Critica alla legge fallimentare riformata: il regime di mercato nel concordato preventivo

11 Gennaio 2012

L'applicazione della riforma fallimentare nei sei anni che corrono dalla sua emanazione giustifica ormai una complessiva riflessione critica sui nuovi strumenti giuridici della gestione della crisi d'impresa: quale il concordato preventivo, l'accordo di ristrutturazione dei debiti e i piani di risanamento. La riforma attuata a partire dal D.L n. 35 del 14 marzo 2005, era da tempo reclamata, in quanto gli operatori economici lamentavano l'assenza di un istituto giuridico efficace che regolasse lo stato di crisi delle imprese, atteso che l'istituto dell'amministrazione controllata (poi abrogato) si rivelava inadeguato per i rigorosi vincoli legislativi e per un controllo giudiziario degli organi deputati poco inclini a seguire le complesse dinamiche della ristrutturazione dell'impresa, tanto da preferire il fallimento. L'assenza di regole adatte alla gestione della crisi ed il mancato successo delle esperienze tentate con soluzioni “stragiudiziali” frustravano le iniziative dei privati per trovare le soluzioni alternative più idonee rispetto al fallimento. In sostanza la legge fallimentareante riforma non riconosceva di fatto lo stato di crisi, trascorrendo direttamente dall'imprenditore in bonis all'imprenditore insolvente. Tale lacuna ha alimentato un articolato e pluridecennale dibattito per ricercare delle soluzioni giuridiche più consone alle esigenze degli operatori economici, che reclamavano regole adeguate per gestire la crisi nella legalità. In questo contesto, dopo vari tentativi di riforma, nel marzo del 2005 si modificò la legislazione concorsuale rimasta pressoché inalterata per oltre sessant'anni, con il citato decreto legge (“Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”). Già la stessa confermava che le attese il legislatore voleva “liberare” la gestione della crisi d'impresa per porla nelle mani degli operatori. Si tratta dunque, a distanza di sei anni dall'entrata in vigore della riforma, di fare un primo bilancio per comprendere fino a qual punto la riforma abbia portato a condizioni di mercato più efficienti, come era nelle attese degli operatori economici e del legislatore stesso.
Il regime di mercato della crisi d'impresa: il monopsonio.

I rapporti economici tra imprenditore in crisi e creditori sono evidentemente caratterizzati dalla difficoltà di adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, con la conseguente ricerca di soluzioni differenti dal puntuale e completo pagamento.

In condizioni di libero mercato tali soluzioni sono il frutto di una libera contrattazione (confronto tra domanda e offerta) che individua, in un punto di equilibrio (prezzo), la soluzione economica da dare alla difficoltà dell'adempimento. Quindi, in assenza di regole che condizionano gli operatori, il comportamento assunto dagli stessi porterebbe all'individuazione di un'accettabile soluzione alternativa rispetto al fallimento, non essendo possibile la piena soddisfazione delle ragioni dei creditori.

In sostanza gli operatori individuano un second best che, pur non essendo rispondente alle originarie pattuizioni, viene considerato comunque più accettabile del fallimento.

Il raggiungimento di tale situazione di equilibrio consente l'ottimale allocazione delle risorse, resa possibile dalle mutate condizioni economiche, in cui la soluzione può consistere nella disponibilità di parte o di tutte le utilità derivanti dal patrimonio del debitore e la rinuncia dei creditori a parte dei diritti o dei crediti pregressi.

Il punto di equilibrio porta quindi alla riduzione delle posizioni soggettive degli operatori, per effetto della perdita economica generata dalla crisi, che si ripartisce sull'imprenditore che riduce il proprio dominio sull'impresa e sui creditori che riducono le loro aspettative d'incasso integrale dei crediti.

Questo scenario, invero, risulta meramente teorico, in quanto il comportamento degli operatori non è mai del tutto libero, ma è mediato dalle norme che regolano le situazioni di crisi d'impresa.

Il sistema delle regole date dalla riforma, in particolare con il concordato preventivo, consentono all'imprenditore, e solo a esso, di formulare la proposta risolutiva della crisi, sulla quale i creditori possono solo esprimere un voto di adesione, ma non hanno possibilità di negoziare, atteso che il momento del voto si limita al momento dall'adunanza dei creditori e ai venti giorni successivi, in cui però non è più consentita la modifica del piano proposto ai creditori.

Com'è noto, la norma vigente, consentendo solo all'imprenditore la legittimazione soggettiva ad avanzare proposte di concordato preventivo ai creditori, di fatto priva questi ultimi della capacità di negoziare, frustrando in tal modo le potenzialità del mercato che consentirebbero l'individuazione di un punto di equilibrio intermedio tra la proposta del debitore e il fallimento.

In tale contesto, l'unica proposta formulata sarà quella dell'imprenditore/debitore, che si caratterizzerà per il tentativo di ribaltamento completo sui creditori delle perdite conseguite dall'impresa. L'imprenditore, quindi, quale unico attore sulla scena, cercherà di ottimizzare al meglio la propria posizione, individuando il punto d'intollerabilità oltre il quale i creditori potranno preferire il fallimento alla proposta concordataria.

Tale punto s'identifica, in estrema sintesi, con la percentuale di soddisfazione del credito proposta ai creditori. Tale percentuale, che evidentemente è stabilita dal debitore soprattutto nel suo interesse, si attesterà quasi sempre al di sotto di quella che verosimilmente potrebbe individuarsi in una libera contrattazione, laddove una pluralità di proponenti potrebbero fronteggiare una pluralità di creditori.

Per procedere oltre nell'analisi microeconomica occorre anche identificare il regime di mercato che si determina nelle condizioni propiziate dalle attuali regole sul concordato preventivo.

La prassi presenta assai frequentemente il seguente schema di piano concordatario:

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l'imprenditore in crisi affitta l'azienda generalmente a una newco, dietro la quale, nella maggior parte dei casi, si cela egli stesso;

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il contratto d'affitto contiene una clausola finale di cessione d'azienda a un prezzo corrispondente al fabbisogno occorrente per soddisfare parzialmente i creditori delle loro ragioni pregresse;

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la proposta ai creditori è formalizzata in una domanda di concordato preventivo che, riprendendo i contenuti del contratto d'affitto, individua nel realizzo della cessione dell'azienda il quantum necessario da offrire ai creditori.

In tale schema risulta quindi evidente che l'obiettivo, palese o celato, dell'imprenditore/debitore è quello di rimanere titolare di fatto di un'azienda, che ha solo apparentemente cambiato i propri connotati, ma che di fatto ha “ribaltato” la perdita della precedente gestione sui creditori.

È evidente che lo schema proposto e le condizioni normative, che non permettono ai creditori di prendere decisioni alternative, lasciano questi dinanzi al “prendere o lasciare”.

In che regime di mercato quindi si trovano realmente il debitore e i creditori? Il regime di mercato, generato da tali condizioni, ben lungi dall'essere quello meramente utopico della concorrenza perfetta non è né di oligopolio, né di duopolio né di monopolio. I regimi di mercato indicati prevedono tutti una pluralità di operatori che rappresentano la domanda e una variabilità nell'offerta, nel senso che i soggetti offerenti passano da una pluralità nel regime di concorrenza perfetta ad una progressiva riduzione, che porta il mercato fino al monopolio nel caso di unico offerente.

A ben riflettere, la situazione che si crea nello schema dei piani di concordato preventivo non si può ricondurre in alcuno dei regimi di mercato noti. Il debitore non rappresenta il lato dell'offerta, come apparentemente potrebbe sembrare, ma il lato della domanda. Sono invece i creditori a rappresentare l'offerta, in quanto “offrono” al ribasso i loro crediti al debitore, che è l'unico disposto ad acquistarli. Il prezzo sarà la percentuale che egli proporrà in cambio di quell'azienda che non è più sua (avendo perso il capitale) e che dovrebbe costituire il patrimonio su cui si dovrebbero soddisfare i creditori avrebbero il diritto di soddisfarsi.

Il modello economico che meglio descrive tali condizioni è quello del monopsonio, cioè un regime di “non mercato”, situazione speculare a quella del monopolista.

Nel monopsonio la domanda è rappresentata da un solo acquirente, che decide cosa e quanto comprare, fissando egli stesso il prezzo in modo da massimizzare la propria funzione di profitto.

L'applicazione di questo modello al caso di specie porta allo scambio dell'azienda, o di un ramo di essa, identificato a piacimento del cessionario dell'azienda, contro una percentuale dei crediti originari. La percentuale, come detto, è fissata dal debitore, che nella maggior parte dei casi s'identifica con il soggetto economico della newco che già conduce in affitto l'azienda. I creditori, che teoricamente dovrebbero rappresentare il soggetto offerente, di fatto possono solo accettare o rifiutare, non essendoci altri operatori che rappresentano la domanda come risulta in altri regimi di mercato.

Il debitore, quindi, nella sua duplice funzione di debitore e di unico affittuario e poi acquirente dell'azienda, concentra nella sua persona una posizione di vantaggio, che obbliga i creditori a dover necessariamente accogliere l'offerta, essendo il fallimento l'unica alternativa. Non si rendono in tal modo praticabili tentativi d'innalzamento del prezzo, non essendovi, di fatto, una pluralità di soggetti che rappresentino la domanda per l'acquisto dell'azienda.

I creditori hanno la potestà di accogliere o rifiutare la proposta in via meramente teorica, ma in realtà, razionalmente, non possono non accogliere la proposta loro formulata, avendo come sola alternativa il fallimento, che in generale riserva condizioni più svantaggiose di riparto per entità e tempi.

Questo regime di monopsonio non garantisce dunque un'allocazione ottimale delle risorse, non permettendo una competizione di più soggetti economici sul bene.

Una riflessione critica ed una proposta.

L'origine delle condizioni di monopsonio in cui opera il mercato della crisi d'azienda nel concordato preventivo va ricercata quindi nell'ordinamento giuridico, laddove questo attribuisce una singolarmente ipertrofica “capacità d'agire” a soggetti che non hanno più la “capacita economica”. Quando, infatti, il capitale è perduto, non esiste, almeno in termini economici, un legame tra il patrimonio aziendale e l'imprenditore, e pertanto le decisioni di questi dovrebbero considerarsi prive di legittimazione economica.

La disciplina normativa post novella, invece, con una mera finzione, ora fa persistere in posizione apicale il liquidatore della società, il cui capitale sia andato interamente perduto; ora individua nel rappresentante legale (espressione di un capitale sociale che non esiste) l'unico legittimato a proporre la soluzione per la crisi d'impresa. L'azienda, che è ormai il patrimonio su cui i creditori potranno soddisfarsi, è e resta estranea alle capacità decisionali degli stessi, che potranno solo aderire alle proposte di un imprenditore che economicamente non dovrebbe essere più legittimato a decidere.

Le storture di mercato provocate dalla normativa vigente creano dunque un impedimento alla mobilità delle aziende proprio nel momento in cui le stesse potrebbero essere allocate sul mercato a favore di soggetti economici capaci e più idonei a capitalizzarle. Di fatto, la disciplina normativa non solo non agevola tali possibilità virtuose del mercato, ma le impedisce e le mortifica, consentendo il “trasferimento” delle perdite dall'imprenditore originario ai suoi creditori.

La soluzione a tali storture non può che restare affidata ai giuristi, e a essi potrebbe forse servire da guida qualche ordinamento straniero.

Nell'ordinamento statunitense, ad esempio, esiste l'istituto dell'involuntary petition, attraverso il quale i creditori possono richiedere alla Bankruptcy Court l'avvio, nei confronti del proprio debitore, di una procedura concorsuale di Chapter 11 – Reorganization o di Chapter 7 – Liquidation (titolo 11 dello United States Code, c.d. Bankruptcy Code, 11 USCS § 303).

Questa possibilità consentirebbe, accertate oggettive condizioni di stato di crisi, che ogni interessato possa formulare ai creditori offerte sull'azienda del debitore, senza escludere che quest'ultimo possa a sua volta concorrere per poter rimanere titolare dell'impresa. Una sana competizione permetterebbe così un più giusto trattamento per i creditori, come effetto dell'individuazione di un prezzo dell'azienda espresso dal mercato.

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