, come precisa in linea generale Cass. civ., sez. lavoro, 25 marzo 2011, n. 7003, la rimessione in termini è istituto che non può trovare applicazione per rimediare ad una scelta processuale che si rilevi errata, ovvero se questa sia conseguenza di un errore di diritto (Cass. civ., sez. VI, 29 luglio 2010, n. 17704).

Conclusioni

In definitiva, quindi, la soluzione proposta dalla sentenza in commento può definirsi l'applicazione più rispettosa del contenuto precettivo della norma processuale che, in quanto di non incerta interpretazione, non potrebbe dar luogo ad una diversa disciplina; d'altro canto, l'utilizzo di un principio generale come quello della rimessione in termini dovrebbe essere ovviamente sempre consentito al fine di stemperare la rigidità di un sistema di preclusioni che, evidentemente, è dettato in funzione del paradigma astratto e ben può essere adeguato in caso di concreta difformità della realtà dei fatti, conservando, peraltro, la ratio della norma - come detto, costituita dalla imposizione al curatore di prontezza di reazione -, laddove il termine per riassumere i giudizi non viene esteso sine die, ma semplicemente ne viene differito il decorso al fine di non recare danno ai creditori in situazione in cui al curatore fu oggettivamente impedito senza colpa di attivarsi nel termine di legge.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Sull'effetto interruttivo del fallimento nella disciplina ante riforma, si vedano M. Montinari, La sopravvenienza del fallimento in corso di causa tra riforma e recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Fall., 2008, 308 ss.; C. Consolo e R. Muroni, Amministrazione straordinaria e termine a quo dell'interruzione del processo e per la sua riassunzione, in Fall., 2009, 960 ss. e l'analisi di sintesi di A. Parisi, Rapporti processuali, in C. Cavallini (a cura di), Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 901 ss.; sulla riconducibilità del regime processuale allo spossessamento del fallito: M. Cataldo, Orientamenti giurisprudenziali in materia di rapporti processuali ed interruzione dei giudizi nella riforma della legge fallimentare, in Fall., 2007, 1433.
Successivamente all'introduzione dell'ultimo alinea dell'art. 43 l. fall., è pressochè pacifico che l'evento interruttivo sia costituito dalla dichiarazione fallimento ed operi da quel momento; in tal senso, App. Firenze, 1° ottobre 2010, in Ilcaso.it; Trib. Catania - Acireale, 22 ottobre 2009, ivi; Trib. Roma, 10 febbraio 2009, in Foro It., 2009, I, 2534; in dottrina, per tutti: R. Rosapepe, Effetti nei confronti del fallito, in Buonocore - A. Bassi (a cura di) Trattato di diritto fallimentare, vol. III, Padova, 2011, 256 ss.; F. Marelli, Rapporti processuali, in Jorio e Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 713 ss. Sulla questione della decorrenza dalla dichiarazione di fallimento piuttosto che dall'accettazione: F. Murino, Fictio iuris della regola dell'"ora zero" e dies a quo per la prosecuzione del giudizio da parte della curatela fallimentare (dopo Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17, in Corr.Giur., 2010, 612 ss.). E' rimasta, in tal senso, isolata la tesi di F. Cossignani, Il termine per la riassunzione del processo interrotto dalla dichiarazione di fallimento, in Fall., 2009, 968 ss., il quale deduce dal mancato richiamo dell'art. 43 l. fall. alla previsione dell'art. 305 c.p.c. che non esiste un termine per la riassunzione; anche a non voler dubitare della possibilità di termini processuali “aperti”, l'interpretazione si pone in netto contrasto con la ratio acceleratoria della norma, esplicitata anche nella Relazione alla riforma che ha modificato l'art. 43 l.fall.. Sulla dichiarabilità d'ufficio dell'estinzione del processo non riassunto nei termini: V. Vitalone, Gli organi del fallimento, in V. Vitalone - S. Chimenti - R Riedi, Il diritto processuale del fallimento, Torino, II ed., 2010, 126 ss..
Secondo una interpretazione già suggerita in dottrina (G. Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, Milano, 2008, 391; A. Parisi, Rapporti processuali, cit., 908 ss.) e poi fatta oggetto di questione di legittimità da Trib. Biella, 6 marzo 2009, in Fall., 2010, 955, peraltro, la tesi secondo la quale la pubblicità della sentenza di fallimento legittimerebbe una conoscenza presunta e quindi il decorso del termine di riassunzione per la controparte del fallito (v. anche G. Pellegrino, Gli effetti del fallimento sul fallito: breve commento alle novità introdotte dalla riforma, in Dir.fall., 2008, I, 712 ss.) violerebbe il diritto di difesa della parte che subirebbe un'estinzione del processo essendo ignara dell'evento interruttivo, senza che convinca il richiamo agli effetti della pubblicazione della sentenza nel R.I. (come nota V. Vitalone, Gli organi del fallimento, cit., 127 ss.). Accogliendo, di fatto, quelle perplessità, l'art. 43 l. fall. è stato, quindi, oggetto di interpretazione autentica da parte della Consulta, che ha dichiarato inammissibile la questione di incostituzionalità sul presupposto che comunque la norma debba essere interpretata - come già del resto statuito in passato dalle pronunzie costituzionali riferite all'art. 305 c.p.c. (v. per tutte Corte Cost., 24 maggio 2000, n. 151) - in ossequio ai principi di tutela del diritto di difesa, ovvero nel senso che il termine per la riassunzione decorre dalla conoscenza del fallimento in capo al soggetto che riassuma il processo (in tal senso, Corte Cost., 21 gennaio 2010, n. 17, poi ripresa e confermata da Corte Cost., 21 luglio 2010, n. 261).
Di contro, viene confermato l'orientamento consolidato secondo il quale, per il soggetto colpito dall'evento interruttivo e quindi a conoscenza del medesimo, è irrilevante la conoscenza della pendenza del processo (come ricorda F. Cossignani, Il termine per la riassunzione del processo interrotto dalla dichiarazione di fallimento, cit., 972, citando tra l'altro Corte Cost., 27 marzo 1992, n. 136, che aveva in tal senso concluso nel respingere la questione di costituzionalità dell'art. 305 c.p.c. riferita specificamente all'ipotesi del fallimento) e da tale principio discende la conclusione che l'effetto interruttivo si produce per il curatore immediatamente con (la comunicazione del)la sentenza di fallimento.
Sulla eccessiva rigidità dell'automatismo anche rispetto al fallimento e sulla opportunità di applicare a favore della curatela l'istituto della rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. si erano già espressi L. Groppoli, Interruzione, riassunzione e tutela del diritto di difesa del curatore, in Fall., 2010, 538 e C. Consolo e R. Muroni, Amministrazione straordinaria e termine a quo dell'interruzione del processo, cit., 967.
Va anche precisato che il termine per la riassunzione deve intendersi rispettato se prima del suo decorso venga depositato il ricorso (Cass. 31 luglio 2012, n. 13683), a prescindere dal momento in cui avviene la notifica alle parti (quel termine veniva dichiarato non perentorio già da Cass. 1 settembre 1997, n. 8314) e ciò costituisce un vantaggio per la parte che non deve assoggettarsi ai tempi necessari per le attività notificatorie.

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