Appunti sulle misure cautelari penali ordinarie e fallimento

22 Giugno 2012

L'entrata in vigore del D. Lgs. n. 159/2011 (Codice Antimafia) ha comportato una ridefinizione dei rapporti tra procedure concorsuali e misure di prevenzione. I profili oggettivo e soggettivo della novella normativa ne consentono, tuttavia, l'applicazione alle sole misure di prevenzione dei fenomeni di criminalità specifica e non anche a quelle adottate nell'ambito di procedimenti penali ordinari.Si esaminano i rapporti tra il fallimento e le misure cautelari c.d. ordinarie, quali il sequestro preventivo: c'è prevalenza, o coesistenza, tra misura cautelare e procedura concorsuale, oppure deve dichiararsi la recessività della prima rispetto alla seconda?L'Autore, inoltre, si sofferma sul ruolo dell'amministratore giudiziario di società sottoposta a sequestro preventivo e sugli effetti che i suoi atti producono nella dichiarazione di fallimento.
Aspetti generali

L'entrata in vigore del

D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159

(Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) ha offerto lo spunto per alcune riflessioni relative ad una fattispecie alla quale, sovente, è stato esteso, per via analogica (e peraltro senza che ne ricorressero i presupposti), il tessuto normativo delle misure di prevenzione patrimoniale

ex art. 2-

ter

e ss. L. n. 575/1965

, del quale il Codice costituisce, oggi, il definitivo complemento.

Mi riferisco alle misure cautelari c.d. ordinarie, ad esempio il sequestro preventivo

ex art. 321 c.p.p.

, il cui rapporto con il procedimento fallimentare offre l'occasione per alcune riflessioni proprio in considerazione del fatto che il Codice antimafia non può essere utilizzato nella soluzione dei rapporti, anche temporali, tra misure cautelari ordinarie e procedimento fallimentare: soluzione che dovrà, quindi, trovarsi in ambito diverso e cioè nella costruzione dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi nel tempo.

Infatti, se la novella del 2011 ha avuto il pregio, indiscusso, di disciplinare le relazioni ed «anche le interazioni» tra misura di prevenzione e procedimento fallimentare, completando sistematicamente la disciplina ormai risalente ed inadeguata; nel contempo è apparso piuttosto chiaro che l'ambito della stessa non possa esorbitare da quello fissato dalle norme di riferimento [sia per soggetti destinatari (descritti nell'art. 4 per rinvio dall'art. 16), sia per tipologie di misure (sequestro di prevenzione)], distinguendosi nettamente da altre misure a carattere egualmente preventivo adottate nel corso un procedimento penale, cioè le misure cautelari c.d. ordinarie. Tanto è vero che una norma della novella (art. 30) è dedicata all'eventuale sovrapposizione del sequestro di prevenzione a quello disposto in seno al procedimento penale.

Recessività: l'oggetto dell'impresa e l'esercizio provvisorio quali elementi valutativi decisivi

Ipotizziamo, quindi, caso sempre più frequente, che prima dell'apertura della procedura fallimentare un'azienda (ad esempio operante nell'ambito di appalto di servizio pubblico essenziale) sia stata sottoposta alla misura cautelare del sequestro preventivo

ex art. 321 c.p.p.

con la nomina di un amministratore giudiziario, la cui presenza, in concomitanza del fallimento, pone un primo problema, e cioè la recessività di tale procedura (e delle funzioni dei propri organi) rispetto alla misura cautelare. Infatti, la possibilità di piena espansione di tutti gli effetti che la legge connette alla dichiarazione del fallimento [anzitutto lo “spossessamento” e quindi l'“apprensione” dei beni alla esclusiva disponibilità materiale e giuridica degli organi fallimentari (effetti primari) in vista della loro amministrazione e liquidazione (effetti succedanei) ed infine il ristoro dei creditori concorsuali con il ricavato (effetti finali)] troverebbe nel caso di specie la presenza di un organo, l'amministratore giudiziario, espressione di un concorrente potere giudiziario, che è portatore di esigenze le quali, se non astrattamente distanti da quelle “latu sensu di pari natura pubblicistica” dell'organo fallimentare, certamente muovono su piani che non possono coesistere con queste.

I temi preliminari da affrontare, in estrema sintesi, consistono:

  1. nella scelta del regime (normativo o di formazione giurisprudenziale) in forza del quale valutare la prevalenza e/o la coesistenza della misura cautelare penale rispetto alla procedura concorsuale o, viceversa, la recessività della prima rispetto alla seconda;

  2. nel contempo, non potendo disgiungere il relativo tema da quello in precedenza citato, proprio in ragione dell'estrema particolarità dell'attività esercitata dalla fallita, dovranno essere indagati i margini di applicabilità dell'esercizio provvisorio in sede fallimentare quale possibile chiave di lettura delle ragioni di recessività della misura cautelare rispetto al fallimento.

  1. nella scelta del regime (normativo o di formazione giurisprudenziale) in forza del quale valutare la prevalenza e/o la coesistenza della misura cautelare penale rispetto alla procedura concorsuale o, viceversa, la recessività della prima rispetto alla seconda;

  2. nel contempo, non potendo disgiungere il relativo tema da quello in precedenza citato, proprio in ragione dell'estrema particolarità dell'attività esercitata dalla fallita, dovranno essere indagati i margini di applicabilità dell'esercizio provvisorio in sede fallimentare quale possibile chiave di lettura delle ragioni di recessività della misura cautelare rispetto al fallimento.

La scelta sulla coesistenza e/o prevalenza delle funzioni relative alle distinte procedure interessate alla fattispecie sarebbe agevole ove fosse possibile l'applicazione del

D.Lgs. n. 159/2011

il quale, in estrema sintesi, nell'ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento sia successiva all'adozione di una misura di “prevenzione”, impone l'immediata chiusura dello stesso (ove il fallito non abbia beni diversi da quelli sottoposti alla misura cautelare), con possibilità della sua riapertura nel caso di caducazione della misura cautelare penale.

In tal modo, quindi, il legislatore ha reso impossibile la sovrapposizione di funzioni (compreso l'accertamento delle passività del soggetto fallito), tutte essendo demandate all'amministratore giudiziario che, quindi, cumula in sé funzioni sostanzialmente assimilabili a quelle di curatore fallimentare.

Ma il

D.Lgs. n. 159/2011

, come già detto, presenta ambiti oggettivi e soggettivi che ne circoscrivono l'applicazione alle sole misure di prevenzione dei fenomeni di criminalità specifica, adottate nell'ambito del procedimento di prevenzione, diverso da quello ordinario penale.

La soluzione della complessa questione, in assenza di una normativa ad essa dedicata, va quindi ricercata sulla scorta della copiosa elaborazione giurisprudenziale che ancor oggi si può ancorare all'arresto delle

Sezioni Unite (

Cass., Sez.

un.,

24.5.2004, n. 29951

) secondo il quale andrebbe indagata la natura della misura cautelare penale in rapporto alle distinte finalità alla stessa riconosciute dalla normativa di riferimento e cioè, nel caso del primo comma dell'

art. 321 c.p.p

.

, le c.d. funzioni “impeditive” (prevenzione della reiterazione del reato o delle sue conseguenze) e nel caso del secondo comma, le finalità di confisca, obbligatoria o facoltativa, in rapporto all'

art. 240 c.p.

.

Il ragionamento delle Sezioni Unite, in estrema sintesi, è il seguente: poiché la dichiarazione di fallimento non priva il fallito della proprietà dei suoi beni, tale effetto essendo invero destinato a prodursi solo con la vendita coattiva, la prevalenza della misura cautelare penale sulla procedura fallimentare potrà aversi soltanto nel caso in cui vi sia (per effetto della confisca, obbligatoria o facoltativa) uno strumento giuridico idoneo al produrre lo stesso effetto e cioè la perdita della proprietà dei beni in capo al fallito.

Tra gli orientamenti che nel tempo si sono formati (prevalenza con motivazioni quasi “assiomatiche” del sequestro ovvero del fallimento; prevalenza o meno degli stessi sulla base del criterio temporale), ritengo infatti più coerente con i “sistemi” delle due procedure quello espresso dalle citate Sezioni Unite, le quali sostengono che, mentre nel caso di confisca obbligatoria (secondo la casistica generale dell'

art. 240, comma

2

, c.p.

) il sequestro deve ritenersi del tutto insensibile alla procedura fallimentare, atteso che il bene è considerato “pericoloso” in base ad una presunzione assoluta (ed il fallimento non sarebbe in grado, quindi, di assorbire la funzione assolta dal sequestro), nel caso di confisca facoltativa (previsto nel primo comma dell'

art. 240 c.p.

, secondo cui “il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose, che ne sono il prodotto o il profitto”), non può ipso facto escludersi che l'intervento della procedura fallimentare possa costituire un fatto sopravvenuto determinante il venir meno delle condizioni di applicabilità della misura (G. Minutoli, Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, in Fall., 2011, 1273)

. Con la conseguenza, in detta seconda evenienza, che “l'autorità giudiziaria dovrà accertare caso per caso le concrete conseguenze della eventuale restituzione, tenendo anche presenti le modalità di svolgimento della procedura concorsuale, le qualità dei creditori ammessi al passivo e l'ammontare di questo, al fine di considerare la possibilità che l'imputato, anche qualora abbia agito attraverso lo schermo societario, ritorni in possesso delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato” (Cass. Pen., SU, sopra citata).

E' fondamentale, quindi, indagare il tipo di reato e, soprattutto, la funzione del sequestro, solo nel caso di confisca obbligatoria, potendosi infatti escludere la recessività del sequestro rispetto alla procedura fallimentare.

Peraltro, a ben vedere, il problema, più che concentrarsi sulla sussistenza o meno della finalità ulteriore del sequestro (elemento troppo basato sulla discrezionalità delle scelte del G.I.P.), sta nel valutare se la procedura fallimentare sia in grado di assicurare la finalità minima che il sequestro possiede, ed in linea teorica lo è certamente, avendo tale procedura lo scopo della “cristallizzazione” della massa attiva attraverso l'apprensione della stessa sotto il diretto controllo degli organi concorsuali.

E tale valutazione non può essere disgiunta da uno dei primi problemi che si pone in un fallimento dichiarato con l'impresa ancora in operatività: l'esercizio provvisorio.

Infatti, nell'ipotesi in cui la procedura concorsuale prevalesse e potesse espandere tutte le sue funzioni, il primo problema da risolvere sarebbe la valutazione del possibile ricorso all'istituto dell'esercizio provvisorio, le cui caratteristiche (e nel contempo condizioni di ammissibilità) sono: i) la temporaneità; ii) la indispensabilità per evitare un “grave danno” (da intendersi, ovviamente, alla società, ciò desumendosi dall'ambito soggettivo del requisito successivo); e iii) l' assenza di pregiudizio nei confronti dei creditori concorsuali.

Riguardo alla prima condizione (la cui disamina finirà per comprendere anche le altre due), va osservato che la singolarità dell'impresa fallita (concentrata nell'erogazione di un servizio pubblico che per sua natura non tollera termini finali), potrebbe creare un ostacolo alla concreta praticabilità dell'esercizio di impresa da parte della curatela, esercizio che per disposizione di legge deve essere “provvisorio”, quindi limitato alle strette necessità di evitare che i “processi lavorativi in corso”, ove interrotti, possano determinare un danno all'impresa ed al ceto creditorio concorrente.

Tra l'altro, nel caso ipotizzato (fallimento di società che esercita un servizio pubblico essenziale attraverso un contratto con l'ente pubblico territorialmente competente) non si tratterebbe di completare processi lavorativi in corso, ma di erogare un servizio pubblico essenziale che non ammette interruzioni.

All'ostacolo creato dalla “provvisorietà” potrebbe, tuttavia, replicarsi che la curatela gestirebbe per un periodo limitato, dopo il quale, peraltro, dovrebbe abdicare al contratto, ma in tale evenienza vi sarebbero altri due ostacoli giuridici, uno risolvibile, l'altro no:

  1. il primo, dato dal fatto che il “subentro”

    ex art. 81 l.

    f

    all

    . del curatore nel contratto comporterebbe la qualificazione della curatela come parte, quindi tenuta alle clausole contrattuali, comprese quelle relative alla durata (a questo rilievo potrebbe tuttavia replicarsi con l'

    art. 104, u.c., l.

    f

    all

    . e cioè che al termine dell'esercizio provvisorio si applicherebbero le norme di cui al titolo II, capo III, sezione IV

    l.

    fall., e cioè gli artt. 72

    ss., quindi con la possibilità di scioglimento del contratto);

  2. il secondo, secondo il quale potrebbe in concreto derivare un pregiudizio al ceto creditorio. Infatti, nell'ipotesi in cui il contratto non fosse “remunerativo”, e cioè non assicurasse un equilibrio finanziario, il costo della “prededuzione” necessaria alla prosecuzione del rapporto non sarebbe, quanto meno, compensata dai ricavi scaturenti dallo stesso.

  1. il primo, dato dal fatto che il “subentro”

    ex art. 81 l.

    f

    all

    . del curatore nel contratto comporterebbe la qualificazione della curatela come parte, quindi tenuta alle clausole contrattuali, comprese quelle relative alla durata (a questo rilievo potrebbe tuttavia replicarsi con l'

    art. 104, u.c., l.

    f

    all

    . e cioè che al termine dell'esercizio provvisorio si applicherebbero le norme di cui al titolo II, capo III, sezione IV

    l.

    fall., e cioè gli artt. 72

    ss., quindi con la possibilità di scioglimento del contratto);

  2. il secondo, secondo il quale potrebbe in concreto derivare un pregiudizio al ceto creditorio. Infatti, nell'ipotesi in cui il contratto non fosse “remunerativo”, e cioè non assicurasse un equilibrio finanziario, il costo della “prededuzione” necessaria alla prosecuzione del rapporto non sarebbe, quanto meno, compensata dai ricavi scaturenti dallo stesso.

Ecco, quindi, che la decisione (negativa) sull'opportunità di procedere all'esercizio provvisorio diviene circostanza fondamentale per stabilire le ragioni della recessività della misura cautelare rispetto al fallimento, chiaro essendo che solo con l'apprensione dei beni da parte del curatore e quindi con la piena espansione delle funzioni e/o facoltà concesse dalla

legge fallimentare

sarebbe possibile al curatore (ed al comitato dei creditori, se costituito, o in sua vece al G.D.

ex art. 41, comma

4

, l.

f

all

.) sciogliersi dal contratto di servizio in quanto troppo oneroso per la massa.

Paradossalmente, quindi, proprio dalle considerazioni che portano ad escludere la praticabilità dell'esercizio provvisorio scaturisce l'effettiva ragione della necessità di ricondurre l'azienda nella disponibilità materiale e giuridica del fallimento.

Infatti, se l'azienda fosse in perdita alla data del fallimento, l'opportunità di provocare la revoca della misura cautelare diverrebbe un obbligo del curatore, ovviamente finalizzato all'immediato scioglimento del contratto, e solo così sarebbero prevenuti il grave danno dell'impresa e il pregiudizio ai creditori.

Il ricorso alla richiesta di revoca, allorché il G.I.P. non ritenesse recessiva la misura cautelare, sarebbe ovviamente un atto dovuto da parte del curatore, ottenuta la quale, e quindi riacquisita l'azienda al controllo del fallimento, uno dei primi ambiti di investigazione sarebbe relativo all'operato dell'amministratore giudiziario, procedendosi alla valutazione dei suoi poteri, quindi al regime autorizzatorio cui i suoi atti sono sottoposti ed infine alla compatibilità degli stessi in rapporto alle norme, inderogabili, sugli effetti del fallimento nei confronti degli atti di gestione.

Amministratore giudiziario

Preliminare interesse, quindi, va ricercato nella posizione dell'amministratore giudiziario, figura oscillante, in rapporto alle funzioni che gli siano demandate dal provvedimento di sequestro, tra il custode ed un vero e proprio gestore che, nell'ipotesi di sequestro di società, può confluire in una figura finitima a quella dell'amministratore. Con la sentenza

n. 7147/2000, la Cassazione

aveva evidenziato che le norme penalistiche in tema di sequestro preventivo penale

(artt. 316

e

317 c.p.p.

) richiamano espressamente le disposizioni del codice di procedura civile in tema di esecuzione del sequestro conservativo sui beni mobili ed immobili, da ciò facendone discendere che “il custode - tenuto conto della concezione unitaria della sua figura - ha una funzione limitata alla conservazione ed amministrazione dei beni”, posto che la norma, indicando tali due funzioni, “non formula due ipotesi nettamente distinte, ma considera la seconda strumentale alla prima”. In tal modo i giudici di legittimità hanno aderito ad una nozione restrittiva dell'area di operatività del custode.

Peraltro, già si argomentava dall'

art. 259 c.p.p.

, applicabile anche al sequestro preventivo (

Cass., sez. II, 6 maggio 2009 - 5 giugno 2009, n. 23572

), che rientrano nella competenza del g.i.p., in quanto "autorità giudiziaria" che ha disposto il sequestro, la nomina del custode per l'amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo e la determinazione delle modalità di esecuzione del medesimo.

La questione è parzialmente mutata, stabilizzandosi, a seguito dell'entrata in vigore dell'

art. 104-

bis

disp. att. c.p.p.

, inserito dall'

art. 2, comma

9

, lett. b), L. 15 luglio 2009, n. 94

, in forza del quale “nel caso in cui il sequestro preventivo abbia per oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l'amministrazione… l'autorità giudiziaria nomina un amministratore giudiziario…”. Pertanto, se di norma i poteri che competono al custode hanno una finalità meramente conservativa delle cose in sequestro, la cui disponibilità è opportuno che sia sottratta alla persona sottoposta alle indagini, nulla vieta che nella sfera dei poteri del custode rientri anche l'amministrazione dei beni in sequestro, con esercizio di poteri di vera e propria gestione: ne consegue che dopo l'introduzione dell'art. 104-bis cit. deve ritenersi certamente consentito al g.i.p. nel decreto di sequestro preventivo tenere conto anche di altre esigenze, come quelle produttive ed occupazionali, nell'esercizio di una sua scelta discrezionale, e di procedere alla nomina di un amministratore del compendio aziendale sequestrato.

Ecco, quindi, che l'amministratore giudiziario si trova su un piano che, se non coincidente, spesso è intersecante con quello di un amministratore ordinario (

Cass. n. 22800/2011

), e così come quest'ultimo trae ampiezza (e limiti) dallo statuto sociale e dal provvedimento di nomina, altrettanto dovrebbe valere per quello giudiziario.

Pertanto, se gli atti di ordinaria amministrazione (tra i quali escluderei i pagamenti) potrebbero essere compiuti senza particolari autorizzazioni, qualunque altro atto dovrebbe essere preceduto (o seguito con effetti di ratifica) dall'autorizzazione del G.I.P., avente natura giuridica di condizione legale (seguendo la giurisprudenza formatasi, ad esempio, sull'

art. 167 l.

f

all

.).

Con il limite, peraltro, della non esorbitanza dalla funzione conservativa che la legge correla alle funzioni di questo ausiliario di giustizia.

Effetti dei suoi atti nella dichiarazione di fallimento

Con la dichiarazione di fallimento, tuttavia, il problema degli atti dell'amministratore giudiziario si sposta di prospettiva, non essendo limitato alla sola valutazione della loro eventuale esorbitanza rispetto all'ordinaria amministrazione (o comunque del loro compimento sulla base di autorizzazioni), bensì al regime, inderogabile, posto dall'

art. 64 ss. l.

fall

., quindi alla efficacia di tali atti. In questo caso, ricorrendo le condizioni previste dal sistema “revocatorio”, ogni atto dell'amministratore giudiziario sarebbe suscettibile di sanzione, non dovendosi neppure valutare se lo stesso abbia comportato o meno un danno, atteso il noto principio che esclude dalle condizioni per la esperibilità dell'azione revocatoria la valutazione della dannosità dell'atto, questa considerandosi in re ipsa.

E ritengo che non potrebbe neppure utilizzarsi, quale possibile scriminante, l'esistenza di autorizzazioni del G.I.P., considerato che il regime revocatorio, informato alla teoria c.d. “redistributiva” (o antindennitaria), mira alla ricomposizione dell'attivo attraverso la distribuzione del relativo peso su tutti i creditori, senza eccezioni (oltre a quelle codificate ad esempio dall'

art. 67, comma

3

, l.

f

all

.), che abbiano come riferimento la liceità dell'atto ovvero la regolarità dello stesso in rapporto all'esercizio dei poteri di cui l'atto stesso sia espressione.

Del resto, la presenza di autorizzazioni da parte di un ufficio giudiziario titolare del controllo sull'attività dell'amministratore giudiziario, non può, di per sé, quindi anche nel caso di perfetta regolarità delle stesse, escludere che l'atto abbia arrecato un danno, noto essendo il principio della sussistenza di responsabilità anche per i c.d. atti legittimi, cioè derivante da una attività che non sia contra jus.

Corollario della prevalenza del sistema revocatorio sul regime delle autorizzazioni del G.I.P. (o della doverosità dell'atto da parte dell'amministratore giudiziario) è l'assoggettabilità di quest'ultimo alle azioni di responsabilità

ex art. 146 l.

f

all

., sia in rapporto al pregiudizio sofferto dalla società fallita, sia a quello arrecato ai creditori per la perdita di patrimonio.

Uno degli effetti della “prassi” invalsa tra gli amministratori giudiziari nominati nell'ambito delle misure cautelari c.d. ordinarie (cioè agire alla stregua di amministratori nominati nell'ambito del procedimento di prevenzione), è la costituzione, sin dal loro insediamento, di uno iato tra i creditori concorsuali anteriori alla loro nomina e quelli successivi, questi ultimi spesso considerati come unici interlocutori anche agli effetti della soddisfazione delle relativa pretese creditorie; altresì, il considerare la propria gestione come assolutamente separata dalla precedente, quasi che l'impresa potesse operare in discontinuità con il passato.

In effetti, l'unico vero iato che un amministratore giudiziario deve frapporre è la discontinuità rispetto all'operato di quelli che lo hanno preceduto (ad esempio poiché indagati degli illeciti che la misura cautelare mira a prevenire) (

Cass. pen. n. 35801/2010

).

Ma per quanto riguarda i creditori sociali non possono essere consentite distinzioni (a meno che si tratti di creditori possibili correi degli amministratori cessati al momento della misura cautelare), essendo teoricamente punibile la discriminazione, quindi la preferenzialità, tra i creditori in relazione alla soddisfazione dei rispettivi crediti.

Come pure, l'amministratore giudiziario dovrà valutare i risultati economico-finanziari dei precedenti esercizi e, se non in linea con le prescrizioni inderogabili, ad esempio sulla stabilità del capitale sociale, provocare, previa autorizzazione, quelle soluzioni che evitino all'azienda un aggravamento del dissesto, rispondendo, in caso negativo, come altro amministratore.

In extrema ratio, quindi, l'amministratore giudiziario dovrebbe provocare anche la dichiarazione di fallimento nell' ipotesi in cui ne rinvenisse i presupposti, ovvero favorirne la dichiarazione nel caso vi fossero impulsi (fondati) da parte di creditori, senza ostinarsi in difese ingiustificate del suo ruolo.

Mutuando argomenti a favore di tale conclusione dal recente Codice Antimafia, si ha che art. 63 codice antimafia (rubricato ‘‘dichiarazione di fallimento successiva al sequestro'') attribuisce al pubblico ministero, anche su segnalazione dell'amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, il potere di chiedere al tribunale competente il fallimento dell'imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro. Il che comporta che l'amministratore giudiziario (quale che sia l'ambito del sequestro) è legittimato a stimolare il pubblico ministero all'azione, prospettandogli elementi significativi dello stato di insolvenza dell'impresa i cui beni o le cui quote siano, in tutto o in parte, sequestrati. E tale previsione normativa integra significativamente l'

art. 7 l.

fall

., potendosi forse considerare quale conferma di quell'opzione interpretativa che esclude un generale potere di azione del pubblico ministero, sicché l'iniziativa di questi sarebbe sganciata dalle ipotesi ivi (tassativamente) indicate, essendo stata introdotta proprio la segnalazione dell'amministratore giudiziario quale atto di impulso per l'organo della pubblica accusa.

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