Il trasferimento di azienda e il ruolo del notaio nella procedura fallimentare (II parte)

Alessandro Stefani
05 Luglio 2012

L'aspetto di più marcata innovazione della riforma fallimentare consiste nell'inserimento dell'attività liquidatoria in un quadro di riferimento complessivo volto a garantire la coerenza e l'unitarietà delle cessioni dei singoli beni, al fine di conservare l'integrità produttiva dell'impresa e di soddisfare al meglio le ragioni dei creditori concorsuali. In questo contesto si collocano l'introduzione del programma di liquidazione previsto dall'art. 104-ter l. fall., nell'ambito del quale il curatore è chiamato ad individuare una strategia unitaria e razionale nella liquidazione del patrimonio fallimentare e, soprattutto, l'art. 105 l. fall., il quale attribuisce rilievo endofallimentare all'azienda come entità unitaria, inserendola nel sistema strutturale della procedura.Il “nuovo” art. 105 l. fall. completa un lungo percorso di interventi settoriali ed il risultato è un nuovo modello di liquidazione riallocativa dei valori aziendali nel quale il notaio si trova a svolgere un ruolo essenziale, sia per la necessità della forma autentica del negozio di trasferimento, senza l'osservanza della quale è preclusa l'iscrizione dell'atto nel registro delle imprese, sia per la delicata fase intercorrente tra aggiudicazione e purgazione dei gravami nel caso di complessi aziendali comprendenti beni immobili.
Premessa

Il presente articolo costituisce la seconda parte di un'analisi dei rapporti nell'ambito della riforma delle procedure concorsuali tra l'istituto dell'azienda ed il ruolo del notaio: nella prima parte (A. Stefani, Il trasferimento di azienda e il ruolo del notaio nella procedura fallimentare, in ilFallimentarista.it del 6.4.2012) si è esaminato l'impianto normativo dell'affitto aziendale endofallimentare, in questa sede si affronta la tematica dei trasferimenti aziendali, avendo quali punti di riferimento i cardini sui quali si fonda la novella, e cioè i concetti di “programmazione condivisa” e di “procedura competitiva”, nell'ambito del continuo e sempre maggiore sforzo di esternalizzazione della funzione giurisdizionale e di privatizzazione della procedura. Questo esame analitico, tuttavia, deve tener conto dell'oscillante e variegata posizione della giurisprudenza tributaria, perché se è vero che nell'ambito del fallimento è da escludere ogni profilo di possibile elusione fiscale (o del più recente abuso di diritto), lo stesso non può dirsi delle problematiche inerenti, da un lato, al rischio che l'articolazione dei rapporti propri di un'entità aziendale conduca a forme di moltiplicazione dei presupposti tassabili, che risultano invece in contrasto con le necessità della procedura di più efficiente realizzo e di incentivo all'acquisto nonché con la finalità unitaria che l'atto di cessione intende raggiungere; e, dall'altro lato, all'esatta individuazione del compendio aziendale e degli elementi che lo compongono, sempre ai fini di una corretta valutazione propedeutica ad un eventuale accertamento di natura contabile - fiscale in capo ai soggetti interessati.

Da ciò deriva l'estrema delicatezza nell'utilizzo da parte del notaio di una puntuale tecnica redazionale e di un'attenta impostazione dell'atto di trasferimento, alla luce di una sempre più evidente contraddizione in cui incorre l'attuale giurisprudenza che, senza un apparente fondamento giuridico, ma spesso solo allo scopo di ottenere il trattamento più favorevole per il fisco, tende ad unificare cessioni formalmente separate di beni aziendali o a scomporre in plurimi negozi atti traslativi dell'intero compendio.

La vendita unitaria dell'azienda

L'analisi del trasferimento di un compendio aziendale in ambito fallimentare investe più in generale le ragioni delle scelte di fondo riguardanti la liquidazione fallimentare dell'attivo, la quale viene del tutto disancorata nel nuovo testo dell'

art.

107 l

. fall

. dalle forme di conversione dei beni in denaro contemplate nell'ambito del processo esecutivo e che un tempo ne rappresentavano il paradigma: “il sistema delle vendite fallimentari acquista totale autonomia rispetto alle norme che disciplinano le vendite forzate, mediante la soppressione di ogni richiamo alle corrispondenti disposizioni del codice di procedura civile, prima contenuto nell'

art.

105 l

. fall

.” (F. Fimmanò, La vendita fallimentare dell'azienda, in Contr. e impr., 2007, 530). Può dirsi, pertanto, che se da un lato l'intervento del legislatore non apporta, con riguardo all'istituto della cessione di azienda, significative innovazioni rispetto alla disciplina preesistente come ricostruita, in assenza di specifiche norme della

legge fallimentare

in materia, dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti, dall'altro lato occorre riconoscere che una sostanziale novità nel dato positivo è data dall'abolizione della previsione di forme distinte per la vendita dei beni mobili e per quella di beni immobili, in perfetta coerenza con il principio di “deformalizzazione” che connota l'intera riforma.

Con particolare riferimento al diritto fallimentare, sotto la vigenza della legge ante riforma dottrina e giurisprudenza erano assolutamente ferme su due principi di fondo: da un lato l'azienda non poteva, e non può tuttora, essere oggetto di espropriazione individuale, dall'altro era ritenuta pacificamente ammissibile la vendita unitaria dell'azienda o di rami della stessa. Quanto al primo assunto, è pacifico che l'azienda sia un fenomeno strutturalmente ed intrinsecamente estraneo all'espropriazione individuale, dal momento che, nell'esecuzione forzata, il complesso di situazioni soggettive inerenti alla qualità di imprenditore non sono espropriabili: sono differenti gli stessi meccanismi che mettono in moto il fallimento ed il procedimento esecutivo individuale, presupponendo il secondo l'inadempimento e l'esistenza di un titolo esecutivo, quando il primo in linea di principio non esige né l'uno né l'altro, bastando esclusivamente l'insolvenza.

Tale principio trova conferma anche, se non soprattutto, sul dato normativo ante riforma: l'unica norma di carattere processuale che prende espressamente in considerazione l'azienda come entità unitaria è l'art. 670, n. 1, c.p.c. in materia di sequestro giudiziario, mentre non se ne fa menzione alcuna nel successivo art. 671 c.p.c. in materia di sequestro conservativo, prodromico all'espropriazione in quanto destinato a convertirsi in pignoramento con la conferma del provvedimento ed in seguito alla decisione di merito favorevole al sequestrante. Corollario ne è che l'atto di pignoramento potrebbe colpire solo i singoli beni costituenti l'azienda, e non certo i rapporti giuridici, pervenendosi così allo smembramento dell'azienda medesima e quindi alla perdita della sua identità di complesso di beni organizzati. Né può configurarsi il fallimento quale “procedura esecutiva collettiva” o “atto di pignoramento generale”, nel quale la realizzazione dell'attivo viene individuata come l'unica ed assorbente finalità: il fallimento, in realtà, è un fenomeno ben più complesso, che prevede sì un'“espropriazione dell'impresa”, ma, oggi, con natura e finalità ben diverse rispetto a quelle concepite dal legislatore del 1942, che vi vedeva una fattispecie estintiva dell'impresa stessa, tale da dissolvere necessariamente l'organo produttivo per espellere dal mercato un organismo malato, causa di turbamento dell'economia generale.

Neppure soccorrono altre norme via via indicate quali indici di pignorabilità dell'azienda: non l'art. 2784 c.c. in materia di pegno di azienda, non potendo esso configurarsi come un pignoramento convenzionale; neppure l'art. 2914, n. 3, c.c., in materia di inopponibilità al creditore pignorante della vendita di una universalità di mobili, volendosi qualificare tale l'azienda: si darebbe infatti alla norma un significato che non ha; e neppure, infine, l'art. 556 c.p.c. che, nel disporre il pignoramento insieme al bene immobile anche dei mobili quando appare opportuno che l'espropriazione avvenga unitamente, mira solo ad ottenere un maggior prezzo di aggiudicazione rispetto a quello che ragionevolmente si potrebbe conseguire da una vendita separata, senza che la somma complessivamente ricavata possa considerarsi una massa sulla quale il creditore possa far valere la prelazione immobiliare. In conclusione, l'azienda unitariamente considerata non può costituire oggetto di espropriazione, con la conseguente necessaria applicazione alla fattispecie delle diverse norme relative all'esecuzione dei singoli beni che la compongono: beni immobili, mobili e crediti.

Nonostante quanto sopra delineato, tuttavia, ante riforma era pacifica in dottrina e giurisprudenza l'ammissibilità di una liquidazione unitaria dell'azienda nel fallimento, sulla base di una evidente affinità logica e sistematica tra i due istituti nonché per ragioni di efficienza e funzionalità del sistema, specie al fine di salvaguardare il lavoro quale interesse costituzionalmente tutelato: indiretta conferma della suddetta ammissibilità, nella vigenza della legge fallimentare del 1942, ne sono l'art. 47, comma 5, l. 29 dicembre1990, n. 428, che ha introdotto disposizioni per i lavoratori subordinati nel caso di trasferimento di azienda di imprenditore fallito, e l'art. 3, comma 4, l. 23 luglio 1991, n. 223, che ha previsto il diritto di prelazione in favore dell'affittuario di azienda assoggettata a procedura concorsuale.

L'intervento riformatore “attribuisce rilievo endofallimentare all'azienda come entità unitaria inserendola nel sistema strutturale della procedura e cogliendo la sostanziale identità dell'humus in cui affondano le radici i due fenomeni”: e nel far ciò colma finalmente un ritardo ingiustificato che, con un certo clamore, riguardava proprio solo il legislatore fallimentare, il quale “era rimasto indietro rispetto alla sostanza giuridico-commerciale dell'azienda, quando non ne dettava la unitaria liquidazione” (L. Montesano, Sulla vendita fallimentare dell'azienda, in Riv. dir. proc., 1973, 23).

I problemi di compatibilità della cessione unitaria nascevano tuttavia sul piano strutturale per le disarmonie con le modalità di vendita previste dal codice di procedura civile, specialmente nel caso di azienda comprendente beni immobili: come sopra delineato, tali problemi sono stati superati dalla novella che, con l'

art. 104-

ter

l. fall

., prevede che il programma di liquidazione deve indicare le modalità e i termini previsti per la realizzazione dell'attivo, specificando, tra le varie opzioni, le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco. Il successivo

art.

105 l

.

fall

., poi, con grande chiarezza, dispone la liquidazione dei singoli beni solo quando risulta prevedibile che la vendita dell'intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori: la riforma, in altri termini, detta, in assoluta discontinuità col passato, un preciso criterio gerarchico secondo il quale la cessione unitaria del complesso aziendale deve essere tendenzialmente preferita alla liquidazione atomistica.

Ciò non significa che nel fallimento la liquidazione unitaria sia sempre la migliore soluzione possibile, né che essa abbia come unica alternativa l'alienazione parcellizzata delle singole componenti, tanto è vero che l'

art. 105, comma

5, l

. fall

. prevede che il curatore possa procedere altresì alla cessione delle attività e delle passività dell'azienda o di suoi rami, nonché di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, ed il comma 8 dispone altresì che lo stesso curatore possa procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, dell'azienda o di rami della stessa, ovvero di beni o crediti con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa comunque in tutti i casi la responsabilità dell'alienante prevista dall'

art. 2560 c.c.

: sono evidenti, dunque, la portata innovativa e la rilevanza sistematica delle citate disposizioni della novella, dal momento che sono tutte dirette a conservare l'unitarietà anche quando ciò che circola non è configurabile compiutamente come azienda o ramo di azienda, in quanto disaggregata dall'evento “cessazione dell'attività” o dalla volontà degli organi della procedura. E, sul piano della tecnica redazionale, è di tutta evidenza la delicatezza e l'importanza di una corretta stesura del testo contrattuale: sarà essenziale, in altri termini, che il notaio faccia emergere con grande chiarezza tutti quegli elementi che hanno giustificato una determinata scelta da parte del curatore, in modo da rendere più trasparente e stabile possibile l'atto dispositivo, alla luce delle ragioni e dei diversi principi che devono guidare le decisioni del curatore medesimo.

Il criterio che deve guidare la scelta tra le differenti soluzioni è di norma quello della convenienza economica: la cessione di azienda, cioè, benché idonea a salvaguardare istanze ulteriori rispetto a quelle della massa, resta inserita in una procedura il cui obiettivo è il conseguimento del miglior realizzo, in vista di incrementare al massimo le percentuali di riparto. Ciò comporta che, a differenza di quanto avviene nella liquidazione di aziende socialmente rilevanti, l'interesse alla conservazione dei complessi produttivi e dei livelli occupazionali non prevale su quello dei creditori ad ottenere un prezzo più alto, pur potendo contemperarsi con esso: in proposito si legge nella Relazione ministeriale illustrativa che “anche in questo caso, così come in tutta la fase della liquidazione dell'attivo, deve trovare applicazione ogni forma ed ogni mezzo che finisca per raggiungere il duplice obiettivo del massimo realizzo e della massima conservazione possibile dei nuclei ancora produttivi. Sotto questo secondo aspetto, si giustifica la previsione secondo cui, ai fini della vendita di aziende o di suoi rami in esercizio, la scelta dell'acquirente deve essere effettuata tenendo conto non solo dell'ammontare, in sé, del prezzo offerto, ma anche delle «garanzie di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli di occupazione»”.

La valutazione di convenienza

, in altri termini, e in continuità con quanto sostenevano dottrina e giurisprudenza ante riforma, non può limitarsi ad una semplicistica comparazione dei prezzi: essa, al contrario, deve essere calata nel contesto complessivo della procedura e degli effettivi interessi dei creditori concorsuali.

Un ultimo aspetto da valutare in materia di liquidazione del complesso aziendale, assai rilevante per il notaio chiamato a ricevere il relativo atto di trasferimento, è dato da quelle ipotesi nelle quali il fallimento abbia stipulato un contratto di affitto di azienda riconoscendo la prelazione convenzionale oppure si trovi in condizioni che determinino la sussistenza di prelazioni legali: in tali fattispecie, infatti, gli organi concorsuali vedranno limitata la propria discrezionalità rispetto alla vendita, non potendo scegliere forme di liquidazione che si risolvano nella disgregazione del complesso aziendale e quindi nella vanificazione del diritto di prelazione dell'affittuario. Dal momento che, in tale ipotesi, l'affitto e la conseguente prelazione sono inseriti in una procedura diretta proprio alla liquidazione del complesso aziendale in oggetto, si potrà procedere alla vendita dei singoli beni in modo frazionato solo dopo aver esperito inutilmente il tentativo della vendita in blocco e nessuno, ivi compreso l'affittuario, abbia ritenuto di acquistarla. L'unica alternativa percorribile, per il curatore, in tali casi è quella del diritto di recesso dal contratto che gli compete ai sensi dell'

art. 104-

bis

, comma

3, l

. fall

., che può essere esercitato, sentito il comitato dei creditori, corrispondendo all'affittuario un giusto indennizzo ai sensi dell'

art. 111, n.

1, l

. fall

..

I profili negoziali e le procedure competitive

Il legislatore della riforma, novellando radicalmente l'

art.

105 l

. fall

., ha dettato un'apposita disciplina della vendita dell'azienda, dei suoi rami e dei beni e rapporti in blocco, disponendo che la cessione debba avvenire con le modalità stabilite dall'

art.

107 l

.

fall

. e nel rispetto delle forme disciplinate dall'

art. 2556 c.c.

.

Per quanto riguarda il requisito della forma, in via generale può dirsi che nel nostro ordinamento vige il principio della libertà della stessa ed il trasferimento di azienda non fa eccezione, nel senso che il contratto di cessione di un complesso aziendale o di un suo ramo non richiede di per sé la forma scritta ad substantiam, se non nei casi previsti dal combinato disposto degli

artt. 2556

e

1350 c.c.

, e cioè quelli in cui l'azienda comprenda beni per il cui trasferimento sia necessaria appunto la forma scritta oppure beni immobili o contratti di locazione relativi a beni immobili per una durata ultranovennale.

La forma scritta, tuttavia, è richiesta dall'

art. 2556, comma 1, c.c.

a fini probatori mentre la forma autentica, e cioè l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata, è sempre richiesta dallo stesso

art. 2556, comma 2, c.c.

quale condizione per poter procedere al deposito dell'atto presso il registro delle imprese. Di fatto, dunque, il contratto di trasferimento dell'azienda stipulato dal curatore, sia esso una cessione o un affitto, richiederà necessariamente l'intervento del notaio, deputato a curare l'adempimento delle relative formalità pubblicitarie, e la forma da osservare per la circolazione dei beni immobili o mobili registrati facenti parte dell'azienda viene a coincidere con quella richiesta per conseguire l'iscrizione nel registro delle imprese di qualsiasi fattispecie contrattuale di circolazione dell'azienda, anche se costituita di soli beni mobili.

Il notaio, pertanto, è chiamato a garantire non solo la legalità e l'autenticità del contratto, ma anche l'adempimento di quelle formalità che rendono conoscibili e quindi trasparenti i contratti stessi, dal momento che l'effetto traslativo viene realizzato mediante un vero e proprio contratto e non più mediante un provvedimento giudiziale, previsto dall'

art. 108, comma

2, l

. fall

. al solo fine di ordinare la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo su beni immobili e beni mobili registrati e sui quali si tornerà infra.

Per quanto riguarda, invece, la questione delle procedure competitive, occorre sottolineare che il legislatore della riforma è intervenuto semplificando e “privatizzando” la procedura per ottenere un semplice risultato finale: la massimizzazione del risultato ottenibile tramite la procedura fallimentare, sia sul piano dei tempi sia, soprattutto, su quello economico attinente alla realizzazione dell'attivo (P. d'Adamo, Le procedure competitive all'interno della riforma della liquidazione dell'attivo, in Studi e Materiali CNN, Milano, 2008; A. Stefani, Il ruolo del notaio nella procedure competitive, in ilFallimentarista.it, 20.12.2011). Se cristallino è lo scopo, tuttavia, non altrettanto immediata è la percezione dell'

art.

107 l

. fall

., dato il riferimento al concetto delle «procedure competitive», senza che esse siano predefinite in paradigmi formali ed istituti di diritto sostanziale (P. Liccardo – G. Federico, Commento all'art. 107, in Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007; M. Sandulli, Sub art. 107, in La Riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006).

In punto pratico il pensiero corre immediatamente alle “best practices” di alcuni tribunali virtuosi, le quali avevano fortemente contribuito a razionalizzare le esecuzioni individuali nonché altrettanto fortemente condizionato la riforma del 1998, tanto che è lo stesso tenore dell'

art. 107

l.

fall

. ad evidenziare che il curatore, nell'utilizzare le procedure competitive, deve assicurare alle stesse «adeguate forme di pubblicità», nonché avvalersi di «soggetti specializzati» e basarsi sulla stima effettuata da parte di «operatori esperti». E proprio da un attento esame delle caratteristiche peculiari delle tecniche di monetizzazione del patrimonio utilizzate dai tribunali più virtuosi possono estrapolarsi i connotati essenziali delle procedure competitive, consistenti in:

«1) un sistema incrementale di offerte, che ponga in competizione tutti gli offerenti; sistema finalizzato al raggiungimento del prezzo più alto possibile nel minor tempo possibile;

2) un funzionamento procedimentale altamente trasparente in cui tutte le parti della procedura concorsuale siano sempre a conoscenza dei passaggi e dei risultati. Ciò è garantito, anche, da un adeguato sistema di pubblicità, che ha garantito e garantisce, anche nelle procedure individuali, da ogni rischio di discrezionalità degli organi della procedura stessa;

3) da meccanismi alienativi volti al risparmio processuale, quindi gare altamente informali, modalità di partecipazione facilitate, strumenti di versamento del prezzo altamente efficienti, strumenti di sganciamento dalla vendita altamente velocizzati e non burocraticizzati».

Una procedura può definirsi competitiva, pertanto, se si fonda su un sistema incrementale di offerte, su una adeguata pubblicità, sulla trasparenza, su regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell'offerente e su una completa e assoluta apertura al pubblico interessato.

Da ciò deriva che il mancato richiamo da parte del legislatore della riforma del codice di rito non implica un rifiuto ma, al contrario, un tentativo di incardinarlo nella riforma stessa, «riportando al suo interno i concetti stessi di alcune norme delle procedure individuali, che erano il supporto normativo della precedente

legge fallimentare»: l'art. 104-

ter

l.

fall

, consentendo al giudice delegato di autorizzare il curatore ad affidare ad altri professionisti alcune incombenze della procedura di liquidazione dell'attivo, recepisce esattamente le caratteristiche fondanti delle “best practices” e «ricalca in modo fedele l'esigenza del legislatore di approntare anche in materia fallimentare «l'outsourcing» avutosi nelle esecuzioni individuali attraverso la delega delle operazioni di vendita ai professionisti delegati

ex art. 591-

bis

c.p.c.

È chiaro l'intento della riforma di utilizzare al meglio tutte le singole professionalità per avere un sistema competitivo di liquidazione dell'attivo ed è chiaro l'utilizzo, attraverso il terzo comma dell'

art. 104-

ter

l.fall

., della delega frazionata di competenze liquidative». Può dirsi, pertanto, che lo stretto rapporto tra l'

art. 104-

ter

l. fall

. e l'

art. 591-

bis

c.p.c.

sia la prova che il legislatore della riforma abbia direttamente inserito nelle nuove norme il codice di procedura civile, (A. Caiafa, Nuovo diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006) avendo quale scopo principale quello di ampliare lo spettro delle possibilità liquidative, sempre restando nell'orbita di un sistema competitivo.

La procedura competitiva, quindi, costituisce un passaggio necessario della fase di liquidazione, che, salvo ipotesi di delega della fase alienativa, o di affidamento della stessa al giudice delegato, è attività propria del curatore. Sotto il profilo pratico ciò comporta la possibilità dell'utilizzo dello strumento privatistico del contratto di compravendita anche per l'azienda: la procedura di liquidazione, in altri termini, viene effettuata direttamente dal curatore e non più dal giudice e, soprattutto, l'atto di trasferimento è un atto tra privati e non più un provvedimento giudiziario, con evidenti implicazioni in particolare per l'attività del notaio, dal quale il curatore si dovrà recare per formalizzare il contratto di cessione dopo aver verbalizzato la fase di aggiudicazione del bene all'offerente divenuto aggiudicatario a seguito di procedura competitiva.

Gli effetti negoziali

Sul piano degli effetti della vendita concorsuale dell'azienda, la prevalente dottrina ante riforma sosteneva che la procedura dava luogo a trasferimenti di carattere coattivo e, pertanto, le vendite fallimentari dovevano comunque configurarsi come vendite coattive giudiziarie anche nel caso in cui si fosse utilizzato lo strumento della trattativa privata: esse, in altri termini, non avrebbero potuto costituire il risultato di un incontro di due volontà negoziali in quanto solo la cessione volontaria era fondata su un atto di disposizione da parte del titolare del diritto trasmesso, e conseguentemente non avrebbero mai potuto avere natura contrattuale in senso proprio. Ulteriore corollario di tale impostazione era quello secondo il quale alle vendite fallimentari non erano necessariamente applicabili le disposizioni dettate per la circolazione negoziale, stante la sopra evidenziata diversità di natura giuridica del titolo.

A parere di chi scrive, tuttavia, i due profili vanno tenuti nettamente distinti, non solo a seguito della riforma: non si dubita, infatti, che le procedure competitive disciplinate dall'

art.

107 l

. fall

., pur essendosene modificato l'impianto generale, siano e restino procedure di vendita coattiva. Il legislatore ha sì spostato l'asse gestionale della fase di liquidazione dal giudice al curatore e ciò ha comportato quale conseguenza che, salvo l'ipotesi di delega della fase alienativa, la vendita dei beni viene oggi effettuata dal curatore in esecuzione di quanto evidenziato nel programma di liquidazione; ma tale vendita, in realtà, mantiene la propria natura di vendita coattiva, poiché la liquidazione dell'attivo continua ad essere svolta sotto il controllo del giudice delegato, il quale non solo autorizza l'esecuzione degli atti conformi a quelli previsti nel programma di liquidazione, ma ha altresì il potere di sospendere le operazioni di vendita ed emette comunque, ai sensi dell'

art. 108, comma

2, l

. fall

., il decreto di purgazione dei gravami esistenti sui beni oggetto di liquidazione: tutto ciò evidenzia chiaramente che la forma negoziale scelta dal curatore non altera il regime circolatorio proprio delle vendite coattive (P. d'Adamo, Il trasferimento d'azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, Studi e Materiali CNN, 2011; F. Iozzo, La liquidazione dell'attivo, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2008, F. Fimmanò, La liquidazione dell'attivo fallimentare nel correttivo della riforma, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, Padova, 2007, 865, P. Liccardo – G. Federico, Commento all'art. 108, in Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 1805; in giurisprudenza

Cass., sez. I, 18 giugno 2010, n. 14760

).

Discorso completamente diverso, invece, occorre fare per quanto riguarda l'applicabilità alle vendite fallimentari delle disposizioni dettate per la circolazione negoziale, dal momento che nel dato positivo non è ravvisabile una volontà del legislatore diretta a distinguere il tipo di circolazione dell'azienda ai fini della disciplina applicabile. Tale profilo è di estremo interesse per il notaio che si trovasse a ricevere un atto di trasferimento a seguito di una procedura di liquidazione, essendo cambiato radicalmente l'impianto della procedura stessa: essa intanto viene effettuata direttamente dal curatore e non più dal giudice e, soprattutto, l'atto di trasferimento è oggi pacificamente non più un provvedimento giudiziario, ma un vero e proprio atto tra privati, o, meglio, un vero e proprio contratto di compravendita.

Tale contratto, pertanto, pur acquisendo tutti gli effetti sostanziali della vendita coattiva (

Cass., sez. I, 18 giugno 2010, n. 14760

), dovrà sottostare a tutta la disciplina civilistica in materia di compravendita, nonché a tutta la disciplina speciale in materia di circolazione dell'azienda prevista dal codice civile: dalle espressioni utilizzate nelle norme di cui agli

artt. 2557-2560 c.c.

, infatti, non si ravvisa una discriminazione legislativa tra cessione negoziale e cessione giudiziale, mancando qualsiasi accenno ad un presunto elemento volontaristico. E anche sul piano della natura giuridica il trasferimento coattivo non rompe il nesso che caratterizza l'acquisto a titolo derivativo, traducendosi comunque nella trasmissione dello stesso diritto del fallito: ciò vale a maggior ragione nel nuovo sistema di vendite fallimentari ex

art

t

. 107 e ss. l.

fall

., dove viene meno, per tutte le fattispecie, il provvedimento giudiziale di trasferimento.

Sulla base di quanto sopra esposto si tratta ora di verificare entro quali limiti la disciplina dettata dalle norme civilistiche, ed in particolare dagli

artt. 2557

-2560 e dall'art.

2112 c.c.

, in materia di circolazione di crediti, debiti e contratti aziendali, sia compatibile con la struttura e le finalità della liquidazione fallimentare, tenendo ben presente che tali rapporti non sono configurabili come beni aziendali in senso stretto e che il loro contestuale trasferimento è di regola solo un effetto naturale della fattispecie.

La norma di riferimento, come noto, è l'

art.

105 l

.

fall

., il quale disciplina compiutamente la sorte dei crediti e dei debiti derivanti da contratti già eseguiti, i quali non sono più in rapporto di reciprocità con le prestazioni originariamente corrispondenti, mentre tace riguardo ai rapporti conseguenti alla successione dell'acquirente dell'azienda nei contratti ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti; la novella, in altri termini, non ha provveduto a coordinare la disciplina civilistica dell'

art. 2558 c.c.

e, più in generale dell'

art. 1406 c.c.

per la cessione del contratto con la disciplina fallimentare dei contratti pendenti contenuta negli

artt. 72 ss. l. fall

., non cogliendo l'occasione di una riforma organica di uno degli aspetti centrali della cessione dell'azienda.

Nonostante tale mancato richiamo, tuttavia, non si dubita che l'

art. 2558 c.c.

sia applicabile alla liquidazione concorsuale e, pertanto, in caso di possibile mancata diversa pattuizione convenzionale, la cessione dell'azienda determina la successione automatica dell'acquirente dell'azienda nei contratti aventi ad oggetto prestazioni corrispettive, non ancora eseguite o compiutamente eseguite da entrambe le parti al momento del trasferimento, non aventi carattere personale, conclusi nell'esercizio dell'attività di impresa e nei quali il curatore sia subentrato ex lege o per volontà espressamente manifestata prima del perfezionamento della cessione.

Per quanto riguarda i crediti, invece, il richiamo è testuale: ai sensi dell'

art. 105, comma

6, l

. fall

., la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto nei confronti dei terzi dal momento dell'iscrizione o del trasferimento nel registro delle imprese; tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente.

La norma ripropone in ambito fallimentare il testo integrale dell'

art. 2559, comma 1, c.c.

recependo nel dato positivo la tesi sostenuta da dottrina e giurisprudenza prevalenti ante riforma circa la compatibilità dello stesso

art. 2559 c.c.

, in materia di crediti di natura extracontrattuale ovvero derivanti da contratti a prestazioni corrispettive già eseguite da una delle parti o da prestazioni unilaterali, con la struttura e le finalità della liquidazione fallimentare, anche per quanto riguarda il regime pubblicitario cui è connessa l'efficacia della cessione nei confronti dei terzi. Su questo specifico punto si è così sostenuto che, specie in sede fallimentare, il passaggio dei crediti all'acquirente dell'azienda non avvenga automaticamente, “ma solo in virtù di un apposito patto con il quale le parti possono anche limitare la cessione ad alcuni crediti soltanto (singolarmente individuati o per categorie) e precisare se la cessione avviene pro soluto oppure pro solvendo, operando in assenza di specifica previsione l'

art. 1267 c.c.

”.

Tutti questi aspetti sono di estremo interesse per il notaio chiamato a redigere un atto di cessione di azienda dal momento che, sotto il profilo della tecnica contrattuale, “non è facile operare una netta distinzione fra cessione del contratto e cessione dei debiti e dei crediti allorquando questi ultimi abbiano, come è regola, genesi contrattuale” (G. Bonfante – G. Cottino, L'imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, Padova, 2001, vol. I, 639 ss.): parte della dottrina, così, sostiene che l'

art. 105, comma

6, l

. fall

., come del resto l'

art. 2559 c.c.

, si applicherebbe ai cosiddetti crediti “puri”, non aventi cioè a fronte alcuna controprestazione, mentre non rientrerebbero nella sfera di operatività della suddetta norma i crediti e i debiti connessi a contratti a prestazioni corrispettive ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti, regolati appunto dall'

art. 2558 c.c.

in materia di successione dei contratti (A. Gallone – M. Ravinale, L'affitto e la cessione d'azienda nella riforma fallimentare, Milano, 2008, 281).

La stessa dottrina arriva quindi ad affermare che gli stessi crediti “puri” non sono da ritenersi un elemento costitutivo dell'azienda e sarebbe questa la ragione per la quale il passaggio di tali crediti all'acquirente dell'azienda non avviene automaticamente in forza dell'intervenuta cessione, ma solo in forza di apposita pattuizione contrattuale; giurisprudenza e altra parte della dottrina, tuttavia, sono di diversa opinione e ritengono che i crediti siano da ritenersi parte integrante dell'azienda e quindi che, salva diversa pattuizione, la cessione dei crediti che non rivestano carattere personale sia automatica (F. Ferrara jr – F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, 157; in giurisprudenza si vedano

Cass., 13 giugno 2006, n. 13676

).

Per quanto riguarda, invece, l'opponibilità della cessione dei crediti ai terzi, dal dato normativo si ricava che la cessione produce effetto dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione; in ogni caso, tuttavia, il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente.

Rimane, da ultimo, la questione circa la sorte dei debiti relativi all'esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento e quindi della compatibilità dell'

art. 2560 c.c.

con la liquidazione concorsuale: questione centrale ante riforma per le evidenti enormi ripercussioni sulla commerciabilità del complesso aziendale in sede fallimentare; questione espressamente risolta dal legislatore della riforma, il quale con il nuovo

art. 105, comma

4, l

. fall

., ha sancito che, salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell'acquirente per i debiti relativi all'esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento.

L'

art. 2560 c.c.

sancisce, come noto, che l'alienante non è liberato dai debiti aziendali anteriori al trasferimento se non risulta che i creditori vi abbiano consentito e che dei debiti aziendali risultanti dai libri contabili obbligatori risponde anche l'acquirente dell'azienda; con particolare riferimento a questo secondo aspetto, è da sottolineare che la norma non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica e, pertanto, è principio ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza quello secondo il quale l'iscrizione nei libri contabili obbligatori dell'azienda è un elemento costitutivo essenziale della responsabilità dell'acquirente dell'azienda per i debiti ad essa inerenti.

Nella

legge fallimentare

del 1942 non vi erano norme che escludessero esplicitamente l'applicazione dell'

art. 2560 c.c.

all'ipotesi di cessione di azienda in sede fallimentare: e, data la pacifica compatibilità delle norme codicistiche in materia di circolazione dell'azienda ad ogni fattispecie di alienazione, anche giudiziale, ciò avrebbe da un lato inevitabilmente reso assai poco appetibile l'acquisto e, dall'altro lato, creato un vulnus al principio della par condicio creditorum.

Ante riforma, pertanto, dottrina e giurisprudenza ritenevano che l'

art. 2560 c.c.

non fosse applicabile all'alienazione fallimentare sulla base di una lunga serie di ragioni: in primo luogo un evidente motivo di incompatibilità della disciplina della responsabilità dell'acquirente col sistema fallimentare si rinviene nell'effetto purgativo che la liquidazione fallimentare produce; se, in altri termini, l'obiettivo perseguito dal legislatore è quello di dare all'acquirente un bene libero da ogni peso o gravame, in modo da attribuirgli non solo la disponibilità giuridica della cosa, ma anche quella materiale ed effettiva, una diversa interpretazione andrebbe nella direzione opposta alla ratio di tutto il sistema fallimentare, il cui scopo è altresì evidenziato dalla naturale estinzione dei privilegi gravanti sul bene.

In secondo luogo, l'applicazione dell'

art. 2560 c.c.

avrebbe generato in concreto un'alterazione della par condicio creditorum, poiché si sarebbe dovuto riconoscere all'acquirente dell'azienda un diritto di regresso verso la massa o lo sconto del prezzo dalle attività aziendali vendute, con oggettiva alterazione delle pretese satisfattorie dei creditori non aziendali.

Il nuovo

art. 105, comma

4, l

.

fall

. ha in sostanza recepito e confermato il prevalente orientamento cui erano pervenute dottrina e giurisprudenza e ci si sente di condividere l'osservazione secondo la quale “la norma si rivela, pertanto, fortemente competitiva, in quanto la libera circolazione dell'azienda proveniente da una procedura concorsuale depurata dal peso dei suoi debiti può consentire opportunità di investimento, tenuto anche conto della effettiva incidenza del valore dell'avviamento sul prezzo di vendita” (R. Fontana, Sub art. 105, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, Padova, 2007, 797).

L'

art. 105, comma

5, l

. fall

., dispone poi che il curatore può procedere alla cessione delle attività e delle passività dell'azienda, o dei suoi rami, nonché di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, esclusa comunque la responsabilità dell'alienante ai sensi dell'

art. 2560 c.c.

Il riferimento alla “cessione delle attività e delle passività dell'azienda” individua una fattispecie non coincidente con la cessione di azienda o di un suo ramo ed anche in questo caso tale previsione appare confermativa di una prassi procedurale ampiamente utilizzata dalle procedure concorsuali: la novità, tuttavia, consisterebbe nel riconoscimento espresso che la procedura, unitamente alle attività aziendali, possa cedere le passività aziendali.

Ante riforma, infatti, si riteneva ammissibile la cessione dei debiti in tutti i casi nei quali l'attivo fallimentare facesse ritenere che l'accollo da parte dell'acquirente non avrebbe pregiudicato i diritti dei creditori di grado anteriore; accollo che, per ovvie ragioni, doveva essere configurato come cumulativo, a meno che tutti i creditori interessati non avessero acconsentito espressamente alla liberazione del fallimento, dal momento che in caso contrario si sarebbero posti problemi analoghi a quelli visti per l'accollo legale in ordine agli effetti per la massa.

La novella in questa materia non ha fatto altro che recepire tale impostazione ed infatti l'

art. 105, ultimo comma, l. fall

., prevede che il pagamento del prezzo possa essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell'acquirente solo se non viene alterata la graduazione dei crediti, come potrebbe succedere nell'ipotesi testualmente riportata nella Relazione ministeriale di accompagnamento alla Riforma, e cioè di acquisto dei beni concessi al debitore in leasing. In concreto, tuttavia, il ricorso a tale strumento offerto dal legislatore non è agevole per il curatore, dal momento che, da un lato, è oggettivamente complicato immaginare un accollo dei debiti, anche decurtati, che non alteri la graduazione, e, dall'altro lato, richiede una difficile se non impossibile prognosi sulla ripartizione finale dell'attivo.

Uno dei principali problemi sul punto, inoltre, è dato dalla responsabilità solidale dell'acquirente dell'azienda per i debiti derivanti dai rapporti di lavoro subordinato, dal momento che in tal caso si innescano meccanismi di accollo legale all'interno di un accordo privatistico. Il tema, come noto, è di dimensioni troppo ampie per poter essere affrontato in questa sede con quel minimo di sistematicità che esso richiede, ed esula altresì dalle competenze tecnico-giuridiche proprie del notaio; a ciò si aggiunga l'estrema frammentazione normativa del settore ed un sempre più accentuato contrasto tra la normativa nazionale e quella comunitaria, che rendono sempre più complicata l'attività degli operatori economici, stretti tra la tensione assai garantista nei confronti dei lavoratori propria del dato normativo interno ed una propensione più liberale del settore comunitario volto a favorire l'iniziativa imprenditoriale.

Il notaio chiamato alla redazione di un contratto di cessione di azienda comprendente rapporti di lavoro subordinato, pertanto, dovrà inevitabilmente confrontarsi con professionisti esperti nella materia giuslavorista e prestare attenzione ad alcuni elementi di fatto tali da condizionare l'intero impianto contrattuale: si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla dimensione dell'azienda, dovendo distinguere il caso delle aziende socialmente rilevanti da quelle non dotate dei requisiti per l'ammissione alla Cassa integrazione, e ai conseguenti rinvii normativi agli

artt. 2112

e

2119 c.c.

nonché all'

art.

47 l

. 428/1990

.

La novella, sul punto, è intervenuta col nuovo

art. 105, comma

3, l

. fall

., disponendo che nell'ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento di azienda, il curatore, l'acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti. Non è nuovamente questa la sede per un'analisi del dato normativo e della sua ratio, specie con riferimento alla deroga automatica al principio dell'accollo cumulativo di cui all'

art. 2112 c.c.

: in linea con la posizione di chi ritiene che si sia accentuata la preferenza per l'interesse alla salvaguardia del credito da lavoro rispetto all'interesse di incentivare la circolazione dell'azienda, salvo il caso di impresa in crisi socialmente rilevante, e in attesa di un intervento chiarificatore del legislatore piuttosto che di un orientamento consolidato della giurisprudenza, il notaio dovrà come sempre preferire una posizione di prudenza, tentando di coinvolgere, quando possibile, tutte le parti in gioco, e cioè organizzazioni sindacali e singoli lavoratori non iscritti, in modo da assicurare la massima stabilità al contratto.

Tale posizione, peraltro, è in linea con l'orientamento secondo il quale l'esclusione della responsabilità dell'acquirente dell'azienda per i debiti di lavoro è subordinata al raggiungimento dell'accordo sindacale e alle altre condizioni poste dall'

art. 47, comma

5, l

. 428/1990

al fine di conseguire la disapplicazione dell'

art. 2112 c.c.

, e rende senza dubbio assai difficoltoso il fenomeno circolatorio dell'azienda nell'ambito del fallimento: ma il legislatore nazionale, per quanto attiene al fenomeno traslativo aziendale in ambito fallimentare, non ha inteso derogare alla normativa giuslavorista, nonostante l'assenza di controindicazioni nell'ordinamento comunitario.

Un discorso a parte, invece, deve essere fatto per quanto attiene i debiti contributivi e per quelli di natura tributaria.

Riguardo ai primi, e cioè i debiti contratti nei confronti degli istituti previdenziali per l'omesso versamento dei contributi obbligatori, esistenti al momento del trasferimento, non vale quanto detto per i debiti derivanti dai rapporti di lavoro, ma si torna nell'alveo “naturale” dei debiti inerenti all'esercizio dell'azienda, con applicazione della disciplina generale dettata dall'

art. 2560 c.c.

: la solidarietà

ex art. 2112 c.c.

, infatti, è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non è estesa ai crediti di terzi, quali devono ritenersi gli enti previdenziali; il lavoratore, in altri termini, resta estraneo al rapporto contributivo, che intercorre tra l'ente previdenziale ed il datore di lavoro e conseguentemente non può avere diritti di credito verso lo stesso datore per l'omesso versamento dei contributi obbligatori. L'acquirente, pertanto, risponderà dei debiti previdenziali dell'azienda ceduta solo se risultano dai libri contabili obbligatori, potendo ritenersi tali il libro paga e il libro matricola.

Per quanto riguarda i debiti tributari, invece, il quadro normativo di riferimento è dato dall'

art. 14,

d.l

gs. 18 dicembre 1997, n. 472

, il quale nell'ambito dei principi generali del sistema sanzionatorio tributario non penale disciplina la cessione di azienda e la relativa responsabilità solidale del cessionario per le imposte e sanzioni dovute dal cedente.

Il cessionario dell'azienda, in sostanza, è responsabile in solido col cedente, nei limiti del valore dell'azienda ceduta e fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente, per il pagamento delle imposte e delle sanzioni relative alle violazioni commesse nell'anno in cui è avvenuto il trasferimento e nei due precedenti, seppur non contestate o non irrogate alla data della cessione, nonché alle violazioni già contestate e alle relative sanzioni già irrogate nel medesimo periodo, anche se commesse in epoca anteriore. L'obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell'amministrazione finanziaria e degli enti preposti all'accertamento dei tributi di loro competenza, i quali, su richiesta dell'interessato, sono tenuti a rilasciare un certificato sull'esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti: il certificato negativo o il mancato rilascio entro 40 giorni dalla richiesta hanno pieno effetto liberatorio del cessionario.

Tutto quanto sopra detto in materia di responsabilità del cessionario non vale in caso di cessione effettuata in frode dei crediti tributari: frode presunta, salvo prova contraria, quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante.

Dottrina e giurisprudenza unanimi hanno sempre sostenuto che la disciplina dell'

art. 14

d. l

gs. n. 472/1997

non sia applicabile nell'ambito di una procedura concorsuale e tale tesi ha trovato conferma nella Risoluzione del Ministero delle Finanze 12 luglio 1999, n. 112/E: il Ministero, su impulso del Tribunale di Lucca, infatti, si è pronunciato nel senso che la ratio e lo stesso dato normativo abbiano un significato univoco, potendo essere riferiti esclusivamente alle cessioni su base volontaria o negoziale, e non già a quelle con evidenti profili pubblicistici, quali appunto le vendite fallimentari che, come sopra argomentato, restano tali anche a seguito della riforma.

A ciò si aggiunga l'incompatibilità della preventiva escussione del debitore principale con la disciplina del fallimento, che preclude azioni esecutive in danno della massa e, soprattutto, la constatazione che la cessione di azienda nel fallimento non può configurare alcun pregiudizio per le ragioni del fisco e non può, quindi, avvenire in frode allo stesso, semmai proprio a tutela delle ragioni dei creditori, erario compreso.

La liquidazione mediante conferimento

L'

art. 105, comma

8, l

. fall

., introduce una novità assoluta nel nostro ordinamento prevedendo che il curatore possa procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione (C. Maggi, La liquidazione mediante conferimento: commento all'art. 105, ottavo comma, l. fall., in Fall., 2008, 1380), dell'azienda, di rami di essa ovvero di beni o di crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la responsabilità dell'alienante ai sensi dell'

art. 2560 c.c.

ed osservate le disposizioni inderogabili contenute nella medesima sezione.

Tale disposizione è stata definita dalla dottrina “«promozionale», suscettibile di interpretazione c.d. «creativa», con significato «nuovo» rispetto a quelli accertabili nella prospettiva tradizionale della liquidazione (C. Ferri, Liquidazione mediante conferimento in società dell'azienda, di rami di essa ovvero di beni o crediti, in Fall., 2009, 59)”: lo sforzo del legislatore, in altri termini, è stato quello di fornire al curatore il più ampio ventaglio possibile di strumenti giuridici atti ad agevolare la gestione dell'azienda al fine di salvaguardarne il valore e l'avviamento ancora esistente al momento di apertura della procedura concorsuale, in linea con l'idea che nel nuovo sistema concorsuale la liquidazione importi di regola gestione; va sottolineato, tuttavia, che nella concreta realtà operativa, anche tenuto conto delle dimensioni medie dei fallimenti, non è stato finora frequente il ricorso a tale strumento di liquidazione dell'attivo.

La liquidazione mediante conferimento può essere qualificata come “attività di gestione produttiva del patrimonio del fallito finalizzata ad una più favorevole realizzazione degli interessi patrimoniali dei creditori”: una volta effettuata l'operazione di conferimento, infatti, i creditori concorsuali non potranno più soddisfarsi sui beni dell'attivo, ormai appartenenti alla società conferitaria, ma solo sul valore ottenuto dalla vendita delle partecipazioni oppure, in alternativa e a determinate condizioni, mediante assegnazione delle partecipazioni ottenute col conferimento. Tale impostazione risponde anche allo spirito della riforma, che contempla la costituzione di veicoli societari funzionali alla soluzione della crisi di impresa, con il vantaggio dell'effetto segregativo, non solo nella materia propria del fallimento, ma anche in sede di concordato preventivo e di concordato fallimentare.

Le ragioni di una scelta di questo tipo possono risiedere nelle normali controindicazioni all'esercizio provvisorio e all'affitto, potendo essere maggiormente conveniente una prospettiva “segregativa”, e cioè la gestione separata di una massa attiva, mirando non solo alla soddisfazione del ceto creditorio ma anche alla conservazione di valori produttivi del patrimonio dell'impresa fallita.

Il conferimento di interi complessi aziendali o di beni o di crediti in società, in altri termini, in quanto strumento di gestione tipizzato sul piano sistematico, evita da un lato l'utilizzo di strumenti poco conosciuti o con discipline oggettivamente complesse, quale è ad esempio il trust, e, dall'altro lato, apre la possibilità di finanziamenti ai quali potrebbe accedere con maggiori probabilità di successo la società medesima, la quale si vedrebbe conferita un valore attivo nel proprio patrimonio, ma non le passività, se non quelle che si intendono espressamente attribuire alla società conferitaria medesima.

Sul punto, tuttavia, è opportuno sottolineare che il conferimento è atto di amministrazione del patrimonio, al pari dell'esercizio provvisorio o dell'affitto di azienda, e non attività di liquidazione in senso stretto: ciò comporta, nel caso di conferimento di beni gravati da garanzie reali, l'esclusione dell'effetto purgativo proprio della liquidazione, con applicazione della normale disciplina civilistica in materia di beni ipotecati.

Si discute, inoltre, se sia ammissibile conferire da parte del curatore denaro appartenente all'attivo fallimentare, dal momento che il dato positivo annovera fra i possibili oggetti di conferimento esclusivamente l'azienda, o suoi rami, oltre a “beni” e “crediti”: la questione è di estrema rilevanza per il notaio, dal momento che, come noto, in assenza di diversa disposizione, il conferimento “deve” farsi in denaro, sia in sede di S.p.A. che di s.r.l..

Il problema è aperto e di non immediata soluzione, dal momento che, a parere di chi scrive, la questione non è tanto quella di dibattere se nell'accezione del termine “beni” possa farsi rientrare anche il denaro, bensì quella di avvalersi di uno strumento di per sé legittimo, il conferimento, in una direzione contraria alla ratio della procedura concorsuale. E' chiaro, in altri termini, che di per sé il denaro sia un elemento conferibile e che la

legge fallimentare

accetti l'assunzione da parte della procedura del rischio di impresa: l'

art.

34 l

. fall

., tuttavia, limita in modo inequivoco l'azione del curatore in materia di investimento di somme di denaro liquido, nel senso dell'assoluta necessità della “garanzia dell'integrità del capitale”, e le azioni di una S.p.A. o le quote di una s.r.l., per loro natura, non possono dare tale garanzia.

A ciò si aggiunga che la

legge fallimentare

tollera l'assunzione del rischio di impresa con uno scopo ben preciso, e cioè quello della necessità della liquidazione, inteso come necessità di trasformare in denaro gli elementi patrimoniali dell'attivo fallimentare: sarebbe difficile sostenere, pertanto, prima ancora per ragioni di mera opportunità che di diritto, la necessità di un'esposizione al rischio di una perdita in presenza di somme di denaro immediatamente ripartibili e quindi idonee alla soddisfazione dei creditori e ci si sente di condividere, quindi, la tesi di quella dottrina che sostiene che “rispetto al denaro, già acquisito al fallimento, sull'esigenza di valorizzazione prevale quella di conservazione (come emerge anche dall'

art.

34 l

. fall

.), che non giustifica l'assunzione del rischio di subire perdite”.

Ciò nonostante, il notaio richiesto di ricevere un verbale di assemblea o un atto di costituzione di società con la previsione di un conferimento in denaro proveniente dall'attivo fallimentare difficilmente potrebbe opporre un rifiuto motivato ai sensi dell'

art.

28 l

. not

., dal momento che certamente tale atto, tanto più debitamente autorizzato, non può ritenersi “espressamente proibito dalla legge” o “manifestamente contrario al buon costume o all'ordine pubblico”.

Il conferimento, come forma di liquidazione, deve ovviamente essere inserito e previsto nel programma di liquidazione e ottenere il parere favorevole del comitato dei creditori, nonché l'autorizzazione del giudice delegato, il quale si dovrà sempre pronunciare circa l'esecuzione degli atti conformi al programma approvato. Le modalità del conferimento prevedono la necessità dell'atto pubblico e seguono la disciplina generale del codice civile, e pertanto gli artt. 2342 ss. per quanto riguarda le società per azioni e gli artt. 2464 ss. per quanto riguarda le società a responsabilità limitata, con particolare attenzione alla necessità di una relazione giurata di un esperto ai fini dell'attribuzione del valore ai singoli beni o crediti o all'azienda, salvo i casi di esclusione previsti dall'

art. 2343-

ter

c.c.

.

Estremamente delicata per il notaio, inoltre, è la fase della gestione delle partecipazioni sociali da parte degli organi fallimentari, dal momento che l'

art.

35 l

. fall

. richiede, per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione, l'autorizzazione del comitato dei creditori. I profili problematici di tale fase sono sostanzialmente tre, tutti di assoluta rilevanza dal momento che investono la sfera di legittimazione all'intervento in atto e di manifestazione del voto o del consenso: il primo è dato dal diverso ruolo attribuito dalla riforma al giudice delegato nell'impianto autorizzativo; il secondo è dato dal fatto che nella prassi molto spesso il comitato dei creditori non viene nominato; il terzo riguarda la distinzione tra atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione.

Iniziando da quest'ultimo, si può ritenere che la valutazione tra ciò che è “ordinario” e ciò che non lo è si fondi su un criterio funzionale e finalistico, nella fattispecie dato dalle finalità liquidative della procedura fallimentare, il che porta a far rientrare nell'alveo dell'ordinaria amministrazione solo gli atti volti alla conservazione dei beni e alla loro liquidazione. In stretta connessione con tale considerazione sono gli altri due profili problematici sopra citati, dal momento che, da un lato, nell'impianto della riforma il vaglio del giudice è stato limitato ad un controllo di legalità, lasciando la valutazione in ordine all'opportunità e alla convenienza delle scelte di gestione all'organo rappresentativo del ceto creditorio, e cioè il comitato dei creditori; ma, dall'altro lato, tale organo rappresentativo, come detto, molto spesso, per non dire quasi sempre, non viene nominato.

Si può dire, in conclusione, che l'autorizzazione del giudice delegato presupponga valutazioni diverse rispetto a quella del comitato dei creditori e che, quindi, non sia di per sé sufficiente ad investire anche i successivi atti di straordinaria amministrazione in presenza del comitato dei creditori; ma, in assenza di questo, ci si trova innanzi ad un bivio: o si ritiene che il giudice prenda il posto del comitato, e quindi si debba pronunciare in ogni vicenda gestoria della società, con tutte le inevitabili conseguenze in ordine ai tempi necessari per l'ottenimento delle autorizzazioni e dei provvedimenti. Oppure, con maggiore coerenza sia rispetto all'intero impianto della riforma, sia rispetto alle esigenze di celerità e snellezza che contraddistinguono ogni attività imprenditoriale, si deve ritenere che il curatore, nel momento in cui valuta conveniente percorrere la strada della liquidazione mediante conferimento, possa (e debba) richiedere al giudice delegato un'autorizzazione, per così dire, “onnicomprensiva”, tale da permettergli la più ampia libertà di movimento sia in fase di costituzione che di gestione, per tutta la durata della vita della conferitaria o, quanto meno, fino a quando il ceto creditorio non sia in grado di nominare il proprio organo rappresentativo nell'ambito della procedura.

A parere di chi scrive, pertanto, per il notaio chiamato a ricevere l'atto costitutivo o un verbale di assemblea della società conferitaria, in presenza di un provvedimento autorizzativo completo ed esaustivo, che indichi con chiarezza il potere del curatore di gestire nel modo più ampio la partecipazione o l'amministrazione della società conferitaria, sarà sufficiente solo l'autorizzazione iniziale per verificare la legittimazione del curatore ad intervenire in atto e a manifestare la propria volontà contrattuale o la propria dichiarazione di voto, senza che occorra una duplicazione abilitativa da parte dello stesso organo.

In punto di prassi, in assenza di vere applicazioni concrete dell'istituto, tuttavia, si può tentare solo una breve disamina teorica, ritenendo di straordinaria amministrazione l'esercizio del diritto di voto in assemblea straordinaria convocata per l'adozione di tutte modifiche statutarie in grado di alterare gli equilibri dell'organizzazione sociale (ad esempio in termini di mutamento dell'oggetto, di trasferimento della sede, di modifica del diritto di prelazione o di diritti particolari dei soci, di operazioni sul capitale, ecc.) o di diretta partecipazione nella stessa, come avviene ad esempio in occasione di nomina delle cariche sociali o di approvazione del bilancio di esercizio. Si potrebbero, invece, forse ritenere, con le dovute cautele, di ordinaria amministrazione le modifiche imposte dalla legge, come la riduzione di capitale per perdite oltre un terzo o la trasformazione della società in seguito alla riduzione del capitale oltre il minimo legale, ma con una necessaria precisazione: costituisce senza dubbio un atto dovuto da parte dell'organo amministrativo la convocazione di un'assemblea che deliberi sul punto, ma essendo molto diverse tra loro le possibili modalità di intervento nel caso di una situazione di crisi (si pensi all'utilizzo di una riserva piuttosto che un'altra, alla decisione appunto se aumentare a pagamento piuttosto che a trasformare o addirittura passare alla fase di liquidazione, ecc.), si dubita fortemente che anche queste decisioni non debbano passare prima al vaglio del comitato dei creditori, ove nominato.

Con il conferimento dell'azienda in una società, di norma di nuova costituzione, pertanto, si possono superare alcuni ostacoli che in genere rendono difficilmente percorribili le strade dell'esercizio provvisorio o dell'affitto di azienda: in primo luogo le conseguenze della gestione vengono confinate al veicolo societario, partecipato dal fallimento, cui viene conferito il complesso aziendale, escludendo in tal modo che l'assunzione di nuovi debiti connessi alla gestione aziendale possa pregiudicare gli interessi della massa dei creditori. In secondo luogo l'amministrazione della società veicolo può essere affidata a un organo amministrativo che rappresenti una diretta promanazione della procedura, in modo da lasciare nella sfera decisoria dei soggetti della procedura stessa la gestione della società veicolo. E, da ultimo, il conferimento del complesso aziendale in società di nuova costituzione non avendo soluzione di continuità, permette scelte di per sé più efficienti e funzionali rispetto alla conclusione di un contratto di affitto di azienda, il cui perfezionamento è subordinato al conseguimento di un accordo contrattuale con un soggetto terzo.

La società conferitaria, dunque, a favore della quale viene conferito l'attivo fallimentare e nella quale il fallimento acquista la qualità di socio, interviene nello svolgimento dell'attività di impresa quale soggetto nuovo, distinto dal debitore e dalla massa e si trova a gestire l'azienda del fallito una volta che questa è stata depurata dai debiti precedenti alla dichiarazione di fallimento; ciò comporta “l'individuazione di due diversi patrimoni destinati a due diversi gruppi di creditori”, e cioè il patrimonio sociale a garanzia dei creditori della società, e l'attivo fallimentare costituito, dopo il conferimento, dalle partecipazioni sociali, su cui potranno soddisfarsi i creditori concorsuali, con innegabile aumento della potenzialità di finanziamento dell'attività di impresa.

Un ulteriore aspetto di estremo interesse per il notaio nell'ambito della liquidazione mediante conferimento è dato dalla necessità di individuare il soggetto al quale spetta lo status di “socio” nell'ipotesi in cui l'adesione ad un contratto di società sia effettuata dagli organi della procedura fallimentare e l'oggetto del conferimento sia costituito dal patrimonio fallimentare. Il notaio richiesto di ricevere l'atto di costituzione, oppure di verbalizzare un'assemblea, infatti, ha sicuramente l'onere di individuare i soggetti legittimati ad esprimere il proprio voto e, nel caso di specie, diversi potrebbero essere i centri di imputazione di interessi meritevoli di vedersi riconosciuto tale status: si pensi, ad esempio, alla massa dei creditori, piuttosto che ai singoli creditori o allo stesso debitore fallito.

Per quanto riguarda la massa, tuttavia, si tende a non attribuire alla stessa autonoma soggettività giuridica, non potendo essa costituire un unico centro di imputazione di interessi diverso e distinto dai singoli creditori concorsuali.

Alla stessa conclusione, seppur con diverse argomentazioni, si perviene anche per quanto riguarda i singoli creditori concorsuali, nel senso che un riconoscimento automatico dello status di “socio” all'atto del conferimento comporterebbe inevitabilmente un'attribuzione di diritti propri del patrimonio fallimentare, senza il rispetto del procedimento di ripartizione e delle norme sulla collocazione dei crediti previsto dagli

artt. 110 ss. l. fall

.; da ciò deriva che i creditori possono diventare soci solo dopo l'eventuale assegnazione delle quote da effettuarsi nel rispetto delle norme concorsuali.

Si condivide, pertanto, la tesi secondo la quale la qualifica di socio non può che essere attribuita al debitore fallito, dal momento che il conferimento ha ad oggetto beni del fallito e “il conferimento deve essere letto come un atto di trasformazione di un patrimonio: si conferiscono beni e crediti in cambio di diritti patrimoniali e amministrativi nella struttura societaria. Da esso derivano mutamenti oggettivi, cioè sul contenuto del patrimonio, ma non ne possono derivare mutamenti soggettivi, sulla titolarità dello stesso”. Avendo in altre parole la dichiarazione di fallimento, quale effetto, lo spossessamento del patrimonio del fallito e non l'espropriazione, ne consegue la sostituzione di un soggetto diverso dal titolare, il curatore, nel potere di amministrazione del fallito, ma pur sempre con imputazione nel patrimonio di quest'ultimo degli effetti giuridici dell'attività svolta, esattamente come avviene nell'ipotesi di continuazione dell'attività d'impresa con l'esercizio provvisorio, nell'ambito del quale è pacifico che la qualifica di imprenditore permanga in capo al fallito e non al curatore.

I diritti inerenti alla partecipazione societaria dovranno quindi essere esercitati dal curatore, in quanto amministratore del patrimonio, in conformità alle finalità liquidatorie della procedura e nel rispetto delle norme della

legge fallimentare

, come ogni altra partecipazione in società già nella titolarità del fallito prima della dichiarazione di fallimento: sarà il curatore, in altri termini, quale organo della procedura, a dover intervenire nell'atto costitutivo o nell'assemblea della società, e sarà sempre il curatore il destinatario dell'indagine del notaio o del presidente dell'assemblea in materia di accertamento dell'identità e di legittimazione all'intervento o al voto o dei doveri di informazione.

Per quanto riguarda, infine, la fase, per così dire, satisfattiva per i creditori, il curatore può procedere innanzi tutto alla liquidazione delle partecipazioni sociali della conferitaria, sempre ovviamente mediante procedure competitive ai sensi dell'

art.

107 l

. fall

., e provvedere col ricavato al pagamento dei creditori nel rispetto del procedimento di riparto e delle cause legittime di prelazione ex

artt. 110 ss. l. fall

..

Il curatore, tuttavia, in alternativa alla liquidazione, potrebbe anche soddisfare i creditori concorsuali mediante assegnazione agli stessi delle partecipazioni sociali derivanti dal conferimento dell'attivo fallimentare, in misura proporzionale all'entità del credito vantato da ciascun socio e sulla base di un piano che assicuri il rispetto della par condicio creditorum e delle cause di prelazione.

A differenza di quanto previsto dall'

art.

124 l

. fall

. in materia di concordato fallimentare, nel quale è sufficiente il consenso della maggioranza dei creditori per vincolare l'intero ceto creditorio, però, nel caso del fallimento occorrerà il consenso dei singoli creditori, analogamente a quanto previsto dall'

art. 117, comma

4, l

. fall

., in materia di assegnazione ai creditori dei crediti di imposta non ancora riscossi.

La componente immobiliare dell'azienda

Come noto, la figura del notaio nella liquidazione dell'attivo, alla luce della nuova procedura fallimentare, è particolarmente complessa, in quanto tale professionista può avere ruoli e compiti assai diversi al variare del soggetto che ne richiede l'intervento. E, innegabilmente, la vicenda dell'azienda comprendente tra i suoi elementi beni immobili, coinvolta in una procedura fallimentare, offre una prospettiva di analisi particolarmente interessante nell'ottica riformatrice della novella in cui è insito un principio di fondo essenziale: il passaggio da un binomio squisitamente pubblicistico qual era quello curatore-giudice, ad uno di matrice fondamentalmente privatistica, quello curatore-comitato dei creditori, in linea con una evidente tendenza alla degiurisdizionalizzazione (S. Facciotti, Natura ed effetti della vendita fallimentare, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 233 ss ).

Corollario di tale principio, sul piano sistematico, è stata l'introduzione di due rilevanti novità: l'obbligo, per il curatore, di predisporre un programma di liquidazione e l'eliminazione del rinvio, per le modalità di vendita dei beni, alle norme del codice di procedura civile, sostituito con l'opposto principio di libertà delle forme.

Dall'analisi della nuova normativa, pertanto, emergono in modo evidente, da un lato, la centralità della figura del curatore fallimentare, e, dall'altro lato, l'estrema valorizzazione del principio della deformalizzazione, non essendovi regole volte a vincolare o formalizzare la liquidazione degli elementi dell'attivo in genere: il curatore, in altri termini, è assolutamente libero di ricercare percorsi liquidatori svincolati dal necessario rinvio alle regole del codice di procedura civile, pur potendo le stesse essere sfruttate per forgiare una procedura «modellata proprio sulla scorta di dette regole laddove si ritenga che ciò soddisfi, al meglio, le esigenze del fallimento».

E, sempre nell'assoluto rispetto di questo principio, il decreto correttivo aggiunge un'ulteriore ipotesi di programmazione liquidatoria, potendo il curatore, ai sensi dell'

art. 107, comma

2, l

. fall

., prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, registrati e non, ed immobili vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili. Si tratta, in questo caso, di un'ulteriore valorizzazione della figura del curatore e della sua autonomia, perché è sì vero che egli di regola è parte negoziale degli atti di liquidazione, ai sensi dell'

art. 107, comma

1, l

. fall

., ma possono esservi ipotesi nelle quali egli preferisca affidare, in base alla propria sensibilità, la vendita al giudice delegato secondo le regole del codice di rito: decisione, si badi, che rimane nella sfera insindacabile dello stesso curatore.

Con particolare riguardo alla figura del notaio, questi entra istituzionalmente nel mondo del processo con la

legge 3 agosto 1998 n. 302

, mediante la quale si prevedeva la possibilità per il giudice delegato di affidare ai notai le operazioni di vendita di beni mobili registrati ed immobili (M. Montanaro, Artt. 591

bis

c.p.c.
, 591 ter c.p.c., 173 quater disp. att. c.p.c., 197 ter disp. att. c.p.c., in AA. VV., Commentario alle riforme del processo civile, volume II: Processo di esecuzione, a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, 458 ss.). Le ragioni fondanti la scelta del legislatore erano allora, nella sostanza, analoghe a quelle che hanno più recentemente animato i fautori del nuovo sistema fallimentare: rendere maggiormente appetibili i beni sottoposti ad esecuzione ed assicurare un notevole risparmio sia in ordine ai tempi che in ordine ai costi della giustizia, con un conseguente sgravio, senza costi aggiuntivi, degli uffici giudiziari, in modo da alleggerire giudici delegati e cancellerie fallimentari da onerosi provvedimenti giudiziari a contenuto alienativo assai complessi e non propri degli organi giudiziari.

Il successo professionale del notariato in ambito endo-procedimentale è stato unanimemente riconosciuto, tanto è vero che ne è derivato un notevole miglioramento nello svolgimento delle procedure esecutive, sia in relazione alla durata delle stesse, sia soprattutto in relazione all'incremento delle vendite e alla loro fruttuosità, nonché una maggiore certezza riguardo alla circolazione dei beni. Sulla scorta di questi risultati, pertanto, si ritiene che il legislatore della riforma fallimentare abbia non solo proseguito nella propria opera di delega frazionata di competenze liquidative meglio sopra delineata, ma abbia altresì avuto l'intenzione di implementare la partecipazione dei soggetti il cui contributo pluridecennale era stato così importante.

Il riferimento

ex art. 104-

ter

, comma

3, l

. fall

. agli «altri professionisti», o quello ex art. 107 ai «soggetti specializzati», da un lato non può che ricollegarsi all'

art. 591-

bis

c.p.c.

, ma dall'altro lato non si limita a questo: l'acclarata privatizzazione delle vendite fallimentari, in altri termini, fa sì che giudice delegato e curatore possano oggi avvalersi dell'istituzione notarile sia, come in passato, sotto il profilo delle delega endo-procedimentale, sia sotto il profilo del professionista–consulente, con ruoli e funzioni molto variegate. Questo discrimen presenta alcuni aspetti di novità, ma va tenuto molto ben presente, perché il collocare la funzione notarile all'interno o meno di una delega processuale in senso tecnico comporta alcune rilevanti conseguenze, nonché responsabilità ed impegni molto diversi tra loro.

Sotto questo profilo la cessione fallimentare di azienda con una componente immobiliare sembra costituire un esempio paradigmatico, utile ad evidenziare e ad esaltare nel modo più chiaro la poliedricità del ruolo del notaio: nell'ipotesi normale in cui la liquidazione dei beni oggetto della procedura fallimentare rimanga sostanzialmente affidata al curatore, infatti, il notaio sarà chiamato a redigere l'atto di cessione, a seguito di aggiudicazione tramite vendita competitiva, quale notaio delle parti, scelto dalle parti stesse quale professionista di fiducia, senza alcun ruolo endo-procedimentale ma nella sua più pura funzione di pubblico ufficiale rogante. Ciò comporterà la stipula di un atto negoziale, e non di un provvedimento giudiziario, su base coattiva, mediante il quale viene trasferito al soggetto legittimato in base al verbale di aggiudicazione quanto pianificato col programma di liquidazione e determinato con la procedura di vendita competitiva, in perfetta coerenza con la scelta legislativa volta alla cosiddetta privatizzazione della procedura fallimentare.

Ma, allo stesso tempo, il notaio si troverà alle prese con la fase immediatamente successiva al trasferimento del bene avvenuto al termine di una procedura competitiva, quella cioè di purgazione dei gravami dei beni immobili e mobili registrati: purgazione che, ante riforma o nella vendita delegata, era ed è ordinata dal giudice nella stessa sede del decreto di trasferimento, mentre nel caso di fallimento avviene mediante ordine del giudice delegato, ai sensi dell'

art.

108 l

. fall

., con decreto ad hoc, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo. Questa discrasia temporale tra vendita del bene oggetto della procedura e cancellazione dei gravami, come ovvio, ha comportato e comporta tuttora notevoli problemi di commerciabilità del bene medesimo, con un altrettanto evidente pregiudizio per la procedura medesima e per tutti i soggetti coinvolti.

Ora, è chiaro che se si interpreta l'

art. 108, comma

2, l

. fall

. in senso strettamente letterale, il decreto di cancellazione dei gravami, a seguito di vendita coattiva, non può che essere un atto assolutamente autonomo rispetto all'atto di vendita (F. Iozzo, La liquidazione dell'attivo, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Zanichelli, 2008, 279): in tal caso la vendita medesima non potrebbe che effettuarsi con i gravami ancora esistenti sul bene, essendo l'atto purgativo necessariamente successivo alla cessione.

Se, invece, si interpreta la norma in esame in senso più teleologico che letterale, e conseguentemente il termine «vendita» non come compimento dell'atto, ma come espletamento della procedura di aggiudicazione, si potrebbe ritenere che la purgazione dei gravami debba avvenire a seguito dell'intero pagamento del prezzo una volta espletata la gara tra gli offerenti: sarebbe questo, in altri termini, il momento nel quale la procedura può ritenersi soddisfatta e l'aggiudicazione priva di rischi. Questa lettura permetterebbe, pertanto, l'emissione del decreto di purgazione immediatamente dopo l'integrale pagamento del prezzo e, conseguentemente, il notaio rogante l'atto di cessione dell'azienda, sempre quale professionista e non quale delegato, potrebbe tranquillamente chiedere nella stessa sede la trascrizione del proprio atto e la completa cancellazione dei gravami esistenti, eliminando qualsiasi dannosa cesura temporale tra l'una e l'altra.

In alternativa, nel caso in cui si ritenga la tesi appena esposta non condivisibile, sempre al fine di evitare il trasferimento del bene ancora gravato dalle pregiudizievoli che hanno portato alla vendita coattiva, si potrebbe prevedere la possibilità, previa richiesta da parte del curatore al giudice delegato, di far concludere la fase di trasferimento dei beni oggetto di procedure competitive con un decreto di trasferimento anche per le ipotesi nelle quali il curatore abbia provveduto alla vendita dei beni con modalità competitive non esattamente rispondenti a quanto disposto dal codice di rito, ovvero non abbia utilizzato la vendita con o senza incanto: soluzione, questa, adottata, tra gli altri, dal Tribunale di Bologna.

Oppure, ancora, in coerenza con la ratio della riforma, secondo la quale la procedura competitiva costituisce un modello aperto tale da consentire al curatore di utilizzare quale atto di trasferimento un provvedimento giudiziario anziché un atto negoziale, sul presupposto della comune natura coattiva, si potrebbe ritenere che il curatore possa richiedere l'intervento del notaio, previa approvazione del comitato dei creditori e dello stesso giudice delegato, prevedendo già nel programma di liquidazione che la liquidazione dei beni del fallito si concluda con l'emissione di un decreto di trasferimento a firma del giudice delegato, ma redatto dal notaio nominato ai sensi dell'

art. 104-

ter

, comma

3, l

. fall

..

Qualora nulla si dica nel programma di liquidazione, invece, il giudice delegato in fase di approvazione del programma di liquidazione o dei singoli atti della fase di liquidazione, può delegare il notaio ai sensi degli

artt. 107, comma

2, l

. fall

. e 591-bis c.p.c. alla redazione del solo decreto di trasferimento e alla sua registrazione e trascrizione, in modo tale di cancellare contestualmente anche in questo caso ogni gravame esistente sul bene trasferito, al pari di quanto avviene nelle esecuzioni immobiliari con la delega al notaio della sola redazione del decreto di trasferimento

ex art. 591-

bis

c.p.c.

.

Tutti gli aspetti problematici sopra evidenziati, infine, potrebbero essere risolti alla radice qualora si ritenesse percorribile la soluzione del notaio quale vero e proprio “delegato al fallimento”, leggendo l'

art. 104-

ter

, comma 3, e 107, comma

2, l

. fall

., in strettissima correlazione con l'

art. 591-

bis

c.p.c.

: se “l'affidamento” di alcune incombenze previsto dalla prima norma citata significa processualmente conferire queste incombenze, allora l'art. 591-bis diventa l'unica norma di dettaglio in materia di trasferimento di competenze giudiziarie, e non sarebbe, pertanto, del tutto peregrino pensare anche per il fallimento ad una vera e propria delega di poteri e funzioni.

Non è questa la sede per un'analisi in ordine alla natura di tale “delega” al notaio, essendo questa oggetto di dibattito sin dall'entrata in vigore della riforma (L. Abete, nota a

Cass., sez I, ord. 21 gennaio 2011 n. 1475

, Il notaio e gli altri incaricati in sede fallimentare. Il compenso a costoro spettante e la correlazione con il compenso dovuto al curatore, in Fall., 2011, 844; C. Trentini, nota a

Cass., sez I, 11 maggio 2007 n. 10925

, Controllo sugli atti del professionista delegato alla vendita del fallimento, in Fall., 2007, 1163): qui basti dire che il richiamo alle norme processuali dell'

art. 107

, comma

2, l

. fall

. (che, come noto, dispone che il curatore possa prevedere nel programma di liquidazione che le vendite vengano effettuate dal giudice delegato sulla base delle disposizioni del codice di rito in quanto compatibili) fa ritenere da un lato che il legislatore del 2006 e soprattutto quello del 2007 hanno dato per presupposta una naturale interconnessione tra

legge fallimentare

e norme processuali, che vivono oggi un rapporto quasi simbiotico; e, dall'altro lato, la delega “integrale” al notaio risponderebbe in pieno all'interesse della procedura, che vedrebbe affidata al soggetto probabilmente più qualificato in materia di diritto immobiliare un'importante fase della liquidazione, con l'obiettivo di rendere tale fase la più efficiente e rapida possibile e di sgravare sia il giudice delegato sia il curatore da compiti assai onerosi che rischierebbero di svuotare in radice i propositi del legislatore.

Può dirsi, in definitiva, che l'

art. 591-

bis

c.p.c.

non sia più una semplice norma di dettaglio, ma un modello delle attività delegabili ai soggetti previsti nella norma stessa e forse, più genericamente, dallo stesso ordinamento: una sorta, in altri termini, di norma quadro, con il solo limite della compatibilità col nostro ordinamento processuale, che permette ogni tipo di delega, anche quella delle operazioni di vendita di un complesso aziendale

ex art.

105 l

. fall

.

Un ultimo aspetto rilevante in relazione alla componente immobiliare dell'azienda lo si trova in due recenti norme esterne alla materia del fallimento, ma fondamentali nell'ambito delle transazioni immobiliari.

La prima riguarda propriamente il catasto ed è contenuta nell'

art. 19 D.L. 31 maggio 2010, n. 78

, convertito con modificazioni in

l

. 30 luglio 2010, n. 122

: il comma 14 del suddetto articolo aggiunge all'

art. 29 della legge n. 52 del 27 febbraio 1985

il comma 1-bis col quale viene disposto che “Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari(

M. Leo – A. Lomonaco – G. Monteleone – A. Ruotolo, La legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione del d.l. 30 maggio 2010 n. 78 in materia di circolazione immobiliare – Novità e aspetti controversi (Circolare CNN del 6 dicembre 2010)

, in Studi e Materiali CNN, Milano, 2011, 17 ss.).

La ratio dell'intervento legislativo è di carattere tributario, mira alla realizzazione dell'anagrafe tributaria integrata e alla lotta all'evasione e all'elusione fiscale e comporta che tutti gli “atti pubblici”

e le

“scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti”, e quindi anche cessioni di azienda aventi una componente immobiliare, debbano contenere

a pena di nullità

l'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto, e la dichiarazione, resa in atto dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale.

Data la sanzione della nullità del trasferimento, è evidente la rilevanza di tale normativa per il notaio; si discute, tuttavia, se essa sia applicabile all'ipotesi di vendita forzata in sede di espropriazione individuale

e alle altre vendite effettuate in ambito giudiziale e per le quali la vendita forzata in sede esecutiva funge da modello di riferimento, tra le quali si annoverano la vendita del bene immobile in sede fallimentare

ex art. 107, comma

2, l

. fall

., attuata dal Giudice Delegato secondo le disposizioni del c.p.c. in quanto compatibili

, ovvero la vendita del bene immobile, sempre in sede fallimentare, ma a seguito di esperimento di una procedura competitiva

ex art. 107, comma

1, l

. fall

..

La risposta tende ad essere decisamente negativa nell'ambito della vendita forzata in sede di espropriazione individuale ed in quello delle

vendite giudiziali attuate mediante esplicito rinvio alle disposizione del c.p.c., ossia di quelle vendite attuate a mezzo di decreto di trasferimento e secondo modalità che rinviano alla vendita in sede esecutiva (E. Gasbarrini, Vendita forzata e nuova normativa in materia di conformità dei dati catastali, in Studi e Materiali CNN, Milano, 2011, 451 ss ).

E' più discusso, invece, se la nuova disciplina sia applicabile o meno alla vendita del bene immobile in sede fallimentare effettuata ai sensi dell'art. 107, primo comma, ovvero alla vendita realizzata dal curatore tramite procedure competitive, nella quale

l'atto traslativo finale e perfezionativo della vendita rivesta la forma, non di decreto di trasferimento, bensì di atto notarile stipulato tra il curatore fallimentare e l'acquirente individuato a mezzo di procedure competitive, dal momento che la forma dell'atto è esattamente quella prevista dalla disposizione (atto pubblico o scrittura privata autenticata con l'intervento di un notaio) ed è presente il notaio, competente alla verifica dell'intestazione di cui all'ultimo periodo del comma 1-bis e garante della corretta e uniforme applicazione della disposizione, come previsto dalla legge.

Secondo parte della dottrina le procedure competitive di ultima generazione realizzerebbero una nuova forma di vendita fallimentare secondo schemi giuridici privatistici, tali da ricondurla nell'ambito di una vendita di diritto comune, fuori da uno schema processuale giurisdizionale: in tal caso l'ufficio esecutivo dovrebbe sempre verificare la conformità catastale e procedere ad eventuali regolarizzazioni dei beni, prima di procedere alla loro vendita, e la stipula negoziale finale sarebbe soggetta alla disciplina tipica di un atto negoziale privato (quindi, anche al comma 1-bis dell'

art.

29 L

. 52 del 1985

) (S. Facciotti, Natura ed effetti della vendita fallimentare, in Nuova giur. Civ. comm., 2010, 236; sulla stessa posizione si vedano G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 429 ss., A. Donvito, Le vendite immobiliari nel fallimento, in Giur. It., 2007, 777 ss., M. Montanaro, Il sistema riformato e corretto delle “vendite” fallimentari, in Riv. es. forz., 2010, 96 ss.).

La tesi opposta, decisamente prevalente, sostiene invece l'inapplicabilità del comma 1-bis alle vendite fallimentari, anche se attuate a mezzo di stipula notarile, in adesione alla concezione tradizionale e assolutamente maggioritaria secondo cui la vendita fallimentare è sempre stata e resta ancor oggi una vendita coattiva, attuata in ambito giurisdizionale e funzionale all'attuazione dei diritti dei creditori del fallito, mediante apprensione e liquidazione del di lui patrimonio: l'eventuale atto notarile perfezionativo della vendita si colloca, pur sempre, come atto finale di una sequenza procedimentale di natura giudiziale e, secondo il consolidato orientamento della più recente giurisprudenza costituzionale, la norma di rango tributario non può, a pena di sua incostituzionalità per violazione dell'

art. 24 Cost.

, impedire od ostacolare l'attuazione giudiziale di un diritto perfetto sul piano sostanziale, tanto più nel caso di procedura concorsuale che è funzionale alla protezione e soddisfazione del sistema creditizio in generale (F. Fimmanò, La liquidazione dell'attivo fallimentare nel correttivo della riforma, in Dir. Fall. e delle soc. comm., 2007, 865, P. Liccardo – G. Federico, Commento all'art. 108, in Il nuovo diritto fallimentare, Torino, 2007, 1805).

A ciò si aggiunga che non è del tutto sicuro che il curatore possa sostituirsi al soggetto fallito nell'adempimento di obblighi e obbligazioni di carattere tributario, in quanto secondo parte della dottrina il curatore non potrebbe sostituire né rappresentare l'intestatario del bene nella totalità della sua sfera patrimoniale, ma solo esercitare un ufficio funzionale a specifici compiti che sono espressamente previsti.

In conclusione, dunque, in linea con la necessaria prudenza che deve caratterizzare l'operato del curatore e con la necessità di rispettare il principio di trasparenza e di tutela dell'affidamento ingenerato nei terzi dalla vendita fallimentare, si ritiene senz'altro opportuno che il curatore verifichi sempre, già in occasione della stima del bene, la conformità dei dati e delle planimetrie depositate in catasto rispetto allo stato di fatto, per una corretta determinazione del prezzo e nell'ottica di una completa informazione agli interessati delle condizioni di acquisto e, n

el caso di difformità tra stato di fatto e dati identificativi o planimetrie catastali, l'ufficio esecutivo proceda a regolarizzare la situazione catastale o ne dia avvertenza sia in perizia che nelle condizioni di vendita.

Laddove, invece, la procedura si sia comunque svolta in assenza delle informazioni richieste dalla disciplina e, ad aggiudicazione definita, si sia pervenuti ad incaricare un notaio della stipula dell'atto traslativo finale della vendita, il notaio incaricato dell'atto dovrà segnalare la questione al curatore e rendere edotto l'acquirente: data la sanzione di nullità prevista dalla norma, è senz'altro opportuno procedere ad una regolarizzazione della situazione prima della stipula, ponendone eventualmente i costi a carico dell'acquirente, in modo tale da evitare qualunque dubbio circa la validità dell'atto e l'efficacia del trasferimento.

La seconda fattispecie, altrettanto rilevante, riguarda invece la sfera della certificazione energetica, la cui norma di riferimento è costituita dal

D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192

, emanato in attuazione della

direttiva 2002/91/CE

relativa al rendimento energetico nell'edilizia, recentemente modificato dal

D.Lgs. 3 marzo 2011, n.

28

, a sua volta emanato in attuazione della

direttiva comunitaria 2009/28/CE

sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili. La certificazione energetica si inserisce all'interno di un quadro normativo alquanto articolato, che è ulteriormente complicato dal fatto che è stato demandato alle singole Regioni il compito di darne attuazione in concreto: il risultato è stato quello di creare un dedalo normativo di difficile lettura ed intelligibilità, dovendo l'operatore confrontarsi con discipline sempre diverse a seconda del luogo in cui concretamente sarà dislocata l'unità immobiliare oggetto del contratto (Valeriani, Certificazione energetica degli edifici. Il comma 2-ter dell'

art. 6 del D. Lgs. 19 agosto 2005, n. 192,

in Studi e Materiali CNN, Milano, 2012, 35 ss.).

La questione è stata ampiamente affrontata in occasione della prima parte del presente lavoro e alla stessa si rinvia per quanto riguarda gli obblighi di dotazione, di informazione e di consegna della documentazione.

Con particolare riferimento alla normativa nazionale, non si dubita che le disposizioni in materia di certificazione energetica relative alla cessione a titolo oneroso di immobili trovino applicazione anche nel caso di cessione di azienda che presenti appunto una componente immobiliare.

Per quanto riguarda la normativa regionale, invece, non è possibile riportare un quadro complessivo delle singole legislazioni regionali ma si può affermare in linea generale che le sanzioni previste per le ipotesi di mancata allegazione o dotazione sono più pesanti rispetto alle analoghe sanzioni previste nell'ipotesi della locazione.

Come già evidenziato nella prima parte del presente lavoro, gli esempi più significativi sono costituiti dalla normativa della Regione Piemonte, che con la l. reg. 28 maggio 2007, n. 13, ha previsto a carico del cedente, che non renda disponibile al momento della stipula del contratto di vendita l'attestato di certificazione energetica, una sanzione variabile a seconda della natura di privato o di impresa del cedente e graduata sulla base della superficie utile dell'edificio; e quello della Regione Lombardia, che per la stessa ipotesi prevede, ai sensi della

l. reg. 11 dicembre 2006, n. 24

, alla quale è stata data attuazione con la D.G.R. 26 giugno 2007, n. 8/5018, sanzioni altrettanto pesanti.

Valgono, tuttavia, anche in questa sede considerazioni analoghe a quelle fatte in tema di conformità catastale, probabilmente con argomenti ancora più forti a sostegno della non applicabilità della normativa in esame alle ipotesi di vendite fallimentari (E. Gasbarrini, Certificazione energetica ed espropriazione forzata, in Studi e Materiali CNN, Milano, 2012) e con l'ulteriore avvertenza che, sotto il profilo delle sanzioni, la conseguenza del mancato rispetto della normativa in materia di certificazione energetica non sarà, pacificamente, l'invalidità o l'inefficacia del contratto, essendo stata abrogata la sanzione della nullità precedentemente prevista.

Nulla vieta, però, che, per ragioni prudenziali, al fine di sgombrare il campo da ogni eventuale richiesta di sanzioni da parte dei competenti organi regionali, il curatore prima e il notaio poi chiedano la predisposizione e la produzione dell'attestato di certificazione energetica prima dell'atto di trasferimento, tenuto conto dei costi non particolarmente elevati per il rilascio dello stesso.

Il regime fiscale

Come già rilevato in materia di affitto dell'azienda, il fatto che il contratto di cessione sia posto in essere in sede di procedure concorsuali, di regola, non comporta particolari difformità rispetto all'ordinario regime di imposizione fiscale e le poche eccezioni si trovano comunque contenute nella stessa normativa fiscale.

Il notaio, pertanto, in quanto responsabile di imposta, dovrà accertarsi che il trasferimento oggetto di tassazione costituisca effettivamente una cessione di azienda e non una cessione di singoli beni aziendali, in considerazione delle diverse imposte applicabili e, allo stesso modo, prestare estrema attenzione alle cessioni di azienda comprendenti al loro interno beni immobili.

Quanto al primo aspetto, infatti, la cessione di azienda o di ramo di azienda esistente nel territorio dello Stato costituisce operazione rilevante ai fini dell'imposta di registro ai sensi degli

artt. 2

e

3, comma 1, lett. b),

d.p.r

. n. 131/1986

(TUR) e dell'allegata tariffa, parte I, artt. 1 e 2; e, ai sensi dell'

art. 2, comma 3, lett. b),

d.p.r.

n. 633/1972

, non sono considerate cessioni di beni ai fini IVA le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di aziende.

Il trasferimento di azienda, pertanto, non rappresentando un'operazione rilevante ai fini IVA, sarà soggetto ad imposta di registro in misura proporzionale anche nel caso in cui il soggetto cedente sia un soggetto passivo IVA.

Con particolare riguardo alla corretta qualificazione del negozio di trasferimento come cessione di azienda, difficilmente tale questione si porrà nell'ambito di una procedura concorsuale: sarà importante, tuttavia, alla luce delle recenti oscillazioni della giurisprudenza tributaria, che il curatore e il notaio redigano il contratto in modo tale da non lasciare spazio alcuno all'interpretazione, facendo emergere chiaramente l'organizzazione data al complesso dei beni oggetto del trasferimento (M. Basilavecchia, M.P. Nastri, V. Pappa Monteforte, I trasferimenti aziendali: questioni aperte, in Studi e Materiali CNN, Milano, 2010).

In relazione al momento in cui sorge l'obbligo di registrazione, la cessione di azienda è soggetta a registrazione in termine fisso, entro 20 giorni dalla data dell'atto se è formato in Italia, entro 60 giorni se l'atto è formato all'estero, ed entro 30 giorni se l'atto è ricevuto dal notaio; in quest'ultimo caso l'obbligo di registrazione viene assolto dal notaio stesso in via telematica, e questa sarà la situazione ordinaria stante la necessità della forma autentica dell'atto ai fini della pubblicità presso il registro delle imprese.

Quanto alla base imponibile, la cessione di azienda, in base al principio di alternatività tra IVA e registro, è soggetta all'imposta proporzionale del 3% sul valore dell'azienda, ad eccezione del valore degli immobili, che saranno assoggettati alla tassazione secondo il valore venale in comune commercio. La norma di riferimento in materia di base imponibile è data dall'art. 51 TUR, il quale dispone in linea generale che per valore del bene o del diritto si assume il valore dichiarato dalle parti nell'atto o, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito, e, con specifico riferimento agli atti che hanno per oggetto le aziende, al comma 4, che il valore dichiarato dalle parti è controllato dall'Ufficio con riferimento al valore complessivo delle attività, a prescindere dal valore contabile e compreso il valore di avviamento, che non risulta dalle scritture contabili, detratte le passività risultanti dalle stesse scritture ad eccezione di quelle che l'alienante si sia obbligato ad estinguere o di quelle accollate all'acquirente, che costituiscono corrispettivo della cessione (Cass., sez. trib., 30 luglio 2008 n. 20691).

In sostanza, la base imponibile dell'imposta di registro in caso di cessione di azienda è rappresentata dal valore più alto tra il corrispettivo dichiarato, il corrispettivo pattuito in concreto e il valore venale in comune commercio dell'azienda trasferita, così come determinato ai sensi dell'art. 51, comma 4, TUR: l'Ufficio, in altri termini, salvo quanto previsto dall'art. 44 TUR, in relazione agli atti aventi per oggetto la cessione di azienda, potrà sempre esplicare un giudizio di congruità in ordine al valore dichiarato dalle parti ed eventualmente procedere alla rettifica di tale valore, se lo ritenga inferiore al valore venale in comune commercio.

Ai fini della determinazione della base imponibile, inoltre, in mancanza di precise pattuizioni in relazione ai singoli beni inclusi nella cessione, il trasferimento si considera comprensivo di tutti gli elementi facenti parte dell'azienda senza necessità di specificazioni nell'atto di trasferimento: in tal caso, al fine di evitare l'applicazione dell'art. 23, comma 1, TUR, sarà opportuno indicare la base imponibile dei beni immobili, dell'avviamento e degli altri beni, deducendo dal valore dei singoli beni, ai sensi dello stesso art. 23, comma 4, TUR, in modo proporzionale, le passività.

La questione posta dall'art. 23 citato è estremamente rilevante nel caso di complesso aziendale che comprenda sia beni mobili che beni immobili: su tutta la componente mobiliare, incluso l'avviamento, infatti, l'aliquota di imposta applicabile è di regola pari al 3%, mentre le aliquote di imposta applicabili alla componente immobiliare sono articolate in funzione della natura dei beni e, in genere, più elevate.

Una fondamentale eccezione all'ordinario criterio di determinazione della base imponibile è data dall'art. 44 TUR, il quale dispone che per la vendita di beni mobili e immobili fatta in sede di espropriazione forzata ovvero all'asta pubblica e per i contratti stipulati o aggiudicati in seguito a pubblico incanto la base imponibile è costituita dal prezzo di aggiudicazione, diminuito, nell'ipotesi prevista dall'

art. 587 c.p.c.

, della parte già assoggettata ad imposta: in queste fattispecie, in altre parole, viene inibito all'Amministrazione finanziaria il potere di accertamento della congruità del valore dichiarato in atto rispetto al valore venale in comune commercio dell'azienda, stabilendo una presunzione assoluta di coincidenza del valore venale in comune commercio con il prezzo di aggiudicazione della stessa, data la non contestabilità in ordine all'autenticità del prezzo pagato e la sua presumibile corrispondenza al prezzo di mercato, alla luce dell'obiettivo di fondo della procedura, e cioè la realizzazione del massimo ricavo possibile.

A rigore, l'art. 44 TUR fa testuale riferimento alla “vendita di beni mobili e immobili fatta in sede di espropriazione forzata”, senza contemplare espressamente il caso della cessione di azienda, ma è assolutamente prevalente in dottrina la tesi della sua applicabilità anche alla fattispecie in esame, quanto meno riguardo alla procedura concorsuale del fallimento: argomentando diversamente, infatti, si ricadrebbe nel paradosso per il quale l'accertamento sarebbe precluso in relazione ai singoli beni, mentre potrebbe essere esperito nell'ipotesi in cui gli stessi beni appartengono ad un complesso funzionalmente collegato per l'attività di impresa, quale è un'azienda.

Tale posizione, tuttavia, non è condivisa dall'Amministrazione finanziaria: la circolare n. 54/E dell'11 ottobre 2007, in materia di applicabilità dell'art. 44 TUR all'ipotesi di cessione di azienda posta in essere nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi disciplinata dal

d.l

gs. n. 270/1999

(c.d. Prodi–bis), rifacendosi alla giurisprudenza della Suprema Corte, ha affermato che la determinazione della base imponibile in sede di procedura concorsuale dipende dalle modalità adottate per la vendita; e, dal momento che l'art. 44 TUR conterrebbe un'elencazione tassativa, non suscettibile di applicazione analogica, solo in caso di vendita con o senza incanto, ma pur sempre nelle forme disciplinate dagli

artt. 570 ss. c.p.c.

, la base imponibile della cessione sarà rappresentata dal prezzo di aggiudicazione, restando preclusa la possibilità di accertamento del maggior valore. Se, al contrario, la vendita dell'azienda avviene con una diversa modalità, ma non secondo gli schemi del codice di rito (come accade di regola post riforma), la base imponibile ai fini dell'imposta di registro andrà accertata secondo le regole ordinarie, e cioè con riferimento al valore venale in comune commercio dei beni che compongono l'azienda.

Nel caso di liquidazione mediante conferimento, invece, qualora oggetto del conferimento medesimo sia un'azienda o un suo ramo, la costituzione e l'aumento del capitale sociale effettuati con tali modalità sconteranno l'imposta di registro in misura fissa di euro 168,00 ai sensi dell'art. 4, lett. a), n. 3, Tariffa, Parte I, TUR.

Resta infine l'ipotesi dell'azienda comprendente al suo interno beni immobili: fermo restando quanto sopra indicato con riferimento all'art. 23 TUR, la componente immobiliare dell'azienda è altresì soggetta alle imposte ipotecaria e catastale in tutti i casi in cui la cessione importi trasferimento della proprietà di beni immobili o costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sugli stessi.

La normativa di riferimento è data dal

d.l

gs. n. 347/1990, che, all'art. 2,

comma 1, e all'art.

10,

comma 1, commisura tali imposte alla base imponibile determinata ai fini dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni e donazioni. In base al dato positivo, i criteri applicabili risultano essere due, e cioè il valore di mercato del bene immobile in sé, senza imputazione alcuna di passività, oppure il valore medesimo depurato delle passività in proporzione del valore della componente immobiliare.

Il primo è il criterio seguito dall'Amministrazione finanziaria, la quale, nonostante il richiamo legislativo alla base imponibile determinata ai fini dell'imposta di registro, ha costantemente affermato l'autonomia impositiva delle imposte ipotecaria e catastale rispetto all'imposta di registro, sulla base del diverso presupposto delle prime, rappresentato dalle formalità di trascrizione e voltura, miranti a rendere certo il passaggio di proprietà di un bene a tutela della pubblica fede, e non dal trasferimento di ricchezza che giustifica l'imposta di registro. Il richiamo contenuto negli

artt. 2

e

10

d.l

gs. n. 347/1990

, in altri termini, andrebbe interpretato nel senso di escludere che ad uno stesso immobile possa essere attribuita una valutazione diversa ai fini delle tre imposte: la base imponibile delle imposte ipotecaria e catastale, pertanto, andrebbe determinata facendo riferimento alla disciplina “ordinaria” dell'imposta di registro applicabile all'immobile in sé e non secondo la disciplina “speciale” di tale imposta applicabile all'immobile quale componente dell'azienda ceduta, con riguardo dunque al valore venale in comune commercio al lordo di eventuali passività.

Parte della dottrina, specie di matrice notarile, tuttavia, non condivide la posizione dell'Amministrazione finanziaria, sul presupposto che, argomentando in questo modo, si svuoterebbe di significato l'art. 23, ultimo comma, TUR, in forza del quale nelle cessioni di aziende o di suoi rami, ai fini dell'applicazione delle diverse aliquote, le passività si imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione al loro rispettivo valore: “che uno stesso fatto (es. trasferimento di azienda) debba considerarsi espressione di una diversa capacità contributiva ai fini dell'imposta di registro o di successione e donazione (valore netto degli immobili ricompresi) ed ai fini dell'imposta di trascrizione e di voltura catastale (valore lordo degli immobili stessi) è in contrasto con i principi informatori del sistema tributario e di dubbi costituzionalità”.

Quanto alle aliquote, le imposte ipotecaria e catastale sono dovute rispettivamente nella misura del 2% e dell'1%: con riferimento alla prima, in particolare, l'aliquota del 2% non varia neppure a seguito delle novità recate dall'

art. 35, comma 10

bis

,

d.l.

n. 223/2006

, convertito con modifiche dalla

l

. n. 248/2006

, che ha innalzato l'aliquota della suddetta imposta dal 2% al 3% per l'ipotesi di trasferimento di fabbricati strumentali per natura, anche se assoggettati ad IVA. Tale disposizione, in altre parole, si riferisce comunque ad atti rientranti nell'ambito di applicazione dell'IVA e, pertanto, l'ipotesi di una cessione di azienda comprendente beni immobili è un'operazione sempre fuori campo IVA, con conseguente inapplicabilità della novella introdotta dal

d.l

. n. 223/2006

.

Nel caso, infine, di liquidazione mediante conferimento di un'azienda avente al proprio interno beni immobili, come già visto per l'imposta di registro, anche le imposte ipotecaria e catastale si applicano nella misura fissa di euro 168,00.

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