Abrogazione della dichiarazione d'ufficio di fallimento: sollevata la questione di legittimità costituzionale

Danilo Galletti
18 Giugno 2012

E' rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all'art. 77 della Costituzione e al tenore letterale logico della legge delega (art. 1, commi 5 e 6, l. n. 80/2005), la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 D. Lgs. n. 5/2006, nella parte in cui tale norma ha cancellato dal primo comma dell'art. 6 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 l'inciso “oppure d'ufficio”.
Massima

E' rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all'art. 77 della Costituzione e al tenore letterale logico della legge delega (art. 1, commi 5 e 6, l. n. 80/2005), la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 D. Lgs. n. 5/2006, nella parte in cui tale norma ha cancellato dal primo comma dell'art. 6 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 l'inciso “oppure d'ufficio”.

Il caso

Il collegio sindacale di una S.p.A. chiede che il Tribunale dichiari il fallimento della società sottoposta al suo controllo, allegando e dimostrandone positivamente lo stato di insolvenza, nonché l'inerzia dell'organo amministrativo, incapace di pervenire ad una soluzione alternativa al fallimento

Il Giudice Relatore, qualificata l'istanza come ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio, ma ravvisata la carenza di legittimazione dell'organo sindacale, non prevista da nessuna norma, riferisce subito in camera di consiglio, prescindendo dalla convocazione del debitore.
Il Tribunale ravvisa l'inammissibilità dell'istanza, proposta da organo non legittimato, ma anche la possibile illegittimità costituzionale dell'art. 4 D. Lgs. n. 5/2006, là dove esso ha abrogato il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento ex officio, per carenza di copertura nella delega legislativa.

Le questioni giuridiche

Il Tribunale ritiene che l'abrogazione del potere officioso di dichiarare il fallimento non trovi alcuna copertura nella legge delega (l. n. 80/2005), che aveva soltanto sanzionato la volontà di allargare l'ambito dei soggetti esenti da fallimento, senza facoltizzare alcun intervento sull'ambito della legittimazione ad instare per l'apertura del concorso.
La facoltà non sembrerebbe derivare neanche dall'esigenza di coordinare il sistema concorsuale modificato nel 2005 con le altre disposizioni vigenti.
D'altro canto alcun ostacolo parrebbe poter pervenire dal nuovo testo dell'art. 111 Cost. e dal novellato principio costituzionale del “giusto processo”, posto che il potere officioso era già stato “sdoganato” dal Giudice delle Leggi (Corte Cost., 15 luglio 2003, n. 240).
Permangono del resto nel sistema oasi disciplinari in cui il suddetto potere officioso resiste ed è vigente.
Osserva infine il Collegio che gli evidenti problemi operativi che tale assetto legislativo ha creato (si pensi allo stallo in tutti i casi in cui l'insolvenza emerga per tabulas, eppure il creditore desista oppure sia carente di legittimazione, e non sia pendente alcun procedimento penale) non potrebbero essere risolti neppure attraverso la legittimazione del PM a richiedere il fallimento, posto che secondo un noto orientamento (Cass., 28 febbraio 2009, n. 4632) il Tribunale fallimentare non sarebbe legittimato a segnalare alla Procura l'insolvenza del debitore ai sensi dell'art. 7 l. fall.; con evidenti ricadute sistematiche e di rilievo costituzionale.

Osservazioni

L'ordinanza di rimessione appare pienamente condivisibile là dove non rinviene nella struttura della legge-delega alcuna copertura che consentisse al Governo di abrogare il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento ex officio.
La vessata “bandiera ideologica” della contrazione del ruolo giurisdizionale nel nuovo ordinamento concorsuale (al pari di quella della “privatizzazione” della nuova S.r.l., da assimilarsi ad una “società di persone a responsabilità limitata”) costituisce uno slogan, non un precetto, e non può orientare l'interpretazione di qualsiasi norma, o addirittura fornire copertura a scelte legislative eccedenti dai confini della delega.
L'assetto normativo così definito dal D. Lgs. n. 5/2006 crea inoltre evidenti impacci operativi, portando a volte alla dispersione di ricchezza, là dove il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento su impulso di parte sia carente ab origine oppure sia arrestato.
Lo stallo che ne deriva è poi enfatizzato dal perdurare di orientamenti giurisprudenziali, avallati anche dalla S.C. (Cass., n. 4632/2009; App. Milano, 29 settembre 2011, in ilcaso.it; App. Bologna, 4 marzo 2010, in giuremilia.it), per cui il Collegio dell'istruttoria prefallimentare non potrebbe segnalare l'insolvenza del fallendo al Pubblico Ministero.
Ancor più preclusivi di una sistemazione ragionevole ed efficiente della materia sono quegli orientamenti interpretativi per cui il PM difetterebbe di un potere “generale” di chiedere il fallimento, e potrebbe instare soltanto nei casi tassativamente previsti appunto nell'art. 7 l. fall..
La somma di tali indicazioni esegetiche conduce infatti all'impossibilità di dichiarare il fallimento di imprenditori insolventi la cui enfatizzazione giudiziaria è ormai conclamata, ove lo Stato deve assistere impotente al deterioramento del patrimonio a garanzia dei creditori. La sola inerzia di questi ultimi nell'instare per il fallimento non può costituire una ragione sufficiente per esimersi dal ricercare soluzioni ordinamentali più coerenti.
E' auspicabile che la Corte Costituzionale sanzioni la norma abrogatrice, senza ricorrere ad espedienti ermeneutici quali la teoria del “riempimento” della norma delegante, che nei casi in cui difetti qualsiasi indicazione precettiva, come nel nostro caso, si risolvono in una delega in bianco del potere legislativo all'Esecutivo, del tutto libera anche nei fini, stravolgendo anche l'equilibrio costituzionale.
Di certo comunque non appaiono condivisibili neppure gli orientamenti restrittivi in ordine alla legittimazione del Pubblico Ministero ex att. 6 - 7 l. fall.
Secondo una tesi abbastanza ricevuta, infatti, non esisterebbe un generale potere del P.M. di instare per la declaratoria di fallimento, al di fuori dei casi tassativamente previsti dall'art. 7 l. fall., in forza della eccezionalità del potere di agire del P.M. in sede civile (artt. 2907 c.c. - 69 c.p.c.)
Tali argomentazioni sono tuttavia radicalmente infondate.
Come è fatto palese dal senso letterale delle parole, il P.M. può chiedere il fallimento ai sensi dell'art. 6, e tale norma non precisa affatto, come pure avrebbe potuto, che ciò può avvenire solo nei casi previsti dall'art. 7.
Al contrario, ai sensi dell'art. 7, il P.M. presenta “la richiesta di cui al primo comma dell'articolo 6”, non già solo nei casi successivi, ma invece e piuttosto obbligatoriamente quando tali casi sono integrati, ossia quando l'insolvenza risulta: da un procedimento penale, “ovvero” dalla fuga e/o latitanza etc. dell'imprenditore, oppure dalla segnalazione del Giudice civile (oggi diretta infatti alla Procura, e non più direttamente al Tribunale, come avveniva prima della Riforma con l'abrogato art. 8).
Dunque, il P.M. ha un potere generale di assumere l'iniziativa fallimentare ai sensi dell'art. 6 l. fall., potere che può esercitare discrezionalmente, come qualsiasi parte del processo; potere che tuttavia diviene vincolato nei casi previsti dall'art. 7, quando cioè l'elemento oggettivo dell'insolvenza venga rilevato da un Giudice, e non possa dunque essere ignorata, siccome già delibata incidentalmente da un organo giudicante, oppure emerge nell'ambito di un procedimento penale, cioè nel quadro di un'attività giurisdizionale connotata dall'esercizio obbligatorio dell'azione penale.
Tale era infatti la ricostruzione cui perveniva la S.C. prima della Riforma (Cass., 5 dicembre 2001, n. 15407; Id., 19 settembre 1995, n. 9884; Trib. Napoli, 6 novembre 2002, in Fall., 2003, 1102), e non sapremmo vedere quale elemento di diritto positivo debba oggi far mutare tale conclusione.
Non certo la tassatività dei casi di esercizio dell'azione civile da parte del P.M. (artt. 2907 c.c. - 69 c.p.c.), che non è qui messa in discussione, e che sussiste soltanto per il fatto che la Legge (art. 6 l. fall.) attribuisce al rappresentante della Procura il potere di agire al fine di ottenere la dichiarazione di fallimento.
La tassatività, infatti, attiene all'individuazione dell'azione (fattispecie astratta), e non già dei singoli casi specifici (fattispecie concreta) che possono fondare in pratica il diritto di azione.
Allo stesso modo, il P.M. può agire per ottenere la nomina del curatore dello scomparso (art. 48 c.c.), la declaratoria di morte presunta (art. 50), oppure la revoca del liquidatore (art. 2487, comma 4, c.c.), e l'elenco potrebbe continuare, senza che la conoscenza dei fatti rilevanti provenga da fonti processuali qualificate, e senza che sia in alcun modo vulnerato il principio di tassatività dei casi di azione.
Semplicemente, questo è il modello tipico legislativo che abilita la Procura ad assumere attivamente la qualità di parte nel giudizio civile.
L'opposta conclusione, allora, muove da una ricostruzione ingiustificatamente dimidiata del ruolo del P.M., e si alimenta dal preconcetto per cui la Riforma avrebbe dovuto espungere ogni iniziativa pubblicistica nel procedimento fallimentare, valutazione assiologia, questa, in contrasto con la struttura dell'assetto normativo riformato, che ha soppresso sì il potere di iniziativa officioso del Tribunale, ma non quello del P.M.
Al contrario, l'esigenza che l'insolvenza emerga attraverso fonti esterne “qualificate” si poneva semmai per lo stesso Tribunale fallimentare, il quale altrimenti avrebbe potuto aprire d'ufficio l'istruttoria prefallimentare sulla base di una notita decoctionis assunta “informalmente” (v. Corte Cost., n. 240/2009), così rischiando di compromettere la “terzietà” che deve connotare istituzionalmente il ruolo del Giudice, non per il P.M., che è parte del processo, e non deve pertanto essere né “terzo” né “equidistante”, pur avendo il compito di agire comunque nell'interesse oggettivo della Legge (ciò che qualifica semmai la sua “autonomia”, e non già una malintesa “terzietà”).
E ciò si sposa anche con le restanti indicazioni dell'ordinamento concorsuale (v. l'art. 3 D.Lgs. n. 270/1999, in tema di amministrazione straordinaria, artt. 162 - 173 - 179 - 180 l. fall., ove pure l'iniziativa del P.M. è generale e non ristretta ai casi di cui all'art. 7: e v. su quest'ultimo punto anche App. Bologna, 1 giugno 2009, in ilcaso.it, caso “Vidivici”) e del diritto comunitario (art. 29 Regolamento n. 1346/2000), che si muovono palesemente in un contesto connotato dalla “generalità” della portata dell'iniziativa del P.M., che è titolare di un potere di azione sullo stesso piano di tutti gli altri legittimati (creditori, debitore).
In senso contrario non possono certo deporre indicazioni normative derivanti dalla giurisdizione contabile, che si muovono evidentemente nell'ambito di un quadro istituzionale completamente differente, e dove il ruolo della Procura Regionale non ci sembra possa essere sovrapposto a quello del P.M. in sede civile.
E nemmeno, è appena il caso di dirlo, possono essere enfatizzate argomentazioni “pratiche”, per cui se il P.M. godesse di un potere di azione “generale”, esso dovrebbe essere obbligatoriamente chiamato ad intervenire in tutti i procedimenti di istruttoria prefallimentare (art. 70 c.p.c.), posto che proprio per evitare tale effetto, disfunzionale sul piano pratico, ha provveduto l'art. 15, comma 2, l. fall. (“nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento”); indicazione normativa, quest'ultima, che al contrario conferma che il Legislatore era ben consapevole di aver affidato alla Procura un potere di azione non “limitato”, e dunque si poneva l'esigenza di rimediare alle disfunzioni organizzative che l'applicazione dell'art. 70 c.p.c. avrebbe potuto generare.
D'altro canto, l'art. 7, n. 1, l. fall. fa riferimento soltanto all'insolvenza che emerge “nel corso di un procedimento penale”, senza in alcun modo richiedere che detto procedimento veda in qualità di indagato/imputato l'imprenditore della cui insolvenza si discute (conf. De Matteis, L'istruttoria prefallimentare, in Le procedure concorsuali, a cura di Caiafa, I, Padova, 2011, 80; conff. Clemente-Arpea, Commento all'art. 7, in Comm. Nigro-Sandulli, I, Torino, 2010, 83, con riferimento espresso alla società controllata dagli indagati); altrimenti, è appena il caso di dirlo, l'art. 7 non potrebbe mai trovare applicazione agli imprenditori costituiti in forma societaria, che sono invece la maggior parte.
Indicazioni convergenti del resto provengono dal n. 2 dello stesso art. 7, che non reca più alcun riferimento alla circostanza per cui l'imprenditore insolvente debba essere “parte” del procedimento civile ove l'insolvenza “risulti” al Giudice civile.
Dunque la notitia decoctionis, comunque essa emerga, nell'ambito di un procedimento civile o penale, ed anche se essa riguardi soggetti terzi che non assumono la qualità di parte, deve essere oggetto di iniziativa ex art. 6 l. fall. da parte del PM.
Anche l'“autorità” di Cass. 26 febbraio 2009, n. 4632 (che ha confermato App. Milano, 29 novembre 2007) appare seriamente confutabile.
Il Tribunale fallimentare, adito dal creditore che poi “desista” dalla propria istanza, non potrebbe segnalare al P.M. l'insolvenza dell'imprenditore che risulti in atto poiché:
• verrebbe altrimenti meno la “terzietà” del Tribunale, che sarebbe indotto in valutazioni di merito che porrebbero in discussione quel valore;
• l'ordinamento concorsuale riformato rifuggirebbe da ogni iniziativa officiosa del Tribunale, così come depongono i nuovi testi degli artt. 147 - 162 - 173 - 180 l. fall., ove nessun potere autonomo di segnalazione è dato al Tribunale;
• la desistenza del creditore condurrebbe alla estinzione del procedimento, sicché nessun potere residuerebbe in capo al Tribunale;
• l'assenza nell'art. 7 di ogni riferimento alla circostanza per cui il debitore debba essere “parte” del procedimento da cui nasce la segnalazione, nonché il fatto che l'insolvenza debba “risultare” e non già “essere accertata”, deporrebbero nel senso della eterogeneità fra istruttoria prefallimentare e “procedimento civile” ex art. 7, n. 2, l. fall.

In realtà, la sentenza è stata oggetto di una profonda revisione critica da parte della quasi totalità della letteratura che l'ha esaminata (v. per tutti i commenti di Cordopatri, in Dir. fall., 2010, 265 ss.; De Santis, in Fall. 2009, 521 ss.; Fabiani, in Foro it., 2009, I, 1404 ss.), ed ha dato luogo ad una vera e propria “ribellione” da parte delle Corti di merito, anche di appello, che si sono discostate consapevolmente dalla stessa, così aprendo la strada ad un assai probabile (oltre che auspicabile) ed imminente revirement della stessa S.C.


Ed infatti:
• la supposta carenza di “terzietà” del Giudice in realtà non sussiste, atteso che il Tribunale effettua una valutazione solo sommaria e incidentale (come suggerisce proprio la sostituzione del termine “accertata” con “rilevata”), ed il Collegio che deciderà sulla richiesta del P.M. ex art. 6 l. fall. potrebbe non coincidere con quello segnalante, così sovrapponendosi in modo inammissibile il concetto di Tribunale come Collegio giudicante a quello di Tribunale come Ufficio giudiziario; tale interpretazione poi svilisce in modo evidente ed eccessivo il ruolo del P.M., il quale valuta criticamente la segnalazione, può condurre indagini sull'insolvenza, all'esito delle quali potrebbe confermare, sulla base di elementi autonomi di giudizio, la valutazione del Tribunale, oppure anche decidere di “archiviarla”; inoltre il P.M. potrebbe anche ritenere competente a decidere sul fallimento un Tribunale differente da quello segnalante, e ciononostante l'orientamento criticato reputerebbe comunque impossibile la segnalazione;
• l'omessa previsione dell'iniziativa del P.M. nell'estensione del fallimento di società di persona al socio “occulto” (art. 147 l. fall.) trova spiegazione con la presenza della legittimazione del curatore della società, organo comunque pubblicistico; ed anche quanto agli artt. 162-173-180 (cui pure potrebbero aggiungersi gli artt. 179-186 l. fall.), l'omessa previsione di un potere di segnalazione del Tribunale al P.M. va spiegata con la presenza nel procedimento dello stesso P.M., che viene quantomeno notiziato dell'avvio dello stesso (art. 161, ult. cpv., l. fall.); inoltre la mancanza di un potere di azione del P.M. nell'art. 147 l. fall. (giustificabile con un mero difetto di coordinamento) andrebbe prima dimostrata; e così pure per l'assenza del potere di segnalazione del Tribunale all'interno del concordato, che non è conclusione affatto incontrastata (e v. infatti, quanto all'art. 182-bis l. fall., Trib. Roma, 27 gennaio 2010; e con riferimento all'annullamento del concordato Trib. Ascoli Piceno, 22 dicembre 2009).
• la carenza nel Tribunale del potere di provvedere ai sensi dell'art. 7 l. fall. a causa della sopravvenuta estinzione (rectius improcedibilità) dell'istruttoria prefallimentare è anch'esso un assioma assai discutibile, atteso che il Tribunale non può più provvedere in ordine alla domanda, ma non è al contempo privato del potere/dovere di emettere i provvedimenti che la perduranza di un'attività giurisdizionale implica (così come avverrebbe ad es. per la segnalazione di un reato, riscontrabile ex actis).
• la stessa sostituzione del termine “procedimento” a quello di “giudizio” suggerisce l'estensione dell'art. 7 ai procedimenti trattati con rito camerale, come l'istruttoria prefallimentare; ancora, e soprattutto, può ben accadere, che l'istruttoria prefallimentare a qua concerna un soggetto diverso da quello dell'imprenditore oggetto della segnalazione, eppure si vorrebbe ugualmente “pregiudicata” la “terzietà” del Tribunale; circostanza quest'ultima resa esplicitamente possibile dalla modifica normativa, che non fa più riferimento alla qualità di “parte” del giudizio civile a quo dell'imprenditore oggetto della segnalazione.

Dunque il principio espresso dalla S.C. nel precedente del 2009 sembra viziato da ragionamenti preconcettuali, e non merita accoglimento, sulla scorta di quanto la stragrande maggioranza dei Tribunali e delle Corti di Appello italiani hanno del resto statuito (Trib. Mantova, 12 marzo 2009, confermato da App. Brescia, 7 ottobre 2009; App. Torino, 8 novembre 2010, in De Jure, 2011, 327 e 10 giugno 2011; Trib. Monza, 18 giugno 2011; Trib. Padova, 20 gennaio 2011, tutte in ilcaso.it).

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