Una procedura per gli accordi in rimedio del sovraindebitamento

27 Febbraio 2012

Al fine di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento, il nuovo Governo aveva disposto d'urgenza un articolato strumento, prendendo ampia ispirazione da una proposta di legge approvata dal Senato e in discussione alla Camera (AC n. 2364). Nel corso parlamentare, il decreto ha dato impulso all'approvazione della proposta di legge nell'ultima versione: il capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3, intitolata alle“disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento”, è infatti dedicato al “procedimento di composizione delle crisi da sovraindebitamento”.
Premessa. Una finalità trasparente perseguita attraverso un opaco strumento?

La prima norma della legge dichiara le finalità: per porre rimedio alle situazioni di (crisi da) sovraindebitamento, è attribuita al debitore la facoltà di concludere un accordo con i creditori secondo una procedura di composizione della crisi disciplinata di seguito (cfr. art. 6, comma 1).

La norma è scritta dietro la lodevole preoccupazione di fare chiarezza; tuttavia, mentre da un lato sottolinea una trasparente finalità dell'accordo tra debitore insolvente e suoi creditori (rimediare alle situazioni da sovraindebitamento), dall'altro suscita dubbi non marginali circa lo strumento adoperato; il quale scompagina qualche familiarità del pensiero, anche - e direi soprattutto - per il carattere di novità che esprime.

Vorrei allora dedicare queste pagine a una breve messa a punto delle principali (e più evidenti) questioni di inquadramento generale che il nostro istituto può suscitare. Benché si tratti di un lavoro alquanto noioso, esso è comunque logicamente preliminare a qualunque altro: perché nessuna esegesi e nessuna dogmatica possono svolgersi con reale successo su aspetti di dettaglio di una complessiva disciplina di cui non appare sufficientemente chiara e distinta la concezione.

Sotto questo punto di vista, un guadagno che potrebbe conseguirsi è di individuare e distinguere, laddove non ravvisiamo chiarezza, l'oscurità dipendente dall'oggetto del nostro pensiero da quella che, in realtà assente da esso, potrebbe affliggere il nostro pensare (Secondo l'insegnamento di PIERCE, Del modo di chiarire le nostre idee [1878], in Id., Scritti filosofici, trad. it., Milano, 1996, 166).

Due concetti sufficientemente chiari e distinti: il sovraindebitamento e il debitore

L'espressione “disposizioni in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento” equivale all'altra, più semplice, di “disposizioni per la composizione delle situazioni di sovraindebitamento”.

Se infatti il riferimento alle “crisi” si limita agli aspetti economici escludendo quelli meramente emozionali, la conclusione è difficilmente contestabile. Sotto il profilo economico, i termini di “crisi” e di “sovraindebitamento” tendono ad occupare un'area comune, ricoperta nel mondo giuridico dal termine maggiormente preciso di “insolvenza”. A tal proposito, può essere utile ricordare che nella letteratura germanica (alle prese con una

legge fallimentare

estesa al debitore civile) si ha cura di precisare che il termine ‘insolvenza' può assumere due significati: indicando l'incapacità di pagare (Zahlungsunfähigkeit) se riferito alla persona del debitore; e il sovraindebitamento (überschuldung) se riferito al patrimonio (Cfr. HÄSEMEYER, Insolvenzrecht, Köln, München, 2007, 5).

Circa il soggetto, esso è identificato dalla legge con il termine “debitore”; si precisa: non fallibile (art. 7, comma 2). Oggetto di disciplina si mostrano essere pertanto tutte le situazioni di insolvenza sottratte alla disciplina concorsuale: in primo luogo, e indubbiamente, l'insolvenza del consumatore e più in generale del debitore civile; ma, e immediatamente dopo, l'insolvenza dell'imprenditore escluso dalle procedure concorsuali (del resto, l'art. 9, comma 2, prende testualmente in considerazione “il debitore che svolge attività d'impresa”).

La legge si preoccupa dunque di un attore sociale già indagato dalla letteratura economica, sociologica e giuridica - il debitore civile “sovraindebitato” - e arricchisce l'insieme introducendovi accanto al consumatore determinate categorie di operatori economici, individuate con il riferimento al requisito negativo della sottrazione alle procedure concorsuali. In tal modo colma parte del rilevante vuoto esistente nel panorama interno delle discipline sulla crisi d'impresa, nel quale si rinvengono procedure di insolvenza soltanto per una precisa categoria di operatori economici: gli imprenditori alla guida di imprese commerciali di dimensioni non piccole. Per la nostra procedura anche i consumatori, gli imprenditori commerciali di modeste dimensioni, gli imprenditori non commerciali e gli operatori economici non imprenditoriali (come i professionisti) possono fruire insieme al consumatore di una procedura di insolvenza, nuova di zecca.

Un altro concetto sufficientemente chiaro e distinto: l'accordo

Il rimedio offerto è l'accordo tra il sovraindebitato e i suoi creditori; funzione di detto accordo è, infatti, la risoluzione del problema costituito dal sovraindebitamento.

Fin qui, la novità potrebbe apparire modesta, soprattutto riflettendo che contratti del genere sono ampiamente ammissibili e anche copiosamente praticati sin dal diritto classico. Nella disciplina generale dei contratti, mentre gli

articoli 1321

e

1322 c.c.

non pongono limiti all'esercizio dell'autonomia privata svolto nella preoccupazione di gestire situazioni di insolvenza, quest'ultima trova considerazione quale fattore di rischio debitamente considerato dalle norme dedicate, ma non determinante in nessun caso la invalidità del contratto (Cfr., per es.,

artt. 1186,

1274,

1299,

1313,

1461,

1626,

1715,

1764,

1833,

1868,

1910,

1943,

1947,

1953,

1959 c.c.

).

Una zona oscura da rischiarare: l'accordo raggiunto attraverso la procedura

La nostra disciplina, però, si spinge ben oltre: offrendo un rimedio molto più complesso del semplice accordo, e di cui l'accordo (confermato in tal modo nella sua validità) è soltanto una componente. Questo rimedio è nella procedura di composizione della crisi, che è la procedura secondo la quale l'accordo deve essere concluso.

Cosicché l'accordo del sovraindebitato con i suoi creditori, ragionevolmente finalizzato al superamento della situazione da sovraindebitamento, conferma questa finalità dovendo essere condotto secondo una procedura stabilita, appunto, per la composizione della “crisi”.

Ma quanto veramente conta non è la finalità, bensì lo strumento. L'accordo per superare il sovraindebitamento deve essere condotto secondo una precisa procedura legale.

Per apprezzare la portata della novità dobbiamo riflettere che la regola costitutiva del contratto si esaurisce, essenzialmente, nel consenso. Per aversi un contratto occorre - è necessario, ma anche sufficiente - raggiungere un accordo; ed è tale la forza concettuale del consenso da riassorbire in sé l'idea stessa del suo prodotto, e cioè il contratto (G. B. FERRI, La nozione di contratto, in

Trattato Rescigno-Gabrielli, I contratti in generale, Torino, 2008, I, 14, nota 56).

La legge può attardarsi sulle condizioni, sulle circostanze e sulle modalità del consenso; può disporre forme particolari, e attribuire significato a fatti altrimenti equivoci, tirando fuori il consenso anche da un silenzio sufficientemente eloquente. Ma, oltre a tutto questo, non si va. In particolare, la legge non si preoccupa di proceduralizzare la fase di formazione dell'accordo e tantomeno di assoggettare questo delicato momento a controllo giudiziario.

E invece, proprio così accade nel nostro caso: dove debitore con eccesso di debiti e creditori possono concludere contratti per superare il sovraindebitamento secondo una procedura di “raggiungimento” dell'accordo; procedura affidata al controllo giudiziario e fondata anche sull'apporto di organismi di sostegno.

Al cosiddetto “organismo di composizione della crisi” è, infatti, attribuito il generale e pervasivo compito di “assumere ogni opportuna iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione, al raggiungimento dell'accordo e alla buona riuscita dello stesso, finalizzata al superamento della crisi da sovraindenitamento, e collabora con il debitore e con i creditori anche attraverso la modifica del piano oggetto della proposta di accordo” (art. 17, comma 1).

Ecco allora la grande novità foriera, inevitabilmente, del dubbio. Contempliamo regole su un esercizio dell'autonomia privata assistito da pubblici poteri: amministrativo e giudiziario.

Ciò in qualche misura avviene in determinate procedure concorsuali (i concordati) (GENTILI, Autonomia assistita ed effetti ultra vires nell'accettazione del concordato, in Giur. comm., 2007, II, 350), ma non anche nei contratti sulla crisi di impresa, pur disciplinati in quanto tali e pur suscettibili di un qualche controllo giudiziario (come accade per gli accordi di ristrutturazione dei debiti, assoggettati, una volta raggiunti, a omologazione del tribunale).

E difficili da superare sono le perplessità innescate da un contratto che, con una terminologia ottocentesca, potrebbe appropriatamente definirsi come “giudiziale”: in quanto concluso nel processo e davanti al giudice (come accade per la conciliazione giudiziale, nella quale l'esercizio dell'autonomia privata deve svolgersi secondo regole processuali e porta alla estinzione del processo; di modo che questa figura si declina concettualmente come procedimento) (LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1201). Infatti la inedita figura, pur espressamente qualificata come “contratto”, si trova calata in un procedimento in cui i creditori manifestano la propria volontà.

Sarà allora importante chiarirsi bene le idee sulla portata effettiva della novità, data da un istituto in bilico tra contratto e procedura di insolvenza: senza nasconderci che il permanere di zone oscure pregiudicherebbe sul nascere una esperienza che potrebbe riservare interessanti sorprese, fornendo ragioni inattese alla riflessione sui concetti fondamentali richiamati dall'esercizio dell'autonomia privata ai fini del superamento dell'insolvenza (basti considerare, soltanto, il rilevante ruolo ricoperto dall'organismo di composizione della crisi, e la sua efficienza a stimolare una profonda rimeditazione, con rilevanti effetti applicativi, su alcune attuali modalità dell'esercizio dell'autonomia negoziale).

La maggiore criticità: previsione di un'unica procedura per insolvenze civili e commerciali.

Un'importante perplessità è suscitata dalla scelta di fornire eguale tutela rispetto all'insolvenza civile e rispetto all'insolvenza della piccola impresa.

Questa assimilazione, già insinuata nella prima versione dell'

art. 182

bis

l.

f

all

. (dove si discorreva di “debitore” e non - come a seguito del decreto correttivo - di “imprenditore in crisi”) e sostenuta in via interpretativa in tema di esdebitazione (essendosi da alcuni proposto di interpretare analogicamente le regole sulla esdebitazione del fallito per farne applicazione anche al debitore civile), affonda le sue radici nella storia. È facile rammentare il dibattito che a fine Ottocento si accese sulla estensione della disciplina del fallimento al debitore civile, e che culminò nel saggio di Vivante in cui si difende il fallimento civile, poi inserito in appendice (e quale unico contributo in cui si dice del fallimento) nel Trattato di diritto commerciale (Cfr., nella seconda edizione dell'opera, il vol. I, Torino, 1902, 341). La proposta si alimentava dalla fiducia sulla vocazione espansiva del diritto commerciale, secondo un moto d'opinione che premeva per la unificazione del diritto privato. E tuttavia, nonostante il generale clima culturale, quella proposta non convinse il legislatore, che pure realizzò per il resto l'epocale “commercializzazione del diritto privato” nel codice civile in vigore: il fallimento e le altre procedure concorsuali furono rielaborate e contenute in una legge speciale dedicata all'insolvenza dell'impresa (Cfr.

art. 1 l. fall

., versione 1942).

La riforma fallimentare ha confermato la differenza di trattamento legale tra insolvenza civile e insolvenza commerciale, ribadendo la tradizionale limitazione della disciplina concorsuale agli imprenditori. Tuttavia, non ha riservato quella disciplina a tutti gli imprenditori, ma soltanto agli imprenditori di imprese contrassegnate da limiti dimensionali superiori a certe soglie minime (

art. 1

l.

f

all

. nel testo attuale). Inoltre, permane in vigore la tradizionale esenzione dal fallimento dei piccoli imprenditori stabilita nell'

art. 2221 c.c.

e richiamata nel vecchio testo dell'

art. 1

l.

f

all

. (quale esclusione - è preferibile ritenere - fondata non sul criterio quantitativo basato sulle soglie dimensionali, ma sul criterio qualitativo stabilito nell'

art. 2083 c.c.

in ragione del rapporto tra capitale investito e lavoro prestato dall'imprenditore nell'impresa).

Perciò, ancora oggi ad essere sottratti alle procedure concorsuali sono non soltanto i debitori civili, ma anche talune categorie di imprenditori. Questa residuale assimilazione è presa in considerazione nella legge in esame, la quale, se ambisce a colmare una lacuna ordinamentale, trova pure in quello spazio privo di rimedi una notevole possibilità esplicativa. Solo che - occorre sottolineare - non vi era né vi è un'unica via da percorrere, essendo ben evidente che se il presupposto dell'intervento legislativo è dato dalla mancanza di disciplina, la soluzione avrebbe potuto essere, alternativamente: un'unica disciplina per piccoli imprenditori e debitori civile (come nella nostra legge); oppure due discipline, l'una per il debitore civile e l'altra per il piccolo imprenditore.

Le ragioni della scelta adottata sembrano poggiare sul presupposto della sostanziale assimilabilità dell'insolvenza civile e della insolvenza del piccolo imprenditore sotto un profilo meramente quantitativo: si tratterebbe pur sempre di fenomeni economicamente modesti e non coinvolgenti una apprezzabile organizzazione di impresa. È però facile dubitare che il parallelismo sulla quantità tradisca anche una vicinanza qualitativa. Basterebbe considerare che mentre l'insolvenza civile manifesta un carattere essenzialmente patrimoniale, invece l'insolvenza commerciale tradisce una cifra schiettamente finanziaria (ciò che si usa anche dire affermando la natura “statica” della responsabilità patrimoniale civile e la natura “dinamica” della responsabilità patrimoniale commerciale).

Segue: piano sulla crisi d'impresa e piano sul sovraindebitamento civile

Il c.d. accordo di ristrutturazione dei debiti deve organizzarsi su di un piano che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei (art. 7, comma 1). La proposta può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma (art. 8, comma 1). Mentre la prima disposizione è chiaramente influenzata dalla disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti (che devono assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei) (Cfr.

art. 182

bis

l. fall

.), invece la seconda disposizione è non meno chiaramente influenzata dalla disciplina dei concordati (organizzabili secondo una libera proposta ai creditori) (Cfr.

artt. 124

e

160 l. fall

.). Entrambe le disposizioni - sull'accordo e sul contenuto della proposta - si focalizzano intorno al concetto di “piano”, fondamentale anche nel diritto concorsuale riformato. Come spero di illustrare, proprio il riferimento alla pianificazione solleva perplessità.

Non deve sfuggire che il piano ripete una natura non giuridica, ma aziendale: la pianificazione null'altro è che la formalizzazione di una determinata strategia d'impresa. In particolare, nel diritto della crisi d'impresa rileva il piano di superamento della crisi: la strategia di composizione della crisi mediante accordo con alcuni creditori e fatto salvo il regolare pagamento degli estranei è formalizzata nel piano sottostante all'accordo di ristrutturazione; la strategia di composizione della crisi mediante deliberazione della proposta è formalizzata nel piano sottostante al concordato (che non si preoccupa degli estranei e dei dissenzienti per essere cogente per tutti i creditori concorsuali).

Il piano di superamento della crisi d'impresa si compone solitamente dei tre elementi noti alla scienza aziendalistica come:

  • Business restructuring

    ,

  • Asset restructuring
  • Debt restructuring

    ;

e provvede a organizzare secondo precise scelte strategiche (di conservazione dell'impresa o di liquidazione dell'attività) il superamento della crisi. Alla base dell'idea stessa di piano è l'impresa come attività; essenziale presupposto concettuale del rilievo del piano nel diritto della crisi d'impresa è la dimensione dinamica della responsabilità patrimoniale, e dunque la consapevolezza che la capacità adempitiva dell'imprenditore è strettamente connessa - piuttosto che al patrimonio staticamente considerato - allo svolgimento dell'attività produttiva (Cfr. la riflessione di G. FERRI Jr, Impresa in crisi e garanzia patrimoniale, in AA.VV.

Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 31 ss.).

Dietro queste osservazioni, come possa trasporsi la cultura aziendale della pianificazione nell'ambito non aziendale dell'insolvenza civile sarebbe problema davvero difficile da risolvere, e forse quell'interrogarsi nemmeno si mostrerebbe sufficientemente sensato.

Il debitore civile, infatti, non ha che un patrimonio incapiente e una massa di debiti. Non svolge alcuna azione sul mercato. Non deve procedere a nessuna ristrutturazione di attività produttive. Deve piuttosto controllare e limitare la dannosa propensione al consumo, e aborrire il consumo irresponsabile (nella legge è tra l'altro stabilito che l'accordo di ristrutturazione possa indicare limitazioni all'accesso al mercato del credito al consumo, all'utilizzo degli strumenti di pagamento elettronico a credito e alla sottoscrizione di strumenti creditizi e finanziari) (Cfr. art. 8, comma 3). Non vi sarebbe dunque nessuno spazio apprezzabile per la pianificazione del recupero della solvibilità.

In conclusione, mentre la pianificazione può essere utile ed è certamente comprensibile per il trattamento della crisi della piccola impresa non fallibile, invece in nessun modo sembra essere proficuamente utilizzabile (e nemmeno effettivamente comprensibile) per il trattamento dell'insolvenza civile. Per evitare equivoci, va aggiunto: non perché l'insolvenza civile non sia componibile consensualmente, ma perché nella composizione negoziale dell'insolvenza civile non si apprezza nessuna rilevanza dell'aspetto finanziario prospettico inteso questo come la capacità futura di generare risorse finanziarie; tuttavia proprio la connessione tra l'aspetto finanziario attuale e quello atteso (e dunque prospettico) giustifica, sopra tutti, la pianificazione.

Un ulteriore rilievo critico: sul ruolo assegnato al giudice

Si legge nell'art. 12 che, verificato il raggiungimento dell'accordo (ossia della maggioranza prescritta di aderenti) e l'idoneità dello stesso ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei, il giudice procede all'omologazione dell'accordo. È ben vero che l'art. 17, comma 2, dispone che l'organismo di composizione della crisi provvede a certificare la veridicità dei dati contenuti nella proposta e dei documenti allegati e ad attestare il piano con riguardo all'essenziale requisito della fattibilità; ma, quanto interessa è chiarire i poteri del giudice. Infatti, è rimesso al giudice di sindacare l'idoneità dell'accordo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Spetta, dunque, al giudice un penetrante giudizio di merito sulla superabilità, nel caso concreto, della crisi d'impresa o da sovraindebitamento. Il che segna una discontinuità rispetto al diritto della crisi d'impresa, nel quale il controllo giudiziale su accordi di composizione del debito e proposte di concordato è scevro da venature paternalistiche, e invece saldamente arginato su di un piano di verifica logico-formale delle ragioni spese dall'attestatore per asseverare la ragionevolezza del piano (facendo eccezione, per la più convincente opinione, soltanto il caso in cui siano state sollevate opposizioni).

Le regole appaiono sfornite di una trasparente ragione. Se, infatti, si osserva la posizione del piccolo imprenditore, non si comprende perché mai il giudice debba farsi occhiuto sul piano di superamento della crisi d'impresa. E lo stesso è a dirsi se l'autore del piano è il debitore civile. Né per l'uno né per l'altro caso si ravvisa l'esigenza di una speciale attenzione del giudice, che supplisca al controllo eventualmente disattento del creditore o ne integri l'insufficiente giudizio.

Non potrebbero mai rilevare, infatti, le caratteristiche sociali culturali tecniche ed economiche verosimilmente proprie di questi soggetti e tali da consentirne l'identica considerazione nella prospettiva di tutela (come propone il movimento interpretativo sulla estensione della tutela del consumatore anche al professionista, al lavoratore autonomo e al piccolo imprenditore).

Nel procedimento di composizione della crisi della piccola impresa e del sovraindebitamento del debitore civile l'interesse in gioco e affidato al controllo del giudice - e pertanto oggetto di tutela - non è l'interesse del debitore, ma è il diverso e anzi contrapposto interesse dei creditori estranei all'“accordo”. Tra tali creditori sono annoverabili certamente soggetti non imprenditoriali, ma per lo più si tratterà di imprese; spesso di imprese di medie e grandi dimensioni; di imprese bancarie finanziarie e assicurative. Si tratterà, insomma, dei soggetti già protagonisti quali creditori delle procedure concorsuali, e per i quali non è prevista nessuna speciale assistenza giudiziaria.

Per quanto esposto, la soluzione normativa appare non solo alquanto distante da quella accolta nel diritto concorsuale, ma nemmeno rispondente in alcun modo a peculiari e specifiche esigenze delle fattispecie oggetto di disciplina. Introduce perciò nel sistema disciplinare dell'insolvenza una frattura sistematica evitabile.

In (provvisoria) conclusione

La nuova legge testimonia la viva e condivisibile preoccupazione del legislatore per fenomeni che, amplificati dalla crisi economica planetaria, rischiano di sfuggire a un efficace governo della norma giuridica. Dovrebbe, tuttavia, pure riconoscersi che nelle norme proposte la scelta di perseguire i due obbiettivi - composizione del debito civile e del debito del piccolo imprenditore - attraverso un'unica disciplina rischia di compromettere gravemente la linearità concettuale dell'intero disegno, facendo emergere in superficie una irrisolta antinomia. Pare infatti chiaro, e soprattutto sotto il profilo della pianificazione delle soluzioni, che non sia possibile chiudere in una sintesi efficace esigenze che si presentano alquanto diverse. Dunque, poiché non di rado le disarmonie sistematiche si concretizzano in inefficienze applicative, sarebbe stato preferibile scindere le tutele e affidarle - piuttosto che a improbabili contrattazioni legalmente autorizzate - a diverse e separate procedure. E ciò senza escludere, per il debitore civile, l'ipotesi di una procedura di esecuzione collettiva di stampo fallimentare.

Nondimeno, tutto ciò può assumere rilievo non soltanto nella (al momento non probabile) prospettiva della riforma, quanto soprattutto ai fini di una consapevole applicazione del nuovo strumento, volta a ridurre le possibili inefficienze e ad enfatizzare le positività che le nuove regole indubbiamente recano.

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