Limiti alla reclamabilità dell’autorizzazione ad agire concessa al Curatore e conseguenze per le iniziative processuali strumentali

04 Dicembre 2012

La controparte del fallimento nel contenzioso avviato dalla procedura non è legittimata, per difetto di interesse, a reclamare avverso il decreto autorizzativo dell'azione.
Massima

La controparte del fallimento nel contenzioso avviato dalla procedura non è legittimata, per difetto di interesse, a reclamare avverso il decreto autorizzativo dell'azione.

L'avvio di procedimenti di contestazione endo-fallimentare ritenuti inammissibili può essere sanzionato con la condanna del reclamante alla rifusione delle spese in misura aggravata.

Il caso

A margine di un contenzioso avviato dal Curatore in relazione ad un contratto di cessione di azienda, il soggetto evocato in giudizio dal fallimento proponeva reclamo avverso il decreto con il quale era stata autorizzata l'azione, sostenendo che l'istanza della curatela non conteneva una compiuta informativa in merito al contenuto ed ai presupposti dell'azione intrapresa.

Il Tribunale romano, di contro, ha respinto il reclamo, sostenendo che solo un soggetto interessato alla procedura concorsuale - quale un creditore - è legittimato a contestare gli atti interni al procedimento quale, appunto, la decisione di merito del Giudice delegato con riguardo alla opportunità di promuovere azioni legali, di modo che la legittimazione non spetta al soggetto nei confronti del quale viene interpresa l'azione autorizzata.
Inoltre, ritenuto che l'iniziativa inammissibile avviata dalla controparte del fallimento in palese assenza di interesse costituisce una ipotesi di abuso del processo, i Giudici capitolini hanno condannato il reclamante alla rifusione delle spese in misura aggravata a norma del terzo comma dell'art. 96 c.p.c.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Due sono le questioni sollevate dalla pronunzia in commento: anzitutto, più in generale, il decreto - pur ribadendo che il rilascio dell'autorizzazione ad agire ha la funzione di rimuovere una preclusione procedurale che impedirebbe al curatore di agire validamente in giudizio - conclude che la concessione di tale autorizzazione costituisce un atto interno alla procedura, evidentemente ritenuto dal Tribunale di tipo amministrativo-gestorio, che come tale può essere contestato solo da soggetti che vantino un interesse diretto alla corretta gestione delle attività concorsuali.
Sotto questo primo profilo, il Tribunale romano accoglie una accezione restrittiva del concetto di “interesse” in relazione all'operato degli organi concorsuali, sancendo di fatto che la legittimazione a contestare il merito dei provvedimenti del Giudice delegato sussiste solo per coloro che “partecipano” alla procedura concorsuale, ruolo che evidentemente viene riconosciuto esclusivamente agli organi fallimentari ed ai creditori ammessi al passivo, non ritenendo il Tribunale tutelabili interessi particolari di soggetti sui quali - non crediamo che tale posizione sia negabile in capo alla controparte del fallimento nei contenziosi pendenti - il provvedimento è destinato ad incidere.
Il decreto in esame sembra porsi in tal senso in contrasto con una corrente giurisprudenziale più risalente (v. per tutte Cass. civ., Sez. I, 22.10.2004, n. 20637), secondo la quale - in relazione alle cause in cui è prescritta l'autorizzazione del Giudice delegato - la controparte della procedura deve impugnare eventuali carenze in sede endo-fallimentare e non come vizio ostativo del procedimento contenzioso avviato su autorizzazione asseritamente invalida.
Meno comune è la statuizione che applica alla fattispecie l'art. 96 c.p.c. e sanziona (pervero, più pesantemente nei toni che negli importi) la temerarietà dell'iniziativa assunta dalla controparte del fallimento.
La pronunzia capitolina, sul punto, teorizza un vero e proprio diritto della procedura concorsuale ad uno svolgimento che non sia intralciato da iniziative che non siano dettate dalla legittima aspirazione a tutelare un interesse del soggetto che contesti la ritualità delle decisioni assunte dagli organi concorsuali.

Osservazioni

Nel merito, la statuizione del Tribunale di Roma appare corretta laddove nega alla controparte del fallimento la legittimazione a contestare la valutazione di convenienza compiuta dal Giudice delegato, in funzione della situazione al medesimo sottoposta dal curatore, ai fini della proposizione di una causa, in quanto - a ben vedere - il soggetto destinatario dell'azione concorsuale, più che carente di interesse, è portatore di un interesse in conflitto con quello generale dei creditori, dando per scontato che dall'avvio o dalla prosecuzione dell'azione legale la curatela conta di acquisire un realizzo o di contro di limitare il riconoscimento dell'altrui diritto.
Sotto tale profilo, nella prassi si riscontra il frequente ricorso, nelle azioni promosse da fallimenti ed altre procedure, ad eccezioni volte a negare che il curatore sia munito di idonea autorizzazione del Giudice delegato.
Tale contestazione può essere talora fondata, soprattutto in relazione alla proposizione di azioni di responsabilità, posto che in tali ipotesi - ma si tratta, a maggior ragione dopo la riforma, di una fattispecie eccezionale - l'azione è effettivamente condizionata alla preventiva autorizzazione del Giudice delegato (quindi, non è il Comitato dei creditori a rilasciare l'autorizzazione, anche se è prescritto che esso venga sentito).
In questo senso, la pronunzia in commento contiene un passaggio rilevante, laddove conferma che anche nell'ordinamento vigente la concessione dell'autorizzazione rimuove una vera e propria limitazione al potere di agire del curatore, sottolineatura quantomai rilevante poiché, da un lato ed in generale, a seguito della riforma emerge la chiara propensione del legislatore a rimuovere l'obbligo autorizzativo (in particolare per le controversie di stato passivo), ovvero a trasferire al Comitato dei creditori molte delle attribuzioni autorizzative prima affidate al Giudice delegato. Peraltro, nello stesso senso, depone la specifica disposizione contenuta nell'art. 104-ter l. fall. (laddove è imposto al curatore di indicare nel programma di liquidazione quali azioni legali il fallimento intenda intraprendere, con espressa indicazione dei presupposti e delle valutazioni sulla fondatezza e l'utilità presumibilmente conseguibile dall'esercizio delle azioni), disposizione che poteva far propendere per una tacita abrogazione o forse più propriamente per un “depotenziamento” del contenuto precettivo dell'art. 31 l. fall., con una limitazione del ruolo del giudice a quello di mero certificatore della decisione del curatore - cui oltretutto era altresì rimessa la scelta del legale - di agire in giudizio. In tal senso poteva anche deporre l'indicazione contenuta nell'art. 25, n. 6, l. fall., che - in quanto in parte ripetitiva del successivo art. 31 l. fall. - sembrava sovrapporsi alla previsione che preclude al curatore di stare in giudizio; il riferimento alla liquidazione dei legali nominati, anzi, poteva indurre a pensare che l'azione intrapresa senza specifica autorizzazione potesse semplicemente rimanere economicamente a carico del curatore.
Viceversa, il fatto che il legislatore abbia mantenuto l'art. 31 l. fall. fa ritenere corretta la tesi accolta dal Tribunale romano, che conferma l'orientamento formatosi ante riforma e tuttora prevalente (S. Recchioni, Poteri del Giudice Delegato, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di C. Cavallini, Milano, 2010, 583 ss.), secondo il quale il curatore incontra un limite assoluto di legittimazione a promuovere azioni che non siano autorizzate dal Giudice delegato; statuizione del tutto corretta quindi, in quanto gli artt. 25 e 31 l. fall. non sono affatto norme antitetiche, ma semplicemente disciplinano la stessa attività sotto due diversi profili, ovvero l'ambito dei poteri del Giudice e la disciplina limitativa dei poteri del curatore. Tale conclusione trova anche conferma nella modifica apportata dal D.lgs. 169/2007 proprio all'art. 104-ter l. fall.: la soppressione dell'ultimo alinea, che attribuiva alla approvazione del programma valenza autorizzativa per gli atti in esso indicati, è un chiaro indice della volontà del legislatore di riconfermare la necessità degli atti autorizzativi specifici, ivi compresi evidentemente quelli previsti dall'art. 31 l. fall.
Per le stesse ragioni, non pare convincente la tesi secondo la quale l'art. 31 l. fall. dovrebbe essere letto alla luce dell'art. 104-ter l. fall., nel senso che la valutazione sull'opportunità di promuovere le cause non spetti più al Giudice delegato su richiesta del curatore, ma debba essere avallata anzitutto dal Comitato dei creditori con l'approvazione del documento programmatico (nel qual caso, secondo tale tesi, il Giudice non potrebbe non avallare l'azione così approvata dal Comitato dei Creditori: A. Penta, Gli organi della procedura fallimentare, Padova, 2009, 108 ss.); portando all'estremo tale interpretazione, si giunge ad affermare che l'azione non prevista nel programma non potrebbe essere poi autorizzata se non all'esito di una previa integrazione del medesimo programma con un nuovo assenso del Comitato ai sensi del quinto comma dell'art. 104-ter l. fall. (A. Penta, Gli organi della procedura fallimentare, cit., 116; M. Liaci, Gestione della procedura, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro A. e Sandulli M., Torino, 2010, 411). La tesi mi pare sopravvaluti il senso della previsione relativa al documento programmatico atteso che l'anticipazione del curatore sulle azioni da intraprendere ha una funzione chiaramente cognitiva, non autorizzativa. Inoltre, dopo l'intervento del “decreto correttivo” del 2007, l'art. 104-ter l. fall. prevede che il giudice autorizzi gli atti conformi al programma, ma non solo quelli espressamente in esso previsti; del tutto legittimo ritenere quindi che l'autorizzazione specifica sia sempre necessaria (M.R. Grossi, Gli organi del fallimento, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di L. Ghia - C. Piccininni - F. Severini, vol. III, Torino, 2010, 25) e che possano essere autorizzate anche azioni di cui emerga la necessità o l'opportunità al di fuori del programma di liquidazione (F. Carbonara, Gestione della procedura, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, Bologna, 2007, 710 s.; C. Proto, Il controllo preventivo del giudice delegato sull'attività processuale del curatore prima e dopo la riforma fallimentare, in Fall., 2007, 1422 ss.), ovvero negata l'autorizzazione per l'azione di cui non sia stata adeguatamente vagliata l'opportunità nel medesimo documento programmatico (Trib. La Spezia, 31 maggio 2010, in Fall., 2010, 1215).
Occorre anche considerare che, nella prassi, si assiste da ultimo ad un irrigidimento dei criteri di valutazione adottati dai Giudici delegati in tema di autorizzabilità dei giudizi, laddove - oltre ad una valutazione preventiva circa la fondatezza dell'azione - viene anche richiesta una sorta di pre-verifica (termine che talora sembra evocare anche il concetto di pre-veggenza) in merito all'esito concreto delle iniziative processuali, al fine di evitare azioni dannose per la massa (in tal senso anche A. Penta, Gli organi della procedura fallimentare, cit., 132), sino a giungere a ritenere carente la richiesta di autorizzazione che non individui esattamente la domanda che si intende proporre in giudizio (tanto da ritenere non autorizzata la revocatoria per importi non specificamente indicati nell'istanza per l'autorizzazione ad agire: Trib. Milano, 5 ottobre 2006, in Fall., 2007, 675).
Un simile approccio, pervero, potrebbe anche portare a conclusioni opposte a quelle fatte proprie dai Giudici capitolini, in quanto non sarebbe errato ritenere che, ai fini della ritualità dell'iniziativa della curatela, all'assenza di autorizzazione debba equipararsi l'autorizzazione invalida e, considerato che la nullità è impugnabile da chiunque vi abbia interesse, ciò aprirebbe le porte a contestazioni rilevabili anche ad opera dei soggetti evocati in giudizio dalla curatela, laddove sarebbe invece esclusa la contestabilità della decisione discrezionale del Giudice delegato.
L'unica ipotesi che in parte postula un trattamento più rigoroso è proprio quella prevista dall'art. 146 l. fall., ove il potere degli organi tutori si estende alla valutazione sulla opportunità di esercitare l'azione, decisione che impone che nell'istanza del curatore quantomeno vengano rappresentati al Comitato dei creditori ed al Giudice delegato i presupposti in fatto ed in diritto che inducono a ritenere promovibile l'azione. Proprio a quella fattispecie invero sono riferite alcune pronunzie di merito (Trib. Milano, 13 ottobre 1988, in Dir. Fall., 1989, II, 442) e di legittimità che sembrano ammettere il reclamo della parte controinteressata per contestare i vizi formativi del decreto che ha autorizzato l'azione (pur escludendo invece che il provvedimento emesso sul reclamo sia poi ricorribile in Cassazione: v. Cass. civ., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8666).
Viceversa, la pronunzia in commento nega che comunque sussista una legittimazione ad impugnare i decreti autorizzativi mediante il ricorso a strumenti di reclamo endo-fallimentare, rimedi che sarebbero riservati ai soli soggetti titolari di interessi specifici nell'ambito della procedura concorsuale.
Peraltro, vale la pena di affrontare la questione anche da un diverso punto di vista, valutando quale sia il “contenuto minimodi un decreto autorizzativo affinché possa ritenersi superata la limitazione oggettiva al potere del curatore di agire in giudizio. Sotto tale profilo, pare evidente che qualsivoglia contestazione circa la ritualità del decreto non può essere estesa oltre i limiti dei poteri attribuiti al Giudice delegato: questi deve autorizzare l'azione, non certo delimitarne le modalità di esercizio, atteso che queste rientrano nell'ambito della discrezionalità del legale nominato. In particolare, tenuto conto delle modifiche strutturali apportate dalla riforma, nella quale il ruolo del Giudice delegato appare meno invasivo, secondo un'interpretazione corrente, l'autorizzazione non potrebbe essere negata in forza di una verifica di opportunità dell'azione, ma solo per evitare azioni palesemente infondate (L. Abete, Gestione della procedura, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di C. Cavallini Milano, 2010, 555; ID, I rapporti con gli altri organi della procedura, in Fall., 2007, 1006).
In tal senso, la tesi secondo la quale sarebbe radicalmente invalida l'autorizzazione dalla quale non si possa desumere quale sia l'azione da intraprendere (S. Recchioni, Poteri del Giudice Delegato, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di C. Cavallini, Milano, 2010, 589) deve essere intesa in senso restrittivo, ovvero limitata ai casi di assenza della indicazione dell'azione ovvero di autorizzazione specificamente limitata ad una tipologia di azione (sia sotto il profilo processuale che sostanziale) incompatibile o radicalmente diversa con quella che poi viene effettivamente intrapresa dalla curatela.
Sotto tale ultimo profilo, peraltro, è errato sopravvalutare il potere del Giudice delegato di dirigere anche l'attività contenziosa del curatore: come ha di recente ribadito la Suprema Corte, “l'autorizzazione a promuovere un'azione giudiziaria conferita al curatore del fallimento dal giudice delegato si estende, senza bisogno di specifica menzione, a tutte le azioni individuabili nel provvedimento di autorizzazione” (Cass. civ., Sez. I, 5 novembre 2010, n. 22540).
Pare allo scrivente che la questione debba essere risolta alla stregua dei principi che regolano l'interpretazione degli atti (G. Lo Cascio, Commento all'art. 25 l. fall.,in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2006, 490) ed in particolare la nullità della citazione. E', in tal senso, ormai pressoché pacifico che la citazione incorre nel vizio di omessa determinazione dell'oggetto della domanda solo quando il petitum risulti omesso o assolutamente incerto (da ultimo: Cass. Civ., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077 e Cass. Civ., Sez. III, 28 agosto 2009, n. 18783).
Altro spunto utile può trarsi dalla corrente giurisprudenziale (per tutte: Cass. Civ., Sez. II, 15 aprile 2004, n. 7144) che, al fine di valutare se sussista o meno litispendenza, ritiene che si debba guardare non al titolo delle domande, ma al “bene della vita” per il quale viene avviata l'azione, concludendo che risultano omologhe due azioni che mirino allo stesso soddisfo economico.
Applicando tale criterio all'autorizzazione all'azione del curatore si evince che, in tutti i casi in cui il provvedimento sia solo presupposto legittimativo, affinché sussista una valida autorizzazione è sufficiente venga individuato l'obiettivo perseguito dal fallimento con l'azione (e proprio alla individuazione del “bene della vita” fa riferimento Trib. Milano, 30 agosto 2010, in Fall., 2011, 119 per valutare il contenuto del provvedimento autorizzativo ex art. 25 l. fall.); non convince del tutto, in questo senso, la tesi secondo la quale il giudice dell'azione intrapresa dal fallimento dovrebbe ritenere non autorizzata l'azione se ravvisi una carenza percettiva del Giudice Delegato in merito alla situazione di fatto oggetto della tutela giudiziaria (C. Proto, Il controllo preventivo del giudice delegato sull'attività processuale del curatore, cit., 1426).
Ed invero, prima della riforma si era escluso che l'autorizzazione alle azioni revocatorie dovesse essere dichiarata di per sé insufficiente al fine di chiedere la restituzione di pagamenti inefficaci ex art. 44 l. fall. (Cass. civ., Sez. I, 11 gennaio 2005, n. 351), oppure che l'autorizzazione della revocatoria ai sensi dell'art. 67 l. fall. fosse inidonea a consentire l'azione prevista dall'art. 64 l. fall. (Cass. civ., Sez. I, 15 maggio 1997, n. 4310); sul punto, la Suprema Corte aveva infatti distinto la carenza assoluta di autorizzazione rispetto alla asserita violazione dei limiti autorizzativi, questione che i Giudici di legittimità considerano tuttora quale questione interpretativa dell'atto processuale (in tal senso Cass. civ., Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10652).
In ogni caso, poi, ad essere autorizzata è l'azione, non anche la difesa, di modo che non è affatto necessario, ad esempio, autorizzare il curatore a riassumere il giudizio interrotto (S. Recchioni, Poteri del Giudice Delegato, cit., 590), posto che tale iniziativa può essere assunta anche dal difensore addirittura senza rilascio di nuova procura, ovvero a chiamare un terzo in causa, così come spetta al difensore la nomina del consulente tecnico di parte (Cass. civ., Sez. I, 13 maggio 2011, n. 10655).

Le questioni aperte

Ad ogni buon conto, quel che si evince dalla pronunzia in commento è la conferma che, se da un lato per la curatela la sussistenza dell'autorizzazione specifica costituisce un presupposto imprescindibile ai fini dell'avvio di azioni giudiziarie, d'altro canto l'avvenuta autorizzazione è soggetta ad un sindacato molto limitato.
Proprio nel solco di questa tendenza, peraltro, la questione che rimane aperta è se effettivamente la controparte processuale di una procedura non abbia legittimazione in quanto priva di interesse ad impugnare i decreti autorizzativi, non foss'altro per contestarne ipotesi di nullità; evidentemente, quanto più ampio viene ritenuto il potere del Giudice di sindacare la decisione del curatore, tanto più rilevanti potrebbero risultare i vizi decisori connessi con una omessa o carente informativa del curatore e, di contro, meno contestabili eventuali diseconomie nella gestione della procedura che si presume siano state esaminate dal Giudice nell'ambito di una attività “amministrativa” non sindacabile nel merito.
Ci si chiede, quindi, se la preoccupazione per la corretta gestione della procedura, che si sostanzia nella volontà di evitare azioni avventate, non implichi anche un sindacato che può essere sollecitato da chiunque anche in forma di reclamo per contestare la carente o errata informativa data al Giudice (ad esempio, seguendo tale impostazione S. Recchioni, Poteri del Giudice Delegato, cit., 588 giunge a ritenere che sia legittimata al reclamo la controparte del fallimento vittoriosa in prime cure che voglia contestare la decisione di appellare); in tal senso sembrerebbe deporre la formula assai ampia adottata dall'art. 26 l. fall., che riconosce la legittimazione al reclamo a “chiunque vi abbia interesse” con espressione che si ritiene riferita a chi subisca un pregiudizio diretto causato dalla violazione delle regole di procedura o dall'uso non corretto dei poteri discrezionali del Giudice (G. Olivieri, Il reclamo contro i decreti del giudice delegato e del tribunale, in Trattato di diritto fallimentare, a cura di V. Buonocore - A. Bassi, vol. III, Padova, 2011, 27). Il decreto in commento pare invece accogliere un'interpretazione restrittiva e se ne dovrebbe desumere che la verifica di convenienza sia volta a garantire solo i creditori, evitando spese di lite superflue, laddove non verrebbe esteso il novero dei soggetti legittimati al reclamo alle controparti del fallimento (contra C. Ferri, Commento all'art. 26 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2006, 507, il quale annovera tra i potenziali interessati il soggetto passibile di revocatoria).
Anche in relazione alla seconda statuizione permane qualche dubbio interpretativo: come già accennato, la giurisprudenza formatasi sotto la legge fallimentare previgente sembra quasi deporre in senso opposto, laddove si è sempre respinta la contestazione riferita alla validità dei provvedimenti autorizzativi, sostenendo che la controparte della procedura avrebbe dovuto sollevare contestazione impugnando il provvedimento autorizzativo con i rimedi endo-fallimentari, così implicitamente riconoscendogli la legittimazione al reclamo (cfr. A. Penta, Gli organi della procedura fallimentare, cit., 134).
Il decreto in commento, invece, sanziona l'iniziativa endo-fallimentare addirittura come temeraria nella sua palese inammissibilità; se ne dovrebbe desumere che avverso il decreto autorizzativo la controparte del fallimento non può mai sollevare contestazioni, salvo forse l'ipotesi in cui sia soggetto già ammesso al passivo per altro titolo, ma in tal caso sarebbe evidente che il reclamo sarebbe viziato da un interesse in conflitto più che da un difetto di interesse alla contestazione.
Sul punto, ci pare interessante una recente pronunzia di un giudice di merito, che - chiamato a sanzionare il fallimento per la temerarietà di un'iniziativa processuale - non a torto ha osservato che il fatto stesso che il Giudice delegato avesse autorizzato l'azione escludeva che la stessa potesse ritenersi temeraria (Trib. Lamezia Terme, 11 giugno 2012, in Cassazione.net): la pronunzia in commento sembra affrontare l'altra faccia della medaglia, sancendo che è temerario il reclamo della controparte che voglia contestare l'iniziativa della curatela formalmente autorizzata dal Giudice delegato, con un provvedimento che il soggetto evocato in giudizio dal fallimento non può sindacare; in sostanza, l'iniziativa di una curatela può anche essere infondata, ma risulta quasi intangibile sotto il profilo della sua ritualità a norma dell'art. 31 l. fall.

Conclusioni

In sostanza, il decreto del Tribunale capitolino sembra ispirarsi a principi risalenti a prima della riforma: viene, infatti, ribadita la soggezione del curatore alla supervisione del Giudice delegato, che preclude l'avvio di azioni giudiziarie che non siano espressamente autorizzate, ma si limita di contro la sindacabilità delle decisioni cui la procedura perviene all'esito di un iter formativo così complesso, tanto da fa ritenere temeraria la pretesa della controparte del fallimento di paralizzare l'azione andando a contestare il provvedimento autorizzativo rilasciato dal Giudice delegato. Coordinando, poi, tale statuizione con l'orientamento giurisprudenziale previgente, che respingeva ogni eccezione della controparte della procedura con riguardo alla regolarità del provvedimento autorizzativo se formulata nell'ambito del giudizio introdotto dal fallimento, si deve concludere che l'unica eccezione proponibile in relazione alla legittimazione della curatela sia quella della totale carenza dell'autorizzazione (peraltro sanabile ex post), cui forse si dovrebbe equiparare la palese nullità dell'autorizzazione, fattispecie che si verificherebbe ogni qual volta non sia consentita l'individuazione dell'azione autorizzata, ovvero del bene della vita la cui tutela è demandata all'iniziativa processuale intrapresa dal curatore.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Sulla prima questione trattata, tra le pronunzie anteriori alla riforma che negano la legittimazione processuale al curatore non autorizzato si vedano Comm. Trib. Centrale, 3 novembre 2006, n. 8644, in Fisco, 2007, 585; Cass. civ., Sez. III, 22 luglio 2005, n. 15392; Cass. civ., Sez. I, 14 aprile 2004, n. 7066; Cass. civ., 20 settembre 2002, n. 13764; Trib. Milano, 29 maggio 2007, in Fall., 2008, 469; sulla rilevabilità del vizio ex officio: Trib. Milano, 5 ottobre 2006, in Fall., 2007, 675.
Sulla minore ampiezza dei poteri del Giudice delegato di limitare le iniziative processuali del curatore a seguito della riforma, v. G. Minutoli, Nuovi rapporti tra gli organi fallimentari, legittimazione processuale del curatore e nomina dei legali del fallimento, in Fall., 2007, 677; peraltro, l'Autore scriveva prima del “correttivo” del 2007. A conferma della carenza di legittimazione del curatore non autorizzato ai sensi dell'art. 31 l. fall. si vedano invece E. Righetti, Gli organi della procedura, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di G. Schiano di Pepe, Padova, 2007, 102; F. Carbonara, Gestione della procedura, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, Bologna, 2007, 708; S. Recchioni, Poteri del Giudice delegato, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di C. Cavallini, Milano, 2010, 583 ss.; è opinione di D. Scano, Il curatore, in Trattato di diritto fallimentare, a cura di V. Buonocore - A. Bassi, Padova, 2011, 149 che la carenza di autorizzazione configuri piuttosto un caso di eccesso dai limiti della procura.
Merita di essere segnalato che, a seguito della riforma, si è ridotto l'ambito delle azioni per le quali l'autorizzazione è prevista, essendone esclusa la necessità per tutte le controversie di stato passivo, in ogni grado (v. per tutte: Cass. civ., Sez. I, 4 giugno 2012, n. 8929 e Cass. civ., Sez. I, 18 maggio 2012, n. 7918).
Quanto al contenuto del decreto autorizzativo, la tesi consolidatasi prima della riforma escludeva la necessità della specifica menzione delle pretese ed istanze strumentali al conseguimento del risultato ipotizzato: cfr. Cass. civ., Sez. I, 11 gennaio 2005, n. 351, cit.; Cass. civ., Sez. I, 2 marzo 2001, n. 3052; Cass. civ., Sez. I, 28 agosto 1995, n. 9035; in senso ancor più ampio si era in passato espressa Cass. civ., Sez. I, 28 maggio 1997, n. 4722, che aveva escluso che il decreto autorizzativo di una revocatoria dovesse individuare la natura dell'atto impugnato (per una sintesi, v. anche M. Cataldo, L'individuazione delle azioni oggetto dell'autorizzazione al giudizio, in Fall., 2011, 27); anche post riforma, D. Scano, Il curatore, cit., 144 ritiene necessaria l'individuazione sommaria del procedimento da promuovere, non anche delle iniziative specifiche pertinenti all'oggetto dell'autorizzazione; sulle problematiche in merito al contenuto dell'autorizzazione si veda L. Abete, Il curatore, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, Torino, 2012, 136 ss..
Sulla sanabilità del difetto di autorizzazione, sino a che non venga pronunziata l'inammissibilità ed anche in sede di gravame: Cass. civ., Sez. I, 11 settembre 2007, n. 19087; Cass. civ., Sez. I, 17 luglio 2007, n. 15939; Cass. civ., Sez. I, 21 marzo 2003, n. 4136; Cass. civ., Sez. I, 27 marzo 2003, n. 4555; Cass. civ., Sez. I, 6 febbraio 1999, n. 1031.
In particolare, la corrente - per certi versi in contrasto con la pronunzia in commento - secondo la quale i vizi del provvedimento autorizzativo possono essere dedotti solo con reclamo endo-fallimentare è affermata, per quel che riguarda l'autorizzazione alle azioni di responsabilità, da Trib. S.M. Capua Vetere, 17 settembre 1999, in Dir. Fall., 2000, II, 1302.
Per quel che concerne il principio generale in tema di sanzionabilità di azioni temerarie, il decreto in commento applica con severità il principio generale comunemente affermato, secondo il quale l'art. 96 c.p.c. può essere applicato per sanzionare azioni che risultino inammissibili se proposte per colpevole ignoranza dell'inammissibilità (arg. da Cass. civ., Sez. III, 14 ottobre 2005, n. 19976; Cass. civ., Sez. Un., 19 agosto 2002, n. 12248).

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