Il nuovo preconcordato: profili di inammissibilità ed abuso del diritto

Alessandra Giovetti
20 Febbraio 2013

Il decreto in commento, con cui il Tribunale di Milano ha dichiarato inammissibile una domanda di c.d. preconcordato ex art. 161, comma 6, l. fall., offre lo spunto per affrontare alcune tematiche di particolare interesse in relazione al nuovo istituto. Preliminarmente, giova inquadrare brevemente la fattispecie in esame.
Introduzione

Il decreto in commento, con cui il Tribunale di Milano ha dichiarato inammissibile una domanda di c.d. preconcordato ex art. 161, comma 6, l. fall., offre lo spunto per affrontare alcune tematiche di particolare interesse in relazione al nuovo istituto. Preliminarmente, giova inquadrare brevemente la fattispecie in esame.

a seguito del deposito di una domanda di concordato preventivo (in merito alla quale il Tribunale già aveva rilevato la sussistenza di profili di inammissibilità) la società proponente - convocata per riferire su tali profili - rinunziava alla predetta domanda, contestualmente depositando un ricorso ex art. 161, comma 6, l. fall.. Il Tribunale ambrosiano, nel dichiarare inammissibile tale ultima domanda, ha evidenziato l'incoerenza delle finalità (meramente dilatorie) perseguite dalla società proponente rispetto a quelle proprie del nuovo istituto, rilevando la sussistenza di profili riconducibili alla fattispecie del c.d. “abuso di diritto”. Il tema appare quanto mai attuale, soprattutto alla luce dei potenziali rischi riconnessi al nuovo istituto (tra i quali, in concreto, la possibile incentivazione di condotte di moral hazard da parte di imprenditori in crisi non meritevoli. Così: Rolfi, La generale intensificazione dell'automatic stay, in questo portale).

Breve analisi del nuovo istituto del c.d. preconcordato

Il nuovo istituto di cui all'art. 161, comma 6, l. fall., è stato introdotto dal recente ‘Decreto Sviluppo' (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) per porre rimedio all'insufficiente protezione accordata al debitore durante la predisposizione del piano sotteso all'operazione di ristrutturazione del proprio indebitamento. Come noto, l'istituto è modulato sulla falsariga del c.d. automatic stay statunitense: di esso già si conosceva una versione “italiana” prevista all'art 182-bis, comma 6, l. fall. (che consente al debitore di depositare una proposta “sommaria” di accordo di ristrutturazione finalizzata all'emanazione di un'inibitoria da parte del Tribunale per la durata di 60 giorni, entro i quali depositare la proposta definitiva, venendo meno, in difetto, i detti effetti protettivi).
Ai sensi della nuova norma, il debitore in crisi può quindi depositare un ricorso con cui richiedere al tribunale la concessione di un termine entro il quale presentare un ricorso per concordato preventivo, ovvero un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. (e, quindi, la proposta, il piano e la relativa documentazione prescritta dalla legge).
Fatte queste brevi premesse, occorre rilevare, quale primo profilo di criticità, che il ricorso depositato dal debitore proponente consiste in una domanda priva di qualsivoglia elemento idoneo a consentire al tribunale il vaglio circa la serietà e/o meritevolezza e/o concreta possibilità, per il ricorrente, di porre in essere l'operazione di ristrutturazione, con il rischio di un possibile aggravamento della crisi nelle more dello spirare del termine concesso dal tribunale. In altre parole, il legislatore ha consentito al debitore (ed anche a quello potenzialmente immeritevole) di ottenere l'anticipazione degli effetti protettivi sul proprio patrimonio, con conseguente possibilità per lo stesso di non pagare i propri debiti per il relativo periodo e di proseguire la propria attività in danno delle “altre imprese creditrici che gravitano intorno all'impresa in crisi, moltiplicando l'effetto domino causato dal contagio dell'insolvenza” (come osservato dallo stesso Pres. Lamanna, La legge fallimentare dopo il ‘Decreto Sviluppo', in Il Civilista - Speciale Riforma, Milano, 2012, 42).
Proprio per la sua struttura “anomala”, tale istituto è stato rinominato “concordato in bianco”, ovvero - con denominazione che ha riscosso maggior successo anche presso i tribunali - “preconcordato”. Proprio dal fatto che la nuova norma non preveda alcun contenuto tipico del ricorso per preconcordato, discende il concreto rischio, già menzionato in apertura e peraltro ben posto in luce dal caso in commento, di condotte indebite del debitore e/o comunque di un usodistorto” e “dannoso” dell'istituto.
Alle lacune normative ha posto rimedio soprattutto il tribunale fallimentare di Milano (poi seguito da altri tribunali), che ha opportunamente deliberato di adottare alcuni orientamenti interpretativi (le c.d. “Linee Guida”, Trib. Milano, Orientamenti del Plenum, in IlFallimentarista.it) volti ad indicare le regole di corretta instaurazione e successivo svolgimento del procedimento “preconcordatario”.

Pregiudizialità del ricorso per c.d. ‘preconcordato' rispetto all'istanza di fallimento

Il Tribunale di Milano ha altresì avuto modo di affrontare il tema del rapporto di pregiudizialità intercorrente tra la domanda di concordato preventivo (o, in questo caso, di preconcordato) e l'istanza di fallimento. Ed infatti, come si è detto, la società proponente, pendente l'istanza di fallimento presentata da un creditore, depositava in prima battuta una domanda di concordato preventivo, per poi rinunziare alla stessa e contemporaneamente depositare il ricorso per preconcordato: il tutto, evidentemente, al fine di paralizzare la predetta istanza.
Sul punto pare anzitutto utile compendiare brevemente gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza che si sono susseguiti in proposito. Prima della riforma iniziata nell'anno 2005, l'art. 160 l. fall. consentiva all'imprenditore in stato di insolvenza di proporre ai creditori un concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”. Da tale inciso (successivamente eliminato dal testo della norma) si desumeva la regola della prevalenza del concordato preventivo sul fallimento, tale da determinare l'improcedibilità delle istanze di fallimento fino alla decisione della domanda di concordato preventivo (in tal senso si esprimeva, infatti, costante e consolidata giurisprudenza: tra tutte, Cass. 28 agosto 1997, n. 8152; in dottrina Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1979, 29). A seguito della predetta riforma, si è registrato un orientamento (Genoviva, Rigetto della proposta di concordato preventivo e dichiarazione di fallimento: questioni di diritto processuale e transitorio, in Fall., 2009, 63. Contra Vacchiano, Revoca e modifica della proposta di concordato preventivo, ivi, 2011, 79), che escludeva l'improcedibilità delle istanze di fallimento eventualmente pendenti, ritenendo invece doversi applicare il diverso strumento della sospensione della trattazione delle istanze di fallimento fino all'esito del procedimento di concordato preventivo (App. Torino, 17 luglio 2008, in Fall. 2009, 53. Negli stessi termini App. Milano 29 giugno 2011, in Redazione Giuffrè, 2011). Tale impostazione ha però incontrato alcune critiche sia in considerazione dell'assenza di un legame di pregiudizialità o di dipendenza in senso tecnico tra i due giudizi, tale da generare un potenziale conflitto di giudicati (e, quindi, da imporre la sospensione per pregiudizialità dell'uno o dell'altro, ai sensi dell'art. 295 c.p.c.), sia perché, determinando la necessità di una successiva riassunzione dopo il venir meno della pregiudizialità, porrebbe gravi problemi di coordinamento con le norme che prevedono espressamente la contestualità tra il provvedimento negativo sul concordato e la dichiarazione di fallimento (Genoviva, cit., 63). Altri hanno ritenuto addirittura che alla presentazione della proposta di concordato preventivo non farebbe seguito né la dichiarazione di improcedibilità, né il differimento del procedimento prefallimentare, potendo comunque il tribunale adito valutare la ricorrenza delle ragioni di opportunità per il differimento dell'udienza (De Santis, Legittimazione ad agire del Pubblico Ministero per la dichiarazione di fallimento e rapporti con le procedure concorsuali alternative, in Fall., 2010, 436). Infine, vi è stato chi, pur escludendo la dichiarazione di improcedibilità tout court, ha sottolineato come la soluzione più efficiente consisterebbe nella trattazione congiunta dei due procedimenti, perlomeno nell'ipotesi in cui il tribunale dei procedimenti sia il medesimo (Trib. Milano, 10 novembre 2009, in Ilcaso.it; Trib. Milano 25 marzo 2010, in DeJure, 2011, 1, con nota di Rolfi, Art. 182-bis tra diritto processuale, contenuti sostanziali e controllo giurisdizionale; nonché prassi operative del Tribunale di Milano - Sez. II - Verbale del Plenum 18.10.2012, su IlFallimentarista.it; Lamanna, Pre-concordato e procedura prefallimentare pendente: il termine minimo e l'oscuro riferimento al decreto di rigetto dell'istanza di fallimento, in IlFallimentarista.it; Nardecchia, Nuova proposta di concordato, istanza di fallimento e poteri del tribunale in sede di ammissione, in Fall., 2011, 12, 1453).
Sulla questione, si è espressa la Suprema Corte, con pronunce diverse fra loro, e, da ultimo, anche le Sezioni Unite hanno affrontato il tema nella nota sentenza resa in punto poteri di sindacato del tribunale sulla fattibilità del piano concordatario (Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521).
Ed infatti, a fronte di orientamenti diversi fra loro in ordine alla sussistenza o meno della pregiudizialità tra domanda di concordato e quella volta alla dichiarazione di fallimento del medesimo imprenditore (Cass., 8 febbraio 2011, n. 3059. Si veda, altresì, sulla qualificazione del rapporto in discorso in termini di pregiudizialità, Cass., 5 giugno 2009, n. 12986. Contra, per tutte, Cass. 18 settembre 2012, n. 18190), le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno confermato l'orientamento secondo cui “la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore… La conseguenzialità logica delle due procedure non si traduce dunque anche in una conseguenzialità procedimentale, ferma restando la connessione fra l'eventuale decreto di rigetto del ricorso per concordato e la successiva conseguenziale sentenza di fallimento” (Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit.).
Nell'ipotesi di pre-concordato, il tema appare più complesso, posto che l'art. 161, comma 10, l. fall. sembrerebbe contemplare espressamente un'ipotesi di “pregiudizialità” necessaria, imponendo al tribunale che riceva una domanda di pre-concordato in costanza di procedimento per la dichiarazione di fallimento, di assegnare al debitore istante il termine minimo di sessanta giorni. È peraltro giunto alla medesima conclusione chi ha letto l'inciso di apertura del decimo comma dell'art. 161 l. fall. (che fa espressamente salvo il disposto del primo comma dell'art. 22 l. fall., a mente del quale “il tribunale, che respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, provvede con decreto motivato”) come una deroga alla prevalenza del procedimento concordatario, osservando che “il tribunale anche in pendenza di una domanda di concordato in bianco è libero di provvedere sull'istanza di fallimento (solamente) quando ritenga di respingerla” (Panzani, Il concordato in bianco, cit., 2).
Sul punto, peraltro, le Linee Guida milanesi suggeriscono l'opportunità che il tribunale disponga la riunione del procedimento pre-fallimentare alla procedura di preconcordato, sospendendo il procedimento pre-fallimentare fino alla definizione di quest'ultima. Tale conclusione appare del resto del tutto in linea con la ratio informatrice della nuova Legge Fallimentare, che ha inteso salvaguardare le componenti attive e produttive dell'impresa in crisi, favorendo strumenti di composizione che consentano il recupero e la prosecuzione dell'attività, riservando al fallimento il ruolo di extrema ratio della crisi d'impresa.
Ciò detto, occorre però considerare come, dal quadro normativo e, soprattutto, dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, continui a desumersi l'insussistenza di un principio di pregiudizialità in senso tecnico fra i due procedimenti, con la conseguenza che, in pendenza di un procedimento pre-fallimentare già attivato, ove sussistessero ipotesi di “abuso del diritto” o di “intenti dilatori” del debitore (liberamente apprezzabili dal giudice di merito) il tribunale può procedere alla decisione di fallimento senza dover necessariamente aver esaurito la procedura alternativa e senza nemmeno dover rendere conto del giudizio espresso sulla proposta concordataria, posto che la “necessarietà” “per la dichiarazione di fallimento di una pronuncia di inammissibilità della richiesta di concordato si pone solo nei casi in cui il fallimento non possa ancora essere dichiarato, in mancanza dell'iniziativa di parte ora necessaria” (sul punto Cass. 18 settembre 2012, n. 18190, cit.).

L'abuso del diritto. ricognizione dello stato dell'arte ed applicabilità dell'istituto al c.d. preconcordato

L'‘abuso del diritto' non ha ancora trovato nel nostro sistema una propria positivizzazione ed è, quindi, fattispecie di elaborazione esclusivamente giurisprudenziale e dottrinaria. Come rilevato da Gentili, L'abuso del diritto come argomento, cit., esistono però precetti particolari: gli artt. 330 c.c. (abuso della patria potestà), 833 c.c. (atti emulativi del proprietario), 1015 c.c. (abuso del diritto di usufrutto), 1175 c.c. (comportamento di buona fede nei rapporti obbligatori), 1375 c.c. (esecuzione di buona fede del contratto), 2793 c.c. (abuso da parte del creditore della cosa data in pegno).
Recentemente, la Suprema Corte è intervenuta precisando che l'abuso del diritto troverebbe fondamento nel principio generale secondo cui “l'ordinamento tutela il ricorso agli strumenti che lo stesso predispone nei limiti in cui questi vengono impiegati per il fine per cui sono stati istituiti, senza procurare a chi li utilizza un vantaggio ulteriore rispetto alla tutela del diritto presidiato dallo strumento e a chi li subisce un danno maggiore rispetto a quello strettamente necessario per la realizzazione del diritto dell'agente” (Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, con nota di Perrino, Abuso del diritto e concordato fallimentare: un tentativo di affermare il principio della giustizia contrattuale?, in Foro it., 2011, 2118).
Più nel dettaglio, gli elementi costitutivi della fattispecie sono stati individuati dai giudici di legittimità - con una nota pronunzia del 2009 (Cass., 18 settembre 2009, in Giust. Civ., 2009, I, 2671) - nei seguenti: “(i) la titolarità di un diritto in capo ad un soggetto; (ii) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; (iii) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; (iv) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte”.
L'istituto dell'abuso ha trovato applicazione in sentenze pronunziate nell'ambito di procedimenti aventi ad oggetto le materie più disparate e recentemente la Suprema Corte ha statuito che l'abuso del diritto è astrattamente applicabile anche in materia concorsuale e, in particolare, in ambito concordatario (Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, cit. Si vedano anche Cass. 23 giugno 2011, n. 13817; Cass., 29 luglio 2011, n. 16738, e, da ultimo, Cass. 18 settembre 2012, n. 18190, cit.). Il che non stupisce, tenuto conto dell'effetto naturale del concordato che, nel nuovo sistema delineato dalla Legge Fallimentare, ha visto il superamento della concezione pubblicistica - o processualistica - in favore di quella c.d. “negoziale”, muovendo dalla centralità dell'accordo tra l'imprenditore e la maggioranza dei suoi creditori, con conseguente incisione di detta maggioranza sui diritti soggettivi dei singoli (In proposito, si veda Conca, Il rapporto tra autonomia privata e controllo giudiziale nel concordato preventivo, in IlFallimentarista.it, 2012).
Ed infatti, come proprio la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire (per tutte: Cass. 18 settembre 2012, n. 18190, cit.), il diritto dell'imprenditore ad accedere ad una soluzione concordataria della sua crisi non può certo far venir meno in capo al tribunale “l'indefettibile apprezzamento circa l'intento sottostante la soluzione pattizia che deve essere esclusa laddove, esprimendo un proposito meramente dilatorio, manifesti un abuso del diritto del debitore, anche alla luce dell'affrancamento di questo dal requisito della meritevolezza”.
Corollario di questo principio è anche l'insindacabilità della decisione del tribunale in merito alla sussistenza di un'iniziativa concordataria “abusiva o dilatoria”, posto che siffatta valutazione attiene a profili squisitamente di merito che, ove congruamente valutati e motivati dal giudice di merito, risultano incensurabili in sede di giudizio di legittimità.
Di talché spetterà al tribunale, alla luce delle risultanze emerse nel procedimento, valutare se, nel caso sottoposto al suo esame, la soluzione concordataria o pre-concordataria proposta abbia carattere dilatorio o comprima in modo ingiustificato le ragioni del creditore istante per il fallimento. E che dopo la novella introdotta dal c.d. Decreto Sviluppo si assista frequentemente a pre-concordati “abusivi” o “dilatori”, appare ormai evidente in molti casi in cui l'impresa tende a procrastinare la situazione d'insolvenza in danno dei creditori sociali (Trib. Messina, decr., 4 ottobre 2012).
Tanto premesso, venendo ora al caso di specie, il Tribunale di Milano ha ravvisato nella condotta della società proponente - in coerenza con la giurisprudenza di legittimità -, uno sviamento abusivo delle funzioni tipiche dell'istituto concordatario, laddove la stessa, per mezzo della rinuncia tout court alla domanda di concordato e della contestuale proposizione del ricorso ex art. 161, comma 7, l. fall., ha invero mirato da un lato “a paralizzare ad libitum l'istanza di fallimento del creditore” e, dall'altro lato, “ad evitare sine die di rendere i chiarimenti e le integrazioni documentali di volta in volta richiesti dal tribunale a pena di inammissibilità dell'originaria domanda”: il tutto, con evidente ed ingiustificato pregiudizio del creditore istante, “titolare a sua volta di un interesse giuridicamente tutelato alla declaratoria di fallimento in assenza delle condizioni di ammissibilità del concordato originariamente proposto”.
Peraltro, la “abusività” del comportamento della società emerge ancor più chiaramente tenuto conto delle peculiarità (recte, criticità) proprie del nuovo strumento “preconcordatario”, evidenziate nei paragrafi precedenti (e ci si riferisce, in particolare, alla possibilità per il debitore di depositare un ricorso “in bianco”). Nel caso in esame, peraltro, la società istante - ben lungi dal proporre una modifica del piano sotteso all'originaria proposta di concordato (il che, in astratto, avrebbe anche potuto giovare alla massa) - ha tentato di ottenere un ingiustificato (ed evidentemente pregiudizievole per i propri creditori) effetto dilatorio, funzionale ad eludere il provvedimento di inammissibilità dell'originaria domanda, sottraendosi alla richiesta di chiarimenti circa i profili che hanno poi condotto al detto provvedimento.
In altre parole, la facoltà di accedere agli istituti accordati dalla Legge Fallimentare all'imprenditore in crisi non può essere un diritto accordato all'imprenditore insolvente di procrastinare indefinitamente la dichiarazione di fallimento della società debitrice, tanto più se si considera che resta immutato l'obbligo (sanzionato anche penalmente) del debitore di non aggravare il dissesto ritardando la propria dichiarazione di fallimento (art. 217, comma 1, n. 4 l. fall. a mente del quale è punito l'imprenditore che “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa” e art. 224 l. fall. per le società). Sotto quest'ultimo profilo, anche le norme dettate in materia penale contribuiscono a chiarire come le soluzioni concordate della crisi non siano un diritto dell'imprenditore insolvente, bensì una mera facoltà concessa allo stesso di offrire ai creditori una soluzione della crisi a questi ultimi più conveniente rispetto al fallimento, richiedere il quale resta però un obbligo per l'imprenditore allorché dal suo stato d'insolvenza possa generarsi un aggravio dei conti in danno dei creditori sociali.
Ma se così è, pare che il tribunale possa e debba dichiarare il fallimento non solo laddove emerga un comportamento dilatorio dell'imprenditore insolvente ed un suo mancato adempimento all'obbligo di richiedere il fallimento, in presenza di un'istanza di fallimento pendente e, conseguentemente, dell'esercizio di un diritto da parte del creditore, ma che tale obbligo di dichiarazione del fallimento sussista ogni qualvolta si sia presenza di un aggravio del dissesto, al di là ed a prescindere dal fatto che il pre-concordato sia “dilatorio o abusivo”.
In altri termini, in presenza di un'istanza di fallimento pendente, si potrebbe sostenere che sia discutibile anche la sussistenza di un diritto dell'imprenditore ad ottenere il c.d. termine minimo del pre-concordato indipendentemente dal fatto che tale pre-concordato presenti o meno profili di “abusività”, posto che, in mancanza di una prova positiva fornita dall'imprenditore insolvente circa il fatto che non sussistano i presupposti per un aggravio del dissesto, in presenza dei requisiti di legge (insolvenza e pendenza di una richiesta di fallimento su cui il creditore istante persista nonostante il deposito del pre-concordato), il tribunale dovrebbe comunque dichiarare il fallimento, onde evitare il concretarsi di una fattispecie penalmente rilevante.
Se si ritenesse condivisibile una siffatta impostazione, conseguirebbe in capo al debitore che presenti domanda di pre-concordato un onere, con riferimento al periodo richiesto al tribunale per depositare il concordato definitivo o l'accordo di ristrutturazione, vuoi di provare il mancato aggravio del dissesto (per esempio in ragione del fatto che l'impresa non genera nuovi oneri o perdite), vuoi, comunque, di dimostrare che le eventuali maggiori perdite sono “compensate” con i vantaggi che il redigendo piano concordatario o la prosecuzione dell'attività d'impresa può procurare ai creditori sociali. Il che si tradurrebbe in un onere di allegazione di tali circostanze da parte del debitore in sede di ricorso per pre-concordato, che, se non ottemperato, non potrebbe che condurre detto debitore al rischio di una dichiarazione di fallimento se già pendente un'istanza del creditore o una richiesta del PM o di responsabilità per aggravio del dissesto ove, in assenza di una richiesta di fallimento, all'esito del periodo concesso dal tribunale non venga presentato un concordato ammissibile e/o fattibile o un accordo di ristrutturazione omologabile.
Tornando alla fattispecie esaminata dal tribunale di Milano, il debitore aveva posto in essere una serie di atti astrattamente prodromici al proprio risanamento, tutti, però, ripetutamente sfociati in un “nulla di fatto”: in primo luogo, depositando una domanda di automatic stay ai sensi dell'art. 182-bis, comma 7, l. fall., cui non era conseguito il deposito dell'accordo di ristrutturazione; in secondo luogo depositando la domanda (inammissibile) di concordato, poi rinunciata con contestuale deposito di una domanda di preconcordato “al buio”.
Osserva quindi giustamente il tribunale che l'effetto voluto dalla debitrice nessun altro è stato se non quello di “riattivare l'effetto protettivo con una nuova partenza da zero”. Ed è proprio in ciò, in buona sostanza, che si configura l'abuso del diritto: l'intento che il legislatore ha inteso perseguire introducendo quello che è stato definito come “automatic stay sulla parola” (Rolfi, cit.) - forse eccessivamente semplificato rispetto a quello previsto dall'art. 182-bis, comma 6, l. fall. (il quale, quantomeno, contempla un approfondito vaglio preliminare del Tribunale in contraddittorio con i creditori) - è quello di offrire al soggetto in crisi le necessarie protezioni e tutele che gli consentano di proporre ai creditori (anche nel loro interesse) una seria operazione di composizione della crisi. Non certo di attribuire al debitore la facoltà di paralizzare (ingiustificatamente e per un termine indefinito) le azioni legittimamente spettanti ai suoi creditori: il che è peraltro confermato dallo stesso dettato normativo, laddove è prevista (i) la non reiterabilità della domanda di preconcordato, qualora la stessa sia già stata depositata nei due anni antecedenti ed alla stessa non abbia fatto seguito l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o l'omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. (art. 161, comma 9, l. fall.); e (ii) la possibilità per il tribunale, pendente un'istanza di fallimento, di concedere esclusivamente il termine minimo di 60 giorni (art. 161, comma 10, l. fall.), al fine di tutelare l'interesse del creditore istante a sentir dichiarare in tempi ragionevoli, sussistendone i presupposti, il fallimento del proprio debitore.
Diversamente ragionando, peraltro, si giungerebbe all'inammissibile paradosso per cui il fallimento della società debitrice sarebbe impedito “all'infinito”, mediante la proposizione di consecutive domande di concordato (e/o preconcordato) e contestuali revoche delle stesse.

Ulteriori possibili profili di criticità circa la revoca di una domanda di concordato per la sua sostituzione con una domanda di c.d. preconcordato

Il provvedimento de quo offre, inoltre, lo spunto per svolgere una riflessione - alla luce delle recenti modifiche apportate alla Legge Fallimentare dal c.d. ‘Decreto Sviluppo' - in merito alla facoltà, per il debitore proponente, di revocare la domanda di concordato e, in seguito, di proporne una nuova, sulla base della medesima situazione di crisi. Il tutto, al netto di eventuali profili di abuso del diritto che, come si è visto, precludono sicuramente tale facoltà.
In proposito, occorre preliminarmente ricordare che, vigente l'originaria disciplina ante riforma del 2005, la stessa possibilità di revoca della domanda concordataria era controversa: da una parte, veniva esclusa l'ammissibilità della revoca successivamente al decreto di ammissione alla procedura (Trib. Roma, 19 luglio 1990, in Giur. Merito, 1991, I, 6), dall'altra vi era chi riteneva la revoca consentita sino all'approvazione del concordato da parte dei creditori (Trib. Chieti, 24 settembre 1986, in Dir. Fall., 1986, II, 947), ovvero ancora sino alla sua omologazione (Trib. S. Maria Capua Vetere, 26 luglio 2005, in Fall., 2006, 567). “Il contrasto dipendeva dall'incerta individuazione della natura giuridica del concordato preventivo, derivando dalla connotazione processualistica dell'istituto il riconoscimento della facoltà di rinunciare all'azione, da quella contrattualistica l'impossibilità di privare di efficacia il consenso manifestato dai creditori” (Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, 942). Nel contesto normativo riformato, l'affermarsi della teoria contrattualistica, in virtù dell'accentuazione riconosciuta al debitore nella scelta delle iniziative idonee al superamento della crisi, ha condotto una parte della dottrina a ritenere ammissibile la revoca della proposta anche successivamente all'apertura della procedura, ma comunque non successivamente all'approvazione (recte accettazione) della proposta concordataria da parte dei creditori (Arato, La domanda di concordato preventivo dopo il D.lgs. 12 settembre 2007 n. 169, in Dir. Fall., 2008, 71; Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, cit., 942). In tale contesto, è stato osservato che “l'atto di ritiro (o rinuncia) non va accettato dai creditori, né esige particolari finalità processuali, solo essendo sufficiente che provenga in modo certo dal debitore; il suo effetto è quello di procurare una retrocessione della situazione qua ante con ogni conseguenza a carico del solo debitore e salva la riproponibilità di altra proposta di concordato preventivo” (Ferro, La legge fallimentare, commentario teorico pratico, Padova, 2011, 1872). Tuttavia, tale conclusione circa la possibilità di riproposizione della proposta di concordato a seguito della rinunzia di quella precedentemente depositata, potrebbe non essere così pacifica alla luce del nuovo assetto della legge fallimentare, come modificata dal c.d. ‘Decreto Sviluppo'.
Muovendo dal caso in esame, occorre precisare che la società proponente ha espressamente rinunziato alla domanda giudiziale (ovvero alla domanda per mezzo della quale ha richiesto di essere ammessa alla procedura di concordato) e non solo alla proposta di concordato (mediante la quale, invece, il debitore, rivolgendosi ai propri creditori, chiede loro di approvare il piano di composizione della crisi sotteso alla domanda giudiziale). Il che potrebbe addirittura condurre a ritenere che, alla luce dei principi generali, il debitore abbia rinunziato alla stessa facoltà di accedere alla procedura concordataria. Ed infatti, un conto è revocare la proposta ‘contrattuale' (per sostituire e/o modificare la stessa mediante la sostituzione e/o modificazione del piano originario), un conto è revocare la domanda giudiziale e, conseguentemente, rinunziare sostanzialmente a richiedere al Tribunale l'ammissione alla procedura concordataria: ciò, si badi, non già al fine (legittimo) di rinunziare effettivamente all'accesso al concordato, bensì di arrestare un iter procedimentale precisamente tratteggiato dalla legge, per “ripartire da zero” con una domanda di pre-concordato, in modo da conservare, senza soluzione di continuità, gli effetti protettivi della prima domanda.
Fermi restando i profili di abuso del diritto già commentati, si tratta quindi di accertare se il debitore sia oggi in astratto legittimato a dar luogo ad una retrocessione del procedimento radicato, con facoltà di proporre una nuova domanda di concordato (e, a fortiori, una domanda di concordato in bianco), sulla base della medesima situazione di crisi, laddove la legge fallimentare novellata rafforza in capo al debitore stesso la facoltà di modificare la proposta concordataria (di fatto, anche sostituendo integralmente il piano). Come noto, con l'introduzione di una disciplina ad hoc per il concordato con continuità aziendale ai sensi del nuovo art. 186-bis l. fall., è stato espressamente previsto che, se nel corso di tale procedura “l'esercizio dell'attività d'impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell'articolo 173”, restando “salva la facoltà del debitore di modificare la proposta di concordato”. Tale norma esprime, ad avviso di chi scrive, un chiaro favor del legislatore - in un'ottica di celerità volta alla miglior composizione della crisi - verso la conservazione del procedimento instaurato per chiare ragioni di economia processuale: il che appare indiscutibile, considerato che la norma in parola consente al debitore proponente - anche pendente il procedimento ex art. 173 l. fall. - una modifica più che sostanziale, che invero importa il completo mutamento (e, quindi, la sostituzione) del piano (i.e. da proposta che contempla la continuità aziendale a proposta meramente liquidatoria).
Ciò detto, non si vede come il debitore proponente - instaurato il procedimento camerale per il vaglio di ammissibilità della proposta (giunto, sub specie, allo “stadio del redde rationem in punto di ammissione”) - possa legittimamente, anziché apportare eventuali modifiche alla detta proposta, non solo (i) revocare la domanda giudiziale di ammissione alla procedura concordataria per sostituirla con una nuova domanda di concordato (nell'ambito della stessa situazione di crisi), ma addirittura (ii) depositare un ricorso ai sensi dell'art. 161, comma 7, l. fall. “riservandosi” di presentare poi un'ulteriore domanda di concordato, senza nemmeno dare atto dei mutamenti che intende apportare rispetto alla domanda (ed al piano) originaria, che interverrebbero peraltro sulla base dei medesimi presupposti fattuali.
Inoltre, laddove il pre-concordato segua ad un concordato già presentato, la “successione” sembra preclusa dalla stessa interpretazione estensiva dell'art. 161, comma 9, l.fall. laddove statuisce che la domanda di pre-concordato è inammissibile se l'imprenditore nei due anni precedenti ha presentato altra domanda ai sensi del medesimo comma alla quale non abbia seguito l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti (Lamanna, Possibilità di “consecutio” solo unidirezionale tra pre-concordato e concordato. Profili di abuso del diritto, in IlFallimentarista.it, 2013), posto che la norma sembra aver chiaramente inteso limitare i tentativi di accesso allo strumento concordatario nell'ambito della stessa situazione di crisi.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario