Titolarità di un fondo comune di investimento immobiliare e sua (non) rivendicabilità

22 Giugno 2012

I partecipanti al fondo sono titolari, sostanzialmente, dei diritti sui beni conferiti nel fondo, la cui titolarità formale spetta tuttavia alla SGR che in quel momento gestisce il fondo, con la conseguenza che essi vantano unicamente un diritto di credito al valore residuo della quota, all'esito della liquidazione del fondo e del pagamento dei creditori.
Massima

I partecipanti al fondo sono titolari, sostanzialmente, dei diritti sui beni conferiti nel fondo, la cui titolarità formale spetta tuttavia alla SGR che in quel momento gestisce il fondo, con la conseguenza che essi vantano unicamente un diritto di credito al valore residuo della quota, all'esito della liquidazione del fondo e del pagamento dei creditori.

Il caso

Nel 2006 viene costituito per iniziativa dei partecipanti il Fondo Ermes Real Estate (il “Fondo ERE”) un fondo comune immobiliare di investimento chiuso la cui gestione viene affidata alla DARMA ASSET MANAGEMENT S.G.R. S.p.A. (“DAM”) cui nel tempo i partecipanti al Fondo ERE hanno imputato vari inadempimenti senza tuttavia provvedere mai a sostituirla con altra SGR.

DAM è stata successivamente sottoposta a liquidazione coatta amministrativa (procedura in cui, come ricorda il Tribunale, si applica l'art. 57 D.Lgs. 58/98 T.U.F., il cui comma 3 opera un rinvio a diverse disposizioni del T.U.B. “in quanto compatibili”, con la conseguenza che non possono applicarsi le norme che in ambito fallimentare disciplinano il giudizio di opposizione al passivo, per cui il giudizio di opposizione al passivo va in tal caso definito con sentenza a termini dell'art. 88, comma 1, T.U.B. e non con decreto ex art. 99, comma 11, l. fall.).
Nell'ambito di tale procedura, i partecipanti hanno provveduto ad insinuarsi al passivo in ragione degli inadempimenti da essi imputati a DAM e a chiedere l'accoglimento della domanda restitutoria (i.e. di rivendica) di beni e diritti conferiti nel Fondo ERE. Stante il mancato accoglimento delle suddette domande, è stata proposta l'opposizione allo stato passivo che è stata decisa con la sentenza oggetto del presente commento.
Il Tribunale rigetta in toto l'opposizione ritenendo:
a) quanto alle domande aventi ad oggetto le pretese risarcitorie nei confronti di DAM per l'asserita responsabilità precontrattuale e contrattuale della SGR, che tale responsabilità non sussista, posto che, secondo il Tribunale, le cause dei problemi in cui il Fondo ERE è incorso vanno principalmente individuate nel momento costitutivo del Fondo (con ciò confermando quanto osservato dalla Banca d'Italia in sede di ispezione);
b) quanto alla rivendica, che non ve ne siano gli estremi (in ragione delle osservazioni riportate nel paragrafo immediatamente seguente).

Le questioni giruidiche

Con riferimento alla domanda di rivendica, il Tribunale dichiara di condividere integralmente quanto sostenuto da Cass., Sez. I, 15 luglio 2010, n. 16605, secondo la quale i fondi comuni d'investimento sono privi di autonoma soggettività giuridica, ma costituiscono patrimoni separati della SGR, che ne assume la titolarità formale (ed è infatti legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia). A livello normativo, l'autonomia del patrimonio del fondo comune di investimento e la sua separazione dal patrimonio della SGR derivano dall'art. 1, comma 1, lett. j), e dall'art. 36, comma 6, T.U.F. (che parla di “patrimonio autonomo distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società”, sul quale “non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell'interesse della stessa” né, tanto meno, “quelle dei creditori del depositario o del sub depositario o nell'interesse degli stessi”).
Tale ricostruzione assimila il fondo comune di investimento alla proprietà fiduciaria e, più precisamente, a un trust (considerato dal Tribunale la “matrice culturale del fondo comune di investimento”) in cui i partecipanti al fondo sono sostanzialmente titolari dei diritti sui beni conferiti nel fondo la cui titolarità formale spetta tuttavia alla SGR che in quel momento gestisce il fondo (secondo il Tribunale l'assimilazione al trust appare ancora più marcata per i fondi comuni immobiliari disciplinati sotto il vigore del D.M. n. 197/2010, essendo precluso all'Assemblea di deliberare sulle scelte di investimento del fondo, lasciando così il gestore slegato dalle scelte dei partecipanti).
In ragione di ciò, il Tribunale ritiene che nel caso di specie debba applicarsi l'art. 155 l. fall. (per effetto del rinvio operato dall'art. 57, comma 3, T.U.F. all'art. 80, commi da 3 a 6, T.U.B., norma il cui comma 6 dispone che “per quanto non espressamente previsto si applicano, se compatibili, le disposizioni della legge fallimentare”). L'art. 155 l. fall., che, come noto, riguarda i patrimoni destinati di società dichiarate fallite, è ritenuta norma del tutto sovrapponibile a quella riguardante i fondi comuni di investimento (nella loro veste di patrimoni autonomi, insensibili all'aggressione dei creditori del gestore, privi di personalità giuridica e la cui titolarità formale dei diritti spetta al gestore SGR).

Osservazioni

Secondo il Tribunale, quindi, in caso di liquidazione coatta amministrativa di una SGR: i) “l'amministrazione del patrimonio destinato [i.e. del fondo comune] è attribuita al curatore [commissario liquidatore] che vi provvede con gestione separata”; ii) spetta dunque ai commissari liquidatori la gestione del fondo a termini dell'art. 155, comma 2, l. fall., proseguendo nel mandato gestorio con la SGR in l.c.a.; e iii) i partecipanti al fondo comune di investimento non possono affermarsi titolari di diritti di proprietà sui beni conferiti nel fondo, bensì titolari di un diritto di credito al valore residuo della quota, all'esito della liquidazione del fondo e del pagamento dei creditori.
Il richiamo operato dal Tribunale all'art. 155 l. fall. appare condivisibile, non risultando nel caso di specie possibile procedere con una domanda di rivendica.
Non che una tale domanda non sia ontologicamente esperibile nell'ambito di procedure concorsuali che investano (anche) patrimoni autonomi rispetto a quello del soggetto sottoposto a procedura. Nell'ambito delle SIM, ad esempio, la dottrina [Bianca, Destinazione di beni allo scopo, Strumenti attuali e tecniche innovative (atti della giornata di Studio organizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato, Roma 19 giugno 2003), AA.VV., Milano, 2003] e la giurisprudenza (cfr. Corte di Appello di Bologna del 14 gennaio 2002, in relazione alla quale si rimanda al commento di Cardinale, La restituzione degli strumenti finanziari e del danaro ai clienti in caso di liquidazione coatta amministrativa dell'impresa di investimento, in Giur. Comm., 2003, II, 519 ss.; quanto alla giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. 14 ottobre 1997, n. 10031, in Banca, borsa e tit. cred., 1999, II, 141 ss., con commento di Salamone, e in Giur. comm., 1998, II, 299 ss., con commento di Di Majo, che, cassando la sentenza del Tribunale di Torino del 10 gennaio 1991, ha stabilito per la prima volta come non vi siano ostacoli giuridici ad esercitare l'azione di rivendica ex art. 103 l. fall. con riguardo a beni fungibili non identificati) sono progressivamente giunte a ritenere che risulti possibile accogliere le domande effettuate dai clienti di una SIM a norma dell'art. 103 l. fall. a condizione i) che esse abbiano per oggetto beni determinati ed individuati, fermo tuttavia restando che ii) determinatezza ed individuazione debbono essere intesi nel senso di “determinabilità” ed “individuabilità”, con la conseguenza che i beni, comunque individuati, possono essere rivendicati ex art. 103 l. fall. (la natura fungibile degli strumenti finanziari e del denaro oggetto dei servizi di investimento non costituisce infatti limite all'azione di rivendicazione dei clienti della SIM insolvente, posto che non si pongono come ostacolo all'accertamento della titolarità in capo ai clienti rivendicanti né la mancata osservanza delle prescrizioni in ordine agli adempimenti contabili, né l'assenza di annotazioni specifiche dei titoli e delle banconote; cfr. Trib. Catania 7 marzo 2002, in relazione alla quale si rimanda al commento di Cossu, I “patrimoni di destinazione” nella liquidazione coatta amministrativa: la (parziale) svolta della giurisprudenza di merito, in Banca, borsa e tit. cred., 2003, II, 303 ss.).
La differenza tra la suddetta situazione e quella oggetto del presente giudizio risulta però evidente, laddove si consideri che, mentre l'art. 22 T.U.F. prevede che “le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi”, l'art. 36, comma 6, T.U.F. indica che “le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi” (e non, quindi, sul patrimonio oggetto del fondo, di cui neppure i partecipanti possono disporre e che non possono quindi rivendicare come - parzialmente - proprio).
In ragione di tale differenza, il Tribunale effettua quindi il richiamo all'art. 155 l. fall., a norma del quale:
(a) l'amministrazione del patrimonio destinato viene attribuita al commissario liquidatore (ciò che non comporta necessariamente che esso debba limitarsi ad un'amministrazione conservativa, ma gli consente di ricorrere anche ad attività di gestione provvisoria; Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori, Milano, Giuffré, 2008, 295), il quale vi provvede con gestione separata (artt. 155, comma 1, l. fall.; sul punto, la Relazione illustrativa del D.Lgs. n. 5/2006 chiarisce che l'obbligo della gestione separata è inizialmente previsto in capo al curatore a prescindere dall'effettiva capienza del patrimonio destinato, in quanto “ben difficilmente una distinzione ragionevole può essere formulata dal tribunale già in sede di dichiarazione di fallimento”; sulla problematica della mancanza di soggettività dei patrimoni destinati e delle sue conseguenze processuali anche in relazione ai poteri liquidativi del curatore cfr. da ultimo Lamanna, Crediti verso un Patrimonio Destinato e interruzione del processo per sopravvenuto fallimento della Società costituente, in questo portale, a commento di Trib. Torino, 6 aprile 2012);
(b) nell'eventualità in cui, come nel caso di specie, si rilevi che il patrimonio destinato è incapiente (l'uso del termine “incapiente” in luogo di “insolvente” è finalizzato a rimarcare che il patrimonio destinato non può essere dichiarato fallito; Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori, cit., 323), deve provvedere alla liquidazione del patrimonio (cfr. art. 156, comma 1, l .fall.); e
(c) in ogni caso, laddove risultino violate le regole di separatezza fra uno o più patrimoni destinati costituiti dalla società e il patrimonio della società medesima o, si ritiene, anche solo fra più patrimoni destinati tra loro, la procedura può agire “in responsabilità” contro gli amministratori ed i componenti degli organi di controllo della società a norma dell'art. 146 (cfr. art. 156, comma 3, l. fall.).
Come detto, il richiamo all'art. 155 l. fall. appare nel caso di specie corretto e condivisibile.
Occorre però ricordare quanto dallo stesso previsto anche nell'ipotesi in cui il patrimonio non sia incapiente e non occorra cioè procedere alla sua liquidazione; in un simile caso, infatti, l'art. 155 l. fall. prevede che, al fine di conservare la funzione produttiva del patrimonio destinato, si provveda alla cessione a terzi del patrimonio destinato a norma dell'art. 107 l. fall. (cfr. art. 155, comma 2, l. fall.) e, solo nell'ipotesi in cui tale cessione non sia possibile, si provveda alla liquidazione del patrimonio destinato secondo le regole della liquidazione della società, in quanto compatibili.
Stante l'incapienza del fondo comune di investimento nel caso di specie, il Tribunale non si spinge ad indicare se ritenga possibile la cessione del fondo in conformità a quanto previsto dall'art. 155 l. fall.. Al riguardo, in ogni caso, è recentemente intervenuta l'emanazione del D.Lgs. n. 47 del 16 aprile 2012, che ha integrato il T.U.F. per mezzo dell'introduzione del nuovo comma 3-bis dell'art. 57 T.U.F., a norma del quale “se è disposta la liquidazione coatta di una società di gestione del risparmio, i commissari liquidatori provvedono alla liquidazione o alla cessione dei fondi da questa gestiti e dei relativi comparti, esercitando a tali fini i poteri di amministrazione degli stessi. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 83, 86, ad eccezione dei commi 6 e 7, 87, commi 2, 3 e 4, 88, 89, 90, 91 ad eccezione dei commi 2 e 3, 92, 93 e 94 del T.U.B., nonché i commi 4 e 5 del presente articolo. I partecipanti ai fondi o ai comparti hanno diritto esclusivamente alla partizione del residuo netto di liquidazione in misura proporzionale alle rispettive quote di partecipazione; dalla data dell'emanazione del decreto di liquidazione coatta amministrativa cessano le funzioni degli organi del fondo”.
La nuova disciplina del T.U.F. rende quindi ulteriormente chiaro, al pari di quanto effettuato dalla sentenza in commento, che i partecipanti ai fondi gestiti da una SGR in liquidazione coatta amministrativa (i) non godono di un diritto di rivendica, ma esclusivamente di un diritto di credito sul residuo netto di liquidazione in misura proporzionale alle rispettive quote di partecipazione e (ii) non godono del diritto di affidare la gestione del fondo ad altra SGR, posto che dalla data dell'emanazione del decreto di liquidazione coatta amministrativa cessano le funzioni degli organi del fondo.
E' d'altra parte consentita la cessione dei fondi ad altro soggetto (il che, al pari di quanto può accadere nell'ambito dei patrimoni destinati, potrebbe anche avvenire su “indicazione ed interessamento” dei partecipanti ai fondi); si segnala poi che un ulteriore elemento di continuità tra la disciplina dei patrimoni destinati e quella dei fondi comuni di investimento è data dal nuovo comma 6-bis dell'art. 57 T.U.F. (“Qualora le attività del fondo o del comparto non consentano di soddisfare le obbligazioni dello stesso e non sussistano ragionevoli prospettive che tale situazione possa essere superata, uno o più creditori o la Sgr possono chiedere la liquidazione del fondo al tribunale del luogo in cui la Sgr ha la sede legale. Il tribunale, sentiti la Banca d'Italia e i rappresentanti legali della Sgr, quando ritenga fondato il pericolo di pregiudizio, dispone la liquidazione del fondo con sentenza deliberata in camera di consiglio. In tale ipotesi, la Banca d'Italia nomina uno o più liquidatori che provvedono secondo quanto disposto dal comma 3-bis; possono essere nominati liquidatori anche Sgr o enti. Il provvedimento della Banca d'Italia è pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Si applica ai liquidatori, in quanto compatibile, l'art. 84, ad eccezione dei commi 2 e 5, del T.U.B.. Se la SGR che gestisce il fondo è successivamente sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, i commissari liquidatori della Sgr assumono l'amministrazione del fondo sulla base di una situazione dei conti predisposta dai liquidatori del fondo stesso”), in cui, mutatis mutandis, si ravvisano echi della disciplina di cui all'art. 2447 nonies, comma 2, c.c..

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Si fa rinvio alle norme, nonché alla dottrina e alla giurisprudenza citati direttamente nel testo.

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