Concordato preventivo della fondazione esercente attività d’impresa e poteri del Tribunale nella disciplina della liquidazione

Francesco Macario
26 Giugno 2012

L'omologazione del concordato preventivo proposto da una fondazione esercente un'impresa commerciale (nella specie, Fondazione Centro San Raffaele Del Monte Tabor, con attività sanitaria, assistenziale e di ricerca scientifica) determina l'estinzione dell'ente, con la liquidazione dei beni e delle attività oggetto di cessione ai creditori soggetta alle norme della legge fallimentare.
Massima

L'omologazione del concordato preventivo proposto da una fondazione esercente un'impresa commerciale (nella specie, Fondazione Centro San Raffaele Del Monte Tabor, con attività sanitaria, assistenziale e di ricerca scientifica) determina l'estinzione dell'ente, con la liquidazione dei beni e delle attività oggetto di cessione ai creditori soggetta alle norme della legge fallimentare.

Nell'ipotesi di concordato preventivo con cessione dei beni che implichi un'attività liquidatoria, spetta sempre al tribunale il potere di provvedere alla nomina dei liquidatori e alla determinazione delle regole di svolgimento della stessa liquidazione, in conformità alle norme previste per la liquidazione fallimentare richiamate, in quanto compatibili, dall'art. 182 l. fall.

Il caso

Si tratta della vicenda, assai nota alle cronache della stampa quotidiana, dell'ospedale San Raffaele, propriamente la Fondazione Centro San Raffaele Del Monte Tabor, ente con dichiarata - dalla stessa proponente il concordato - e non contestabile attività economica e imprenditoriale (specificamente, in ambito di sanità, assistenza e ricerca). Il Tribunale ha affrontato, con ampia e convincente motivazione, il tema della liquidazione, attraverso la procedura concordataria, della fondazione e altre questioni concernenti l'attività liquidatoria in ambito di concordato. A fronte di una domanda di concordato nella quale la proponente aveva articolato una dettagliata organizzazione della liquidazione dei beni, provvedendo anche ad indicare i professionisti da nominare quali liquidatori, il Collegio milanese ha ritenuto che una simile facoltà non spettasse al debitore, in quanto prerogativa del tribunale. Conseguentemente, nel decreto di omologazione si è provveduto a nominare tre liquidatori giudiziali - ancorché accogliendo, circa i nominativi, le indicazioni del debitore - e a stabilire un'articolata disciplina della liquidazione in ordine alle modalità e ai tempi di esecuzione della liquidazione.

Le questioni giuridiche - A) estinzione della fondazione e liquidazione concordataria

La particolare caratterizzazione soggettiva della proponente il concordato, ente con la forma giuridica della fondazione di diritto privato, poneva al tribunale due nodi da sciogliere, in termini di questioni giuridiche strettamente connesse alla specifica dimensione fattuale della vicenda.
La prima, a ben vedere, si presenta non già come vera e propria quaestio iuris da risolvere in sede di giudizio di omologazione, in quanto la stessa proponente, nel presentare la domanda di concordato, aveva affermato l'esistenza dei presupposti per l'assoggettamento alla disciplina della legge fallimentare, ossia la sussistenza del requisito decisivo del carattere imprenditoriale commerciale (non piccolo) dell'attività svolta dalla stessa Fondazione. In tal modo, si superava la difficoltà dell'indagine sull'attività svolta (di fatto) dalla fondazione, ai fini della sua qualificazione come commerciale e imprenditoriale, nonostante la struttura soggettiva adottata - quella della fondazione - fosse in linea di principio antitetica rispetto a quella della società commerciale.
In passato, la giurisprudenza si era trovata più volte - soprattutto in sede di merito, stante la natura fattuale e concreta dell'accertamento richiesto - a dover decidere sul fallimento della fondazione, enunciando così i criteri (divenuti oramai ius receptum, dopo Cass. 9 novembre 1979, n. 5770, ma soprattutto dopo importanti contributi dottrinali, tra i quali vanno ricordati: COSTI, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 26 ss. e di P. RESCIGNO, Fondazione e impresa, in Riv. società, 1967, 812; nonché la voce Fondazione, in Enc. dir., Milano, 1968, XVII, 790, sicché anche il decreto in esame può farvi ricorso con estrema naturalezza) necessari per valutare l'assoggettamento dell'ente alla procedura concorsuale.
Oltre alla soggezione al fallimento, in considerazione del carattere commerciale dell'attività svolta, si era posto in passato (nella vicenda che ha condotto al fallimento, dichiarato dal Tribunale di Milano, dell'istituto sieroterapico milanese “Serafino Belfanti”) anche il problema del coinvolgimento nel fallimento dei soggetti agenti in nome e per conto della fondazione, al punto da ingenerare la sensazione che della personalità giuridica (e conseguente limitazione della responsabilità), riconosciuta all'ente per il perseguimento di un dato scopo, i soggetti interessati avessero abusato (per perseguire scopi diversi). In argomento, si ricorderà che è intervenuta, più di recente, anche la Suprema Corte (Cass. 16 marzo 2004, n. 5305, in Dir. fallim., 2005, II, 843, ove si riporta anche la decisione di secondo grado: App. Milano, 12 dicembre 2000; ma v. anche le decisioni di Trib. Milano, 17 giugno 1994, in Foro it., 1994, I, 3544, con nota di PONZANELLI, cui si rinvia per approfondimenti, nonché dello stesso Tribunale milanese 16 luglio 1998, in Fall., 1999, 445), fondazione riconosciuta che, eccedendo i limiti posti dallo statuto, aveva di fatto esercitato in via esclusiva o principale un'attività d'impresa commerciale, divenendo insolvente; la Corte ha ritenuto che non potesse disapplicarsi il provvedimento di riconoscimento (in quanto ciò sarebbe stato giustificabile solo in ipotesi di invalidità del medesimo, e non per la sopravvenuta mancanza dei suoi presupposti di fatto), ma nondimeno dovesse ritenersi che tale attività, essendo incompatibile con lo schema fondazionale, fosse imputabile all'associazione a latere fra i soggetti che, partecipando a vario titolo a detta attività, avevano in tal modo abusato del nome della fondazione, sì da doversi dichiarare il fallimento di tale associazione, da estendersi, in applicazione degli artt. 38 c.c. e 147 l. fall., a colui che aveva agito in nome e per conto apparentemente della fondazione, ma in realtà della sottostante associazione.
Il caso appena richiamato non è esattamente coincidente con quello del “San Raffaele”, ma la tematica dell'assoggettamento alle procedure concorsuali è il dato comune, dal momento che il presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento coincide con quello per l'accesso alla procedura di concordato preventivo. In giurisprudenza, si è posto il caso di una fondazione che esercitava in forma mediata un'attività tipicamente commerciale di prestazione di servizi verso corrispettivo ed il cui patrimonio, anziché essere destinato ad uno scopo, era gravato da un pesante indebitamento per creare una struttura finalizzata a procurare proventi da utilizzarsi per la ricostruzione del patrimonio dell'ente (Trib. Alba, 25 marzo 2009, cit. in bibliografia); così come quello dell'assoggettabilità a fallimento dell'ente morale che esercita professionalmente un'attività economica commerciale in modo indiretto, avvalendosi cioè fittiziamente di un soggetto giuridico distinto da essi cui l'impresa fa capo, e costituito in forma di società, della quale l'associazione o fondazione, o fiduciari di essa, ovvero membri dell'associazione sono soci (App. Palermo, 7 aprile 1989, cit. in bibliografia).

Osservazioni

Il principale motivo d'interesse della ricca motivazione del decreto va colto nel rapporto tra l'estinzione della fondazione - l'art. 27 c.c. la ricollega, oltre che alle cause previste nell'atto costitutivo e nello statuto, al raggiungimento dello scopo o all'impossibilità di tale risultato - e la liquidazione che, in deroga a quanto disposto dalla disciplina generale delle fondazioni (di cui agli artt. 30 c.c. e 11 ss. disp. att. c.c.), nel caso di specie non può che svolgersi secondo la normativa delle procedure concorsuali; una normativa che “si sovrappone necessariamente - nell'espressione testuale della motivazione - alla liquidazione privatistica del tutto elidendola ed assorbendola”. Ciò in funzione della prevalenza del carattere sostanziale e funzionale, per così dire, della fattispecie, ossia l'attività d'impresa esercitata dall'ente, rispetto al dato formale e strutturale (per rimanere alle contrapposizioni concettuali classiche del discorso giuridico civilistico), che vale a ricondurre il soggetto alla categoria delle fondazioni.

Appare del resto innegabile che la liquidazione disposta per le procedure concorsuali costituisca il modello di riferimento della liquidazione nel sistema del diritto privato, cui non possono non rifarsi anche le “modalità liquidative” di soggetti e relativi patrimoni di per se stessi non inclusi nella disciplina concorsuale, come appunto è il caso delle fondazioni (salvo il caso dell'ente al quale siano stati donati o lasciati beni con destinazione a scopo diverso da quello proprio dell'ente, ex art. 32 c.c., ove prevale la finalità destinatoria, che implicherebbe, secondo autorevole dottrina [GALGANO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Padova, 1990, 271], la creazione di una fondazione non riconosciuta).
Correttamente il Tribunale milanese “prende atto” dell'estinzione, riconducibile alla “delibera accertativa” degli organi competenti dell'ente in questione, che aveva altresì nominato i liquidatori, mentre il decreto di omologa in esame, per parte sua, costituisce in ogni caso uno degli eventi previsti dall'art. 6, D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361 (per la procedura di estinzione della persona giuridica). In tal senso, l'assorbimento della vicenda nella liquidazione concorsuale s'innesta sull'estinzione dell'ente, dando vita il Tribunale ad una sostanziale, nonché opportuna, ‘integrazione' dell'art. 30 c.c. - ove il rinvio, per la liquidazione della persona giuridica, è (soltanto) alle norme di attuazione del codice civile - nel senso che, ove l'attività commerciale sia a tal punto accentuata e caratterizzante dell'ente (pur sempre strutturalmente inquadrato, si ricorderà, tra gli enti morali, secondo la sua natura originaria), la disciplina della liquidazione dovrà essere quella concorsuale, nella duplice versione, fallimentare o concordataria, come nel caso in esame (avendo il debitore optato per l'accesso volontario alla procedura, nella forma meno traumatica, ossia mediante la domanda di ammissione al concordato preventivo).
Quasi superfluo aggiungere che, se da un lato, la decisione del tribunale conferma la preminenza e la versatilità della gestione negoziale della crisi d'impresa nello scenario normativo venutosi a creare dopo la riforma del diritto fallimentare (che, in tal modo, continua ad arricchirsi di interventi giurisprudenziali particolarmente significativi per la ricomposizione del sistema della responsabilità patrimoniale e delle procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza), dall'altro essa aggiunge un tassello importante all'espansione del modello concordatario, auspicata sin dall'inizio dal legislatore della riforma e ora testimoniata, in un certo senso, con la recentissima disciplina sul sovraindebitamento (specie una volta che sarà terminato l'iter per il completamento della normativa con le disposizioni specificamente dedicate al consumatore e con alcune modifiche, anche di carattere sostanziale, volte a ricondurre la procedura, nei suoi tratti generali, al detto modello concordatario).


B) la natura della liquidazione concordataria

Il provvedimento in commento offre l'occasione per riconsiderare, nella forme anche di un breve censimento dei primi anni di vigore della riforma, la delicata questione della liquidazione concordataria.
Al riguardo l'art. 182 l. fall., nel testo previgente la modifica attuata con il D.Lgs. n. 169 del 2007, si limitava a stabilire che “[s]e il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente, il tribunale nomina nel decreto di omologazione uno o più liquidatori ed un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità di liquidazione”. La norma è stata oggetto di intervento integrativo da parte del citato D.Lgs. n. 169 del 2007 il quale, pur lasciando immutato il primo (ed unico) comma dell'art. 182, ne ha aggiunto ulteriori quattro disciplinando, attraverso il criterio della compatibilità, la fase della liquidazione concordataria: sia estendendo al liquidatore (ed al comitato dei creditori) alcune norme dettate per l'analogo organo fallimentare; sia rinviando per l'attività liquidatoria alla disciplina della liquidazione fallimentare.
La questione giuridica che si pone rimane sostanzialmente quella già oggetto di discussione da parte della dottrina e della giurisprudenza antecedentemente alla modifica legislativa: quella dei limiti ai poteri del tribunale di determinare, in sede di omologazione, le modalità della liquidazione concordataria.
Sulla base di una interpretazione strettamente letterale della norma era prevalente l'opinione per cui le modalità di liquidazione concordataria rientrassero nella disponibilità del debitore, il quale avrebbe potuto determinare i soggetti e le concrete modalità di liquidazione; riconoscendo così al tribunale un potere residuale nella ipotesi di mancata previsione nella proposta concordataria delle modalità di liquidazione. Con la conseguenza che, nel caso in cui la proposta di concordato, approvata dai creditori ed omologata, avesse attribuito al liquidatore un ampio potere discrezionale nella individuazione delle modalità più idonee di liquidazione, era precluso al tribunale qualsiasi intervento integrativo (in questo senso, in relazione a fattispecie ante d.lgs. 169 del 2007: Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345; nello stesso senso Cass. 4 marzo 2011, n. 5993).
Il nuovo e articolato testo dell'art. 182 l. fall. con l'espresso rinvio alla disciplina della liquidazione fallimentare ha riacceso il dibattito in ordine alla natura della liquidazione concordataria, anche alla luce del carattere tipicamente negoziale che ha assunto il concordato dopo la riforma. Parte della dottrina ritiene che la riforma non abbia inciso sulla natura interamente derogabile dell'art. 182 l. fall. per cui le regole ivi richiamate sulla liquidazione, compresa quella sulla nomina del liquidatore, possono essere derogate nella loro interezza; applicandosi l'art. 182 solo in assenza di diversa disciplina organizzativa della liquidazione indicata nel piano. Secondo un diverso orientamento, l'art. 182 l. fall. ha natura di norma inderogabile, con la conseguenza che non solo il Tribunale non può essere espropriato del potere di nomina del liquidatore, ma che la liquidazione concordataria deve svolgersi nel rispetto delle regole della liquidazione fallimentare richiamate dall'art. 182.
A tale diverso, e preferibile, orientamento ha aderito il Tribunale di Milano nella decisione in commento, fissando con chiarezza il principio secondo cui, nei casi in cui la proposta concordataria per cessione dei beni implichi un'attività liquidatoria, spetta sempre al Tribunale, alla stregua del carattere imperativo delle prescrizioni contenute nell'art. 182 l. fall., il potere di stabilire le modalità della liquidazione (da porre in essere secondo criteri competitivi e preferenzialmente secondo i criteri e i moduli operativi previsti per il fallimento) e il potere di nominare uno o più liquidatori, senza che residuino spazi determinativi riservati alla autonomia privata.
A sostegno della decisione, il Tribunale svolge già nel decreto di ammissione alla procedura di concordato (Decr. Trib. Milano, 28 ottobre 2011- Pres. est. Lamanna) un'articolata motivazione, poi richiamata nel provvedimento in commento. Premessa del ragionamento è la natura imperativa inderogabile della previsioni contenute nell'art. 182 l. fall. che disegnano una complessiva disciplina della liquidazione concordataria di natura marcatamente giudiziale/pubblicistica. Il ragionamento si svolge poi sulla considerazione che la salvezza di una diversa soluzione che la proposta può prevedere è da ascrivere alle ipotesi in cui non si debba procedere ad una concreta liquidazione (quale sarebbe l'ipotesi di liquidazione dei beni effettuata per ragioni di urgenza prima della omologazione della proposta concordataria); preoccupandosi poi di chiarire che una diversa interpretazione, fondata sul dato letterale e su una pretesa “contrattualizzazione del concordato” sarebbe contraria ad una interpretazione sistematica della norma. Si conclude con il rilievo che il procedimento di liquidazione concordataria è affidato, in via esclusiva, all'organo giudiziario al quale spetta il potere di nominare i liquidatori e determinare le modalità di liquidazione, da porre in essere secondo i criteri previsti per la liquidazione fallimentare. Coerentemente con la natura giudiziale del procedimento liquidatorio, il decreto riconosce al Tribunale il potere, in sede di omologazione, di prescrivere ai liquidatori la pianificazione delle attività liquidatorie onde consentire agli organi della procedura (Commissario giudiziale, comitato dei creditori e giudice delegato), di verificare l'esattezza della esecuzione del concordato in relazione alle attività di natura liquidatoria successive al conferimento del ramo aziendale in una Newco e alla cessione delle relative partecipazioni.
Risalta in maniera evidente la linearità concettuale del provvedimento, che da un lato ritiene di riservare al giudice la nomina dell'organo della liquidazione e dall'altro ritiene applicabili al concordato le regole generali sulla liquidazione fallimentare - inclusa quella che prevede la pianificazione dell'attività liquidatoria - quale attività affidata all'organo della liquidazione giudiziale per eccellenza, ossia il curatore fallimentare.

Osservazioni

Da quanto esposto emerge che il dibattito sulla liquidazione concordataria si articola sull'alternativa tra una tesi che potremmo definire “privatistica” ed un'altra, che potremmo definire “pubblicistica”.
La prima tesi, secondo cui la fase di liquidazione è rimessa alla autonomia privata del debitore e alla condivisione della proposta da parte dei creditori può essere compresa secondo una modalità argomentativa di matrice contrattualistica. La proposta di concordato è concepita come un puro atto di autonomia privata, composto dal debitore e sottoposto alla approvazione dei creditori. Momento essenziale di tale atto è, oltre alla prestazione offerta, la modalità adempitiva. A tal riguardo, il debitore potrebbe determinare tale aspetto sia sotto il profilo soggettivo (nominando liquidatori di sua fiducia) che procedimentale (stabilendo le modalità di liquidazione). In alternativa potrebbe rimettersi per uno o per entrambi questi aspetti alla decisione del tribunale. In questa prospettiva, l'art. 182 l. fall. è letto come norma di diritto contrattuale di carattere dispositivo, con funzione integrativa e suppletiva. Alla clausola di salvezza (“Se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente”, interpretata quindi come se dicesse “salvo che la proposta non disponga diversamente”) segue una articolata disciplina della liquidazione concordataria suscettibile di deroga. Cosicché, nei limiti in cui la domanda non disponga diversamente, tale disciplina, integrativa del contenuto della domanda di concordato, varrà a colmare tutte le lacune.
L'opposta tesi si fonda sulla distinzione concettuale che si ritiene di tracciare tra proposta concordataria e procedimento di concordato. L'autonomia privata del debitore si realizza, in questa diversa visione, nei limiti della offerta ai creditori, che rimane liberamente determinabile fatto salvo il rispetto delle norme imperative (prima tra tutte la regola della par condicio creditorum). Invece, nessun potere determinativo è riconosciuto al debitore con riguardo alla disciplina del procedimento di concordato. Tale disciplina, infatti, in quanto di natura processuale e relativa ad una procedura concorsuale, non è ritenuta disponibile dai privati. Sicché, l'inciso con cui si apre l'articolo 182 l. fall. non è inteso come clausola di salvezza introduttiva di una disciplina dispositiva e quindi derogabile, bensì come clausola di esclusione relativa alle fattispecie liquidatorie che non contemplano una fase di liquidazione interna al concordato. Così è per tutti i casi in cui il patrimonio del debitore è ceduto in pagamento ai creditori senza trascorrere per una fase di conversione dello stesso in denaro (come accade nella cessione dei beni ai creditori con efficacia immediatamente traslativa); così è, inoltre, nel concordato con assunzione trasferendosi l'attivo patrimoniale direttamente all'assuntore, che resta obbligato nei confronti dei creditori concorsuali nei termini della proposta concordataria.
L'intera materia della liquidazione concordataria si presenta, con riguardo ai limiti determinativi della autonomia privata, questione complessivamente aperta anche in ragione del materiale scientifico e giurisprudenziale attualmente censibile come dedicato al problema.
Tuttavia, soprattutto nelle questioni che per un verso o per l'altro possono definirsi “nuove” (e come tali si conservano anche quesiti classici), la prima preoccupazione dovrebbe essere la corretta impostazione concettuale della riflessione. A tal riguardo, coloro che sostengono la tesi privatistica della liquidazione concordataria dovrebbero tenere in considerazione il fatto che la materia in cui dovrebbe esercitarsi l'autonomia privata non concerne l'oggetto della prestazione concordataria (indubbiamente rimessa alla libertà negoziale del debitore), ma una particolare modalità esecutiva della obbligazione: la modalità liquidatoria.
In tale specifico ambito, la riflessione deve ulteriormente discriminare le liquidazioni per cessione e attribuzione dei beni dalle liquidazioni per conversione degli assets in denaro.
Il nodo problematico della liquidazione concordataria si rileva solo a tal punto, presentandosi nella domanda se la procedura di conversione dell'attivo in denaro sia riservata alla decisione del debitore o costituisca invece modalità disciplinata dalla legge quale procedimento, e in particolare quale fase (appunto liquidatoria) del procedimento di concordato. Così posta, la questione si sottrae al facile ma ingannevole schematismo della scelta tra “pubblico” e “privato”, preservando l'argomentazione giuridica anche da inopportune contaminazioni ideologiche; come del resto ben evidenziato dal Tribunale di Milano nel provvedimento di apertura della procedura di concordato preventivo.

Conclusioni

In conclusione è opportuno rimuovere un equivoco che spesso attraversa e compromette il dibattito in corso. Non si tratta di optare tra le possibili soluzioni al problema dell'attribuzione del potere conformativo, se al debitore o al Tribunale, bensì di valutare i limiti in cui nella proposta concordataria il debitore può derogare alla disciplina legale della liquidazione, secondo quanto disposto dall'art. 182 l. fall. Dal canto suo, il Tribunale non stabilisce modalità di liquidazione diverse da quelle legali; piuttosto - ma a ben vedere non potrebbe essere altrimenti - si limita a disporne l'applicazione, ulteriormente determinandole con disposizioni di dettaglio rese necessarie ed opportune dalla peculiarità del caso concreto.

Riferimenti normativi, giurisprudenziali e dottrinali

Sul fallimento di un istituto di ricerca, cfr. Trib. Milano, 16 luglio 1998, in Fall., 1999, 445, Dir. fallim., 1999, II, 333, Giur. it., 1999, 1678, Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 235, nonché Trib. Milano, 17 giugno 1994, in Foro it., 1994, I, 3544 (originato dalla vicenda dell'istituto sieroterapico milanese “Serafino Belfanti”, nel quale l'attività di ricerca aveva di fatto perso il suo rilievo caratterizzante in favore dell'attività industriale e commerciale) anche il problema del coinvolgimento nel fallimento dei soggetti agenti in nome e per conto della fondazione, al punto da ingenerare la sensazione che della personalità giuridica (e conseguente limitazione della responsabilità), riconosciuta all'ente per il perseguimento di un dato scopo, i soggetti interessati avessero abusato (per perseguire scopi diversi). In argomento, si ricorderà che è intervenuta, più di recente, anche la Suprema Corte (Cass. 16 marzo 2004, n. 5305, in Dir. fallim., 2005, II, 843, ove si riporta anche la decisione di secondo grado: App. Milano, 12 dicembre 2000).
Si vedano poi Trib. Alba, 25 marzo 2009, in Nuova giur. civ. comm, 2009, I, 1099, e in Fall., 2009, 1427, per il caso di una fondazione che eserciti in forma mediata un'attività tipicamente commerciale di prestazione di servizi verso corrispettivo ed il cui patrimonio, anziché essere destinato ad uno scopo, venga gravato da un pesante indebitamento per creare una struttura finalizzata a procurare proventi da utilizzarsi per la ricostruzione del patrimonio dell'ente); App. Palermo, 7 aprile 1989, in Giur. comm., 1992, II, 61, secondo cui sono assoggettabili a fallimento gli enti morali che esercitano professionalmente un'attività economica commerciale in modo indiretto, avvalendosi cioè fittiziamente di un soggetto giuridico distinto da essi cui l'impresa fa capo, e costituito in forma di società, della quale l'associazione o fondazione, o fiduciari di essa, ovvero membri dell'associazione sono soci.
In dottrina, il tema è stato approfondito da: CETRA, Il fallimento della fondazione che esercita attività commerciale, in Fall., 2009, 1429; PIERRI, Indifferenza della natura dell'attività d'impresa esercitata dalla fondazione ai fini della sua assoggettabilità al fallimento (insieme alla precedente, in nota a Trib. Alba, 25 marzo 2009), in Nuova giur. civ. comm. 2009, I, 1102; RONDINONE, Il caso della fondazione «abusiva» d'impresa quale paradigma di applicazione della teoria dell'impresa agli enti del libro primo del codice civile, in Dir. Fallim., 2005, II, 843; INZITARI, Il fallimento della fondazione, in Imprenditori anomali e fallimento, a cura di Apice, Padova, 1997, 279; CAVALAGLIO, Il fallimento della fondazione titolare d'impresa: sottocapitalizzazione e abuso della persona giuridica, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 241; SCHIERA, Insolvenza della fondazione e abuso della personalità giuridica, in Dir. fallim., 1999, II, 333; RUSSO, Può fallire una fondazione (impresa)?, in Fall., 1999, 449; SANZO, Brevissime riflessioni sull'insolvenza della fondazione-impresa, ovvero della solitudine del giudice, in Giur. it., 1999, 1678, contributi resi a margine di Trib. Milano, 16 luglio 1998, nella menzionata vicenda dell'istituto sieroterapico milanese; muovendo dall'esame di questo caso, si veda altresì RIMINI, Il problema del fallimento della fondazione: la vicenda dell'istituto sieroterapico milanese, in Contratto e impr., 1995, 581; PONZANELLI, Fondazione d'impresa, fallimento e mondo non profit , in Foro it., 1994, I, 3544.
Per una certa affinità, sulla questione del fallimento dell'associazione non riconosciuta, cfr. Trib. Genova, 7 giugno 2001, in Dir. fallim., 2002, II, 180 e in Vita not., 2002, 683, ove si chiarisce anche che la dichiarazione di fallimento di un'associazione non riconosciuta non comporta il fallimento dei soggetti che hanno agito in nome e per conto di essa, sui quali grava una responsabilità personale e solidale, ma limitata alle obbligazioni che costituiscono il frutto della loro attività, al contrario di quanto richiesto dal principio della concorsualità del procedimento fallimentare.
B). Sulla seconda questione, per la tesi favorevole a riconoscere natura dispositiva e derogabile all'art. 182 l. fall. v. per la giurisprudenza di legittimità (pronunciatasi su fattispecie ante D.lgs 169/2007): Cass. 8 luglio 1985, n. 4086, in Dir. fallim., II, 321; Cass. 11 agosto 2000, n. 10693; Cass. 28 settembre 2005, n. 18945; Cass. 20 gennaio 2011 n. 1345 per la quale il Tribunale non può stabilire ulteriori modalità ad integrazione di quanto previsto dal debitore nella proposta concordataria dal debitore, e ciò anche nell'ipotesi in cui in detta proposta sia attribuito al liquidatore ampio potere discrezionale sulla liquidazione; v. anche Cass. 14 marzo 2011, n. 5993; per la giurisprudenza di merito, tra le tante, v. Trib. Milano 20 dicembre 2005, in Fall. 2006, 730.
Più recentemente, in relazione al nuovo art. 182 l. fall., cfr. Cass. 15 luglio 2011, in Giust. civ. Mass., 2011, 1078, la quale, in relazione al potere di nomina dei liquidatori, introduce la prevalenza della disciplina legale su quella contrattuale laddove afferma che tale potere del Tribunale sussiste anche nella ipotesi in cui il liquidatore sia stato nominato dal debitore in violazione dei requisiti di legge previsti dall'art. 28 l. fall. per il curatore e richiamati dall'art. 182, comma 2, l. fall.. Per la giurisprudenza di merito: Trib. Lodi, 1 marzo 2010, in Fall., 2010, 593; contra Trib. Roma 29 luglio 2010, in Fall., 2011, 255 che ha ritenuto inammissibile l'affidamento della liquidazione dei beni ceduti alla stessa società debitrice in quanto non conforme a legge anche alla luce del nuovo art. 182 l. fall..
Per il dibattito in dottrina, per la soluzione favorevole alla predeterminazione della liquidazione concordataria da parte del proponente, pur se differente dalle regole richiamate dalla legge v. M. FABIANI, Concordato preventivo per cessione dei beni e predeterminazione delle modalità di liquidazione, in Fall., 2010, 5, 593; G. LO CASCIO, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 809; M. FERRO, sub art. 182, in Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, in Commentario, a cura di A. Jorio- M. Fabiani, 2010, 1077; MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, 1031. Per una diversa interpretazione, v. B. CONCA, Il rapporto tra autonomia privata e controllo giudiziale nel concordato preventivo, in Ilfallimentarista.it; G. DI CECCO, Commento sub art. 182, in A. Nigro-M. Sandulli-M. Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, 2010, 2233-2245; G. LUCENTE, Stato dell'arte sulla nomina e sui poteri del liquidatore giudiziale e degli altri organi di direzione e controllo nel concordato con cessione dei beni, in Ilfallimentarista.it.
Infine, con riguardo al profilo dell'applicabilità in sede di omologazione di norme, non espressamente richiamate e segnatamente della norma che, nella liquidazione fallimentare, prescrive la pianificazione delle relative attività attraverso la predisposizione di un piano di liquidazione (art. 104-ter l. fall.) cfr. Trib. Milano, 24 giugno 2009, in Banca borsa e tit. cred., 2011, 309 con nota di S. ANEDDA, Sui poteri del Tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo e nomina dei liquidatori, 311.

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