Fallir per l'insolvenza altrui

10 Settembre 2012

La legge fallimentare, negli artt. 1 e 15, individua in maniera rigida i parametri di fallibilità dell'impresa, disegnando il perimetro entro cui il Tribunale deve muoversi per arrivare alla dichiarazione di fallimento.In virtù di questa poca discrezionalità concessa ai giudici, gli Autori rilevano come negli ultimi anni, sia nel panorama giurisprudenziale sia in quello dottrinario, il concetto di “temporanea illiquidità” sia stato definitivamente dimenticato ed accantonato; sulla base di questa premessa, dunque, vengono analizzati i concetti di insolvenza, di stato di crisi e le varie soluzioni concordatarie.
Premessa

Nell'attuale, grave e prolungato periodo di crisi economica accade sempre più spesso che l'imprenditore venga chiamato a rispondere, in presenza di una pretesa economica e quindi del mancato adempimento, anziché nella naturale sede giudiziaria davanti al giudice della cognizione ordinaria ovvero dell'esecuzione individuale, nella diversa sede prefallimentare, per cui impropriamente il giudice dell'accertamento dell'insolvenza si trasforma in giudice dell'accertamento della pretesa creditoria.

Il fenomeno non è nuovo, è sempre esistito, e trova la sua spiegazione nel fatto che un ricorso di fallimento è più celere, più economico e più persuasivo di una citazione in giudizio o di un atto di pignoramento.

Il ricorso a tale ‘scorciatoia satisfattiva' si acuisce in tempo di crisi economica e quindi oggi è più frequente che mai.

D'altra parte, in presenza di un ricorso di fallimento che esponga una ragione creditoria e in assenza, spesso, troppo spesso, di una idonea difesa da parte dell'imprenditore resistente, al tribunale fallimentare riesce quasi impossibile o comunque difficile non interpretare il mancato adempimento con una ragione diversa dall'inadempimento, ovvero non determinata dall'incapacità di adempiere, e quindi non ravvisare la sussistenza dello stato d'insolvenza.

Accade talora che l'imprenditore si costituisca e deduca, dimostrandolo, che la propria impresa è florida, ha in corso l'attività, il fatturato è stabile, i bilanci si chiudono in attivo; ma evidenzia che l'impresa, pur vantando a sua volta crediti per le prestazioni rese, non riesce ad incassare le somme da destinare al pagamento dei propri creditori. A supporto di tale quadro economico deduce ancora di avere un patrimonio attivo più che sufficiente e superiore per valore ai crediti azionati e non adempiuti.

Tali circostanze normalmente vengono disattese in sede prefallimentare, in applicazione dello storico

principio in base al quale la presenza di un patrimonio attivo non è sufficiente a far ritenere l'insussistenza dello stato di decozione; si è affermato che se l'imprenditore deve liquidare il proprio patrimonio per pagare i propri debiti, significa che egli versa in stato d'insolvenza.

Tale principio, certamente valido in linea generale, deve tuttavia essere applicato con ragionevolezza; basti pensare all'ipotesi di imprese di grosse dimensioni le quali ben possono ed anzi devono investire in beni durevoli un surplus di liquidità, salvo a monetizzarlo nell'imminenza di scadenze di pagamento. Ben può una società investire e poi smobilizzare, in funzione delle proprie necessità finanziarie ed in base ai piani programmatici pluriennali, senza che tale tipo di operazioni sia indice di uno stato d'insolvenza.

Parimenti si può verificare, proprio a seguito di scelte aziendali, di investimenti programmati o di flussi finanziari anomali, che l'imprenditore si trovi per un certo tempo in una situazione di illiquidità finanziaria.

In tale scenario economico deve quindi essere recuperato un altro principio storico del diritto fallimentare, ossia la ‘temporanea illiquidità' che si differenzia(va) dall'insolvenza, perché mentre quest'ultima era ed è irreversibile, la prima era transeunte e limitata nel tempo.

Si è anche osservato che l'illiquidità temporanea era strettamente connessa all'amministrazione controllata, la quale però è stata espunta dal nostro ordinamento. Ebbene, il legislatore può abolire una procedura concorsuale, ma non può abolire un principio economico-giuridico.

Prima della riforma, dunque, il giudice in sede prefallimentare doveva accertare se il mancato pagamento di un'obbligazione fosse dovuto all'incapacità definitiva dell'imprenditore di operare e generare profitti, e quindi di ottenere ricavi superiori ai costi, ovvero se l'inadempimento fosse determinato da fattori contingenti e transitori.

Già allora era difficile distinguere tra le due fattispecie, abbastanza simili, diversificate soltanto dall'elemento temporale. Uno dei metodi per effettuare tale verifica era costituito dalla possibilità di sostituire, o meglio contrapporre, all'elemento dell'inadempimento, sintomatico dell'insolvenza, l'elemento della credibilità commerciale, sintomatico della fiducia che il mondo economico e commerciale ripone in un determinato imprenditore, continuando a credere, quindi, anche in presenza di reiterati inadempimenti, nella capacità di recupero dell'impresa debitrice, approvando e concedendo, anche implicitamente, una dilazione dei pagamenti.

Vale a dire che in presenza di uno o di pochi creditori che presentano all'incasso –impropriamente in sede fallimentare - i propri titoli, l'imprenditore debitore ben può opporre e dimostrare di godere della fiducia di altri, più numerosi e qualificati soggetti con i quali ha in corso rapporti giuridici, che non ‘premono' per un adempimento immediato; è il caso della banca che non ‘mette a rientro' l'imprenditore, oppure gli concede un'apertura di credito per superare il momento finanziario negativo; dei fornitori che accettano il pagamento posticipato o rateizzato; dei lavoratori che continuano a prestare la propria attività anche se non vengono loro corrisposte regolarmente le retribuzioni.

Si può quindi affermare che l'insolvenza è dimostrata inequivocabilmente soltanto dalla mancanza di fiducia da parte del mondo economico e finanziario, e che pertanto, finché tale fiducia permane, non può parlarsi di stato d'insolvenza.

Ma tali principi e tali valutazioni sono ancora possibili, e, soprattutto, vengono ancora richiamati ed applicati dopo la riforma della

legge fallimentare

? Sembrerebbe di no.

Il concetto di temporanea illiquidità appare definitivamente dimenticato ed accantonato. Nel panorama giurisprudenziale ed anche dottrinario degli ultimi anni non compare molto di frequente, ed anzi non compare affatto. Perché gli studiosi ed i tribunali hanno abbandonato tale fondamentale principio, che contrasta ed annulla quello posto a base dell'

art. 5 della legge fallimentare

?

Una delle spiegazioni che si possono dare è costituita - sotto un primo aspetto - dal fatto che, dopo la riforma, l'ampia discrezionalità del giudice prefallimentare di valutare la sussistenza del requisito soggettivo (imprenditore, piccolo imprenditore, artigiano) e di quello oggettivo (importanza dell'inadempimento, ammontare del credito, rapporto dello stesso rispetto alle dimensioni dell'impresa debitrice) è ormai, almeno così si afferma ricorrentemente, sostanzialmente scomparsa.

Il concetto di insolvenza e lo “stato di crisi”

Sotto un secondo aspetto, che sarà esaminato di seguito, il concetto di insolvenza vede affiancarsi il tema dello “stato di crisi”, nozione che comprende anche lo stato di insolvenza, ma non si limita ad esso, potendo altresì rappresentare una condizione finanziaria di disequilibrio “ meno grave” dell'insolvenza stessa.

Andiamo per gradi.

Sotto il primo aspetto gli artt. 1 e 15 attualmente in vigore dettano in maniera rigida i parametri di fallibilità, delimitano il ‘range' entro cui il Tribunale deve muoversi. Vale a dire che il Tribunale, con una funzione ‘contabile-notarile', deve limitarsi (o forse rassegnarsi) a registrare i ‘numeri' dell'imprenditore, e nel caso in cui tali elementi numerici sussistano, deve quasi ineluttabilmente procedere alla dichiarazione di fallimento.

Se per i requisiti soggettivi di cui all'

art.

1 l

.

fall

. lo spazio di manovra del Tribunale è effettivamente molto ristretto, perché esso si deve limitare a verificare per sette volte [3 volte per la lett. a), tre volte per la lett. b) ed una sola volta per la lett. c)] se sono state superate o meno le soglie di fallibilità e non vi è quindi spazio per interpretazioni basate su principi diversi, non si può affermare lo stesso per la valutazione dello stato d'insolvenza.

In particolare, secondo quanto disposto dall'ultimo comma dell'

art. 15

l. fall

., il Tribunale deve accertare la sussistenza di un ulteriore dato numerico (e siamo a 8) costituito dal limite invalicabile dei crediti scaduti e non pagati, i quali devono essere non inferiori ad Euro 30.000 affinché si possa procedere alla dichiarazione di fallimento.

Tale norma, però, troppo spesso viene letta ed interpretata come se affermasse: “ogni volta che i debiti superano la soglia degli Euro 30.000 il Tribunale deve dichiarare il fallimento”.

Evidentemente non è così, perché ben può verificarsi che, pur in presenza di debiti scaduti e non adempiuti superiori alla soglia anzidetta, l'imprenditore non versi in uno stato di dissesto irreversibile.

Egli ben potrebbe attraversare un momento di illiquidità temporanea, del tutto reversibile.

Accertare se sussiste l'una o l'altra delle due situazioni è compito, non facile, del giudice.

E' evidente che, qualora l'imprenditore versi in condizioni economiche disastrose, abbia un patrimonio insufficiente per il pagamento di qualsiasi debito, non abbia attività d'impresa in corso, presenti bilanci ampiamente e costantemente in perdita, non goda di credito e di risorse finanziarie, abbia la sede sociale e l'opificio chiusi, e gli amministratori siano in fuga, sarà ben difficile dimostrare che non sussiste lo stato d'insolvenza alla luce dell'inadempimento e degli altri elementi sintomatici indicati dall'

art.

7 l

.

fall

. (questi ultimi sembrano - a torto - costituire esclusivo appannaggio dell'iniziativa del Pubblico Ministero).

In altre situazioni è però possibile verificare se, pur in presenza di un inadempimento, realmente non sussiste alcun stato d'insolvenza alla luce di un'attenta analisi della situazione economica e finanziaria dell'impresa.

Accade a volte che l'imprenditore deduca e dimostri che la propria attività procede regolarmente, che anzi il fatturato ha un ‘trend' positivo, che addirittura non ha necessità di fare ulteriore ricorso al credito bancario e che gli ordini sono in aumento, per cui riesce a coprire i costi d'esercizio; dimostra di vantare numerosi crediti, ma che di contro i suoi debitori non riescono ad estinguere le obbligazioni assunte nei suoi confronti. E' evidente che l'impresa di costui non versa in uno stato di decozione, non costituisce un pericolo per l'economia, non deve essere allontanata dal mercato, ed anzi proprio per attuare gli scopi prefissati dalla novellata

legge fallimentare

egli deve essere aiutato, affinché vengano conservate le potenzialità dell'impresa e mantenuti i livelli occupazionali.

Si potrebbe obiettare che in tale scenario l'imprenditore può far ricorso alle procedure alternative, quali il concordato preventivo. La soluzione non appare convincente, alla luce dell'accertata delusione verso il suddetto istituto e degli scarsi risultati ottenuti da tale strumento giuridico, per come è stato utilizzato nella pratica.

Le statistiche dimostrano (almeno in alcune aree geografiche), in particolare, che il concordato preventivo ha quasi sempre carattere ‘liquidatorio

' e raramente carattere ‘

conservativo

'; è costoso e soprattutto viene scelto massimamente da imprese che versano ormai in uno stato più che conclamato di insolvenza, perché esso viene visto più che altro come un utile strumento, idoneo ad evitare unicamente in sede penale l'imputazione di bancarotta, ed in sede civile l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori sociali e dei sindaci, giudizi che, in mancanza della dichiarazione di fallimento, non vengono promossi, ed infine per ottenere un beneficio simile ad una vera e propria esdebitazione con percentuali satisfattive per il ceto creditorio a volte veramente risibili. Con il concordato è difficile, e si verifica solo in casi rari, che alla conclusione della procedure l'impresa continui ad operare come prima e si possa quindi affermare che la scelta sia stata efficace e risolutiva della crisi.

Se dunque il Tribunale accerta che il mancato adempimento di un'obbligazione non è dovuto all'incapacità sostanziale e patrimoniale dell'imprenditore di far fronte agli impegni assunti per aver fallito i propri obiettivi, né a scelte economiche scellerate, ovvero che l'attività non può proseguire in quanto essa, mutuando un termine caro al Fisco che l'adopera per procedere ad accertamenti induttivi, è ‘antieconomica'; se dunque tutto questo non c'è, ma al contrario l'attività prosegue regolarmente, i libri contabili sono in ordine e manca soltanto la liquidità di cassa per pagare i creditori a causa dell'omesso pagamento dei crediti che a sua volta vanta l'imprenditore nei confronti dei terzi, allora non può dirsi sussistente lo stato d'insolvenza.

Diversamente opinando, è chiaro che s'innesca, ed il fenomeno è già in atto, un circolo vizioso ovvero un effetto ‘domino', con la conclusione che l'imprenditore fallisce a causa dell'insolvenza altrui, la quale si ripercuote su soggetti immuni da problemi economici e finanziari ed invade settori che magari non sono stati colpiti dalla crisi .

E' possibile arrestare tale circolo non virtuoso?

Ecco, a questo punto si può passare al secondo livello di indagine di cui s'è detto in premessa.

Secondo livello che impone di dare corso ad un'interpretazione evolutiva dello stato di insolvenza utile anche ad evitare - secondo quella che è la funzione sociale tipica del diritto - che, dato l'attuale stato di crisi, “tutti siano insolventi” .

Nell'attuale grave stato di crisi economica è compito di ognuno, per quanto può, contribuire al superamento della stessa, e dunque non vi è nulla di anormale o di illegittimo nel fatto che anche i giudici dell'insolvenza si facciano carico del problema e valutino l'esistenza dello stato d'insolvenza di un'impresa alla luce di nuovi o ritrovati principi giuridici ed economici, o almeno in base ad una più costruttiva e capillare analisi economica e giuridica dell'impresa di cui s'invoca il fallimento.

Né la

legge fallimentare

, né i principi generali dell'ordinamento vietano che sia fornita un'interpretazione parzialmente diversa da quella dominante in relazione agli elementi sintomatici dello stato d'insolvenza.

In altri termini, l'

art. 5 delle legge fallimentare

è rimasto immutato dopo la riforma della

legge fallimentare

, ma è profondamente mutato il suo contesto.

Va evidenziato che il principio esposto è già stato affermato e recepito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in relazione all'accertamento dello stato d'insolvenza delle imprese in liquidazione. E' noto, infatti, che quando l'impresa è in liquidazione non viene in evidenza, né assume valore sintomatico, l'inadempimento delle obbligazioni, bensì si applica il diverso principio della sufficienza o capienza dell'attivo patrimoniale a soddisfare i debiti dell'impresa (

Cass., 6 settembre 2006, n. 19141

). Tanto, posto che l'impresa ha ormai imboccato la strada verso la propria dissoluzione e non vi sarebbero più motivi per valutarla come un organismo vitale e dinamico (

Cass., 17 aprile 2003;

Cass., 11 maggio 2001, n. 6550

).

L'orientamento giurisprudenziale, stando ad una dottrina, non pare sia in dissonanza con la disposizione di cui all'

art.

5 l

.

fall

. visto che la prognosi non è affatto statica e si fonda proprio sulla “irreversibilità”.

Ed infatti, l'attivo viene assunto a valori di realizzo ipotizzando quanto sarà possibile realizzare al termine della liquidazione (

Galletti, Della dichiarazione di fallimento, in AA.VV. Milano 2010, 108).

Tanto ovviamente con la precisazione che il principio deve essere calato nella situazione concreta, non potendocisi limitare ad un mero calcolo matematico differenziale, ma dovendosi piuttosto valutare ogni singola ipotesi di fatto.

Nondimeno è possibile affermare che la condizione della società consente all'interprete di porsi in una diversa prospettiva nella quale lo stato di liquidazione ha una sua influenza. Si ritiene poi che, in siffatta ipotesi, siano ampiamente tutelati sia l'interesse pubblico ad espellere dal mercato le imprese decotte, sia l'interesse privato dei creditori a vedere soddisfatto il proprio credito. Nel caso di società in liquidazione, infatti, l'esigenza di eliminazione dell'impresa dal mercato viene a perdere significato, atteso che tale eliminazione è stata già decisa volontariamente dai soci (

Sandulli, sub art. 5, in Commentario a cura di Sandulli–Santoro, Torino 2010, 98).

Non è detto poi che la diversa prospettiva abbia sempre valore “salvifico”, in quanto potrebbe - sempre nell'ottica della analisi prospettica - essere giudicata insolvente una impresa che nell'attualità si trovi in equilibrio finanziario momentaneo, ma che denunci una palese ed irreversibile - stando ai dati della istruttoria prefallimentare - insufficienza del patrimonio attivo rispetto alle passività, rispetto alla quale non vi siano concrete prospettive di intervento (esempio aumenti di capitale) volti a invertire il trend.

Se tale principio, pacificamente applicato dai tribunali, vale per le imprese in liquidazione, può trovare applicazione, con criteri prudenziali, anche per la imprese in attività, se si vuole realmente che le stesse, in attuazione dello spirito della nuova

legge fallimentare

, possano continuare ad operare e a fungere da traino per l'economia, senza dover ingiustamente subire la sanzione del fallimento a causa dell'inadempimento di altri soggetti.

In questo contesto, l'emergenza in cui vivono coloro che hanno rapporti di credito verso la Pubblica Amministrazione potrebbe portare a vicende nelle quali sia la stessa Pubblica Amministrazione che, da una parte, ritardi ingiustificatamente i propri pagamenti, e, dall'altra, pretenda, tramite una sua diversa articolazione, il pagamento immediato dei debiti.

Al riguardo, non bisogna dimenticare l'orientamento giurisprudenziale che ritiene non operante il pacifico principio dell'indifferenza, rispetto alle cause che hanno determinato l'insolvenza, delle cause non imputabili all'imprenditore. Tanto, sancendo che il principio di cui si è detto non opera quando vi sia un unico creditore che crei egli stesso le condizioni che rendono impossibile l'adempimento delle obbligazioni (

Cass., 19 settembre 2000, n. 12405

;

Cass.,13 agosto 2004, n. 15769

).

Ulteriori istanze di rivisitazione afferiscono alla possibilità di valutare l'insolvenza di un “imprenditore” contestualizzando la propria condizione finanziaria in seno al gruppo cui appartiene. Si ritiene comunemente che nel nostro ordinamento difetti una nozione di “crisi del gruppo”, sicché anche l'insolvenza della società facente parte del gruppo debba essere accertata, in via di principio, autonomamente nei confronti di ciascuna società (

Cass., 21 aprile 2011, n 9260

;

Cass., 18 novembre 2010, 23344

; Cass).

Detto questo, si deve però precisare che da tempo vanno profilandosi precise tendenze sul piano normativo nel senso di dare rilevanza anche a situazioni di crisi del gruppo nel suo complesso, come accade in seno alla amministrazione straordinaria, ove l'

art. 80 D.

l

gs. n. 270/1999

consente l'estensione della procedura di amministrazione straordinaria di una “impresa” facente parte del gruppo alle altre “imprese” del gruppo laddove, per quello che qui interessa, risulti comunque opportuna la gestione unitaria dell'insolvenza nell'ambito del gruppo in quanto idonea ad agevolare, per i collegamenti di natura economica o produttiva esistenti tra le singole imprese, il raggiungimento degli obiettivi della procedura. Ed in termini analoghi vale per l'

art. 98 T

ub

relativamente ai “gruppi creditizi”, nonché per l'

art. 275 del codice delle assicurazioni private

in tema di “gruppi assicurativi”.

E ancora, con riferimento al concordato preventivo, si è sancita la possibilità che venga presentata - godendo dell'autonomia negoziale attribuita dal legislatore - un'unica proposta di concordato formulata congiuntamente da tutte le società del gruppo.

Si è così dichiarata l'ammissibilità di un “unico ricorso di concordato preventivo, riguardante più imprese appartenenti ad un medesimo gruppo a condizione che esso sia supportato da un unico piano aziendale il quale tenga distinte le masse patrimoniali delle singole società e preveda singole votazioni e singole deliberazioni per ognuna delle imprese,sia pure nell'ambito di una unica adunanza” (

Trib. Roma 7 marzo 2011).

Tanto, accentuando l'orientamento giurisprudenziale che - pur attribuendo valenza esclusiva all'insolvenza della singola società - ritiene che la stessa possa essere condizionata dal fatto che una società del gruppo dia vita a concrete operazioni di sostegno (

Cass., 21 aprile 2011, n. 9260

).

Un ulteriore riferimento potrebbe essere costituito da un'interpretazione sistematica degli

artt. 5

e

160 l

.

fall

..

Ed infatti, come noto, accanto al concetto di insolvenza, il legislatore propone quello di crisi, di cui l'insolvenza è solo una forma delle varie possibili manifestazioni, che vede il proprio dato qualificante nella “irreversibilità”, sicché vi sarebbe insolvenza solo ove il giudice accerti che la incapacità di far fronte alle obbligazioni sia irreversibile .

In questo contesto può affermarsi che situazioni di transeunte incapacità di adempiere, che non siano connesse a cause di ordine strutturale, in sé non si prestino a proiettare l'impresa nella situazione dell'insolvenza. Sicché la deriva liquidatoria indotta dal fallimento si profila, di converso, quando, a fronte della situazione attraversata dall'impresa, non si intravedano ragionevoli prospettive di risanamento ossia di ritorno all'equilibrio, avendo la crisi colpito vitalmente l'imprenditore (

Capo, I presupposti del fallimento. Lo stato di insolvenza, in AA.VV., La riforma della

legge fallimentare

, Milano, 2011, 176). Imprenditore su cui grava un'impotenza “strutturale e non solo transitoria” (

Cass. sez un, 13 marzo 2001, n. 115

).

Da qui la possibile rivalutazione - senza estremismi ovviamente - dell'incidenza sul fenomeno della c.d. possibilità di “accesso al credito” quale indice di tendenziale affidabilità e solvibilità del soggetto (

Cass., 28 gennaio 2008, n. 1760

;

Cass., 27 febbraio 2008, n. 5215

;

Cass., 28 febbraio 2008, n. 4762

), sempreché si traduca nella concreta acquisizione degli strumenti finanziari necessari al riequilibrio (quali non potrebbero essere la mera concessione di una somma in vista del salvataggio dell'impresa, o, peggio, al solo fine di ritardarne la dichiarazione di fallimento).

La condizione d'insolvenza potrebbe essere poi “sterilizzata” - stando almeno ad una interpretazione - in relazione al disposto di cui all'

art.

15 l

.

fall

..

La norma, come noto, stabilisce al suo ultimo comma che non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dalla istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferiore ad Euro 30.000. Sicché, anche ove fosse stata accertata la sussistenza del credito e l'insolvenza, non ne seguirebbe comunque il fallimento se l'ammontare dei debiti non superi la soglia suddetta.

In una diversa prospettiva, la regola è stata vista come elemento “oggettivo” di “esenzione dall'insolvenza”, nel senso che, sebbene l'imprenditore abbia oltre 500.000 euro di indebitamento, ove i propri debiti scaduti siano inferiori a 30.000 euro, l'insolvenza non sussisterebbe ex lege.

In merito non bisogna trascurare un'interpretazione restrittiva stando alla quale, non ogni volta che manchi l'inadempimento qualificato non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento, ma solo quando manchino anche gli altri elementi costituitivi.

Orbene, a prescindere dalla tesi che si voglia accogliere, il mancato superamento della soglia è indubbiamente un elemento che incide sulla possibilità di dichiarare il fallimento.

Ciò posto, per poter concretamente applicare i principi suddetti è tuttavia necessario che gli imprenditori, nei confronti dei quali siano presentati ricorsi di fallimento, si difendano adeguatamente per dimostrare di non possedere i requisiti di fallibilità, ovvero di non versare in stato d'insolvenza.

Non solo.

Prima di “difendersi” (rectius: curare), l'imprenditore dovrebbe mutare approccio alla crisi, prendendo atto che il modo migliore per risolvere un problema è quello di rendersi conto ed accettare, per tempo, che lo stesso esiste a va affrontato con tempestività e decisione.

In questo contesto è chiaro il “ridimensionamento” delle potenzialità del concordato preventivo ove lo stesso venga visto - come spesso accade - quale mera alternativa al fallimento, ossia istituto al quale ricorrere solo una volta che lo “stato di crisi” abbia raggiunto le dimensioni nefaste dell'insolvenza.

Il mutamento di prospettiva dovrebbe indurre a rivisitare l'intera

legge fallimentare

, la quale va verosimilmente vista quale strumento normativo attraverso il quale realizzare la gestione della crisi di imprese di determinate dimensioni onde soddisfare una serie molteplice di interessi ritenuti rilevanti, che si presentano secondo una struttura alquanto articolata anche da un punto di vista soggettivo.

Così, un primo interesse in gioco è quello dell'imprenditore alla sopravvivenza e allo sviluppo dell'attività economica in cui ha investito risorse, nonché alla conservazione del proprio patrimonio nel quale vanno inclusi l'azienda, ma anche, in senso dinamico, l'impresa quale attività economica produttiva capace di generare risorse.

Accanto a tale interesse deve considerasi quello dei creditori dell'imprenditore, i quali vivono un'esigenza di soddisfazione del credito, sia in termini quantitativi che qualitativi, visto che hanno sì interesse a ricevere la propria prestazione, ma, al tempo stesso, anche alla continuazione dei rapporti economici con l'impresa in guisa da non subire soluzioni di continuità nelle prospettive di guadagno.

In questo contesto s'innesta anche l'interesse dell'economia in generale, dato che lo sviluppo dell'attività imprenditoriale è elemento essenziale per la crescita del benessere della collettività, come dimostra l'attenzione che la Costituzione dedica al fenomeno in generale dell'iniziativa economica (

art. 41 Cost

).

Ora, è proprio per rispondere a siffatte esigenze che il legislatore modella il sistema della

legge fallimentare

, sì da dettare una serie di regole che consentano una gestione efficiente della crisi d'impresa.

Le cc.dd. soluzioni concordatarie

In quest' ottica, allora, il primo livello di attenzione - strutturato su un apposito corpo normativo - viene dedicato alla disciplina di una serie di “procedure concorsuali” ritenute funzionali al superamento della crisi di impresa, prima che la stessa degeneri in insolvenza (cc.dd. soluzioni concordatarie).

Tale deve essere il senso del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione e dei piani di salvataggio, ossia di quegli strumenti messi a disposizione dell'imprenditore affinché questi possa adottare strategie economico-giuridiche orientate alla composizione dei rapporti con i creditori che, a loro volta, giudichino favorevolmente il nuovo assetto prospettato.

Solo in ragione di un secondo livello di attenzione il legislatore considera che - sebbene le soluzioni concordatarie siano da ritenersi preferibili per il superamento della crisi o dell'insolvenza - non sempre le stesse sono, in concreto, attuabili, essendo collegate ad una serie di fattori endogeni ed esogeni tra cui, ad esempio: lo stato della crisi, la capacità dell'imprenditore, la volontà dei creditori di prestare il consenso alla ristrutturazione, ecc.. Si tratta di una serie di elementi che assumono rilievo condizionante l'attuabilità concreta di siffatte soluzioni, e che potrebbero non essere presenti o configurabili nella fattispecie concreta, sì da non consentire l'operatività delle soluzioni concordatarie.

Per questo motivo, la gestione normativa della crisi d'impresa viene completata con una serie di istituti capaci di disciplinare, in maniera diversa, le conseguenze dell'insolvenza (

Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna 2007, 67; Esposito, La gestione concorsuale della crisi di impresa, Milano, 2010, 1 ss).

Sicché, un secondo livello di attenzione normativa è costituito dalla disciplina del fallimento, dell'amministrazione straordinaria, della liquidazione coatta amministrativa.

Si tratta di procedure concorsuali che devono essere lette quale ultima ratio della gestione della crisi di impresa, dovendosi - per quanto possibile ed al ricorrere dei presupposti - preferire una gestione concordataria quale composizione che avviene nell'ambito della dialettica “autonoma” tra imprenditori e creditori.

Dacché, il legislatore assume un approccio globale alla gestione strategica, in sintonia con l'insegnamento che vede inconcepibile qualsivoglia attività economica priva di “programmazione e coordinamento della serie di atti in cui essa si sviluppa“ (

CAMPOBASSO, Diritto commerciale I. Diritto dell'impresa, Torino, 2003, 28).

Laddove il raggiungimento di un obiettivo - specialmente se collegato ad un'attività economica - non può che essere pianificato secondo una “gestione strategica” (

SICCA, La gestione strategica dell'impresa. Concetti e strumenti, Padova, 1998, 140).

Nell'impresa di successo, in ogni decisione, quale che sia il livello in cui viene assunta, vi è una risposta, in termini di attuazione, al disegno strategico che si vuole realizzare, in guisa che le funzioni gestionali non siano qualcosa di separato dalla gestione strategica, ma ne costituiscano la componente centrale, in maniera che la struttura organizzativa, a sua volta, assicuri alle varie componenti del sistema-impresa il necessario supporto alla condotta strategica. Quando si parla di gestione strategica, quindi, si fa riferimento ad un insieme di decisioni, di strumenti, di approcci gestionali che configurano la vita dell'impresa nella sua complessità.

L'approccio strategico è allora un modo di pensare e concepire l'”attività” come orientata alla fissazione di un obiettivo, per il raggiungimento del quale è necessario dare corso ad un'organizzazione adeguata con cui pianificare una serie coordinata di atti utili al raggiungimento dell'obiettivo stesso (

GALLETTI, La trasformazione dell'impresa ad opera dell'organo amministrativo, in Riv. dir. comm, 2003, 657).

Tale esigenza è avvertita nella fase fisiologica dell'attività d'impresa in forma societaria (si pensi ad esempio all'

art.2381 c.c.

) ed è del pari avvertita nell'ambito della fase terminale della stessa, come testimoniano le norme in tema di liquidazione di società di capitali ove, nell'ambito dell'

art. 2487 c.c.

, il legislatore induce all'attività di programmazione quale elemento di base della delibera di liquidazione (

FIMMANò

-ESPOSITO–TRAVERSA, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano, 2005, 1 e ss ).

Posta in questi termini, come la fase fisiologica della vita di impresa è vissuta con un approccio votato alla gestione strategica, così anche la diversa fase “patologica” della crisi va gestita secondo un approccio che, mutatis mutandis, si presenti con caratteri di analoghe necessità di pianificazione.

In questo contesto si deve prendere atto - o meglio profittare del fatto - che la crisi è condizione diversa e più ampia dello stato di insolvenza e non si esaurisce in essa, ricomprendendo, al suo interno, tutte quelle situazioni di difficoltà economica e finanziaria dell'impresa che non si siano ancora tradotte nello stato di insolvenza irreversibile.

Essa può atteggiarsi con connotati di minore gravità rispetto alla decozione (ossia lo stato di insolvenza) riguardando tutte quelle situazioni che sono idonee a sfociare nell'insolvenza medesima, ossia anche situazioni ad essa finitime (

Trib. Palermo, 18 maggio 2007

; PACCHI, Il nuovo concordato preventivo, Milano 2005, 55; Trib.Pescara, 13 ottobre 2005; Trib. Mantova 28 maggio 2005; Trib. Monza 7 luglio 2005, ined).

Se questo è vero, è necessario interrogarsi su quale sia il livello minimo che la “disfunzione aziendale” deve raggiungere per poter essere qualificata “crisi”. Crisi sussumibile nella vicenda normativa di cui all'

art.

160 l

.

fall

..

L'analisi è pregna di conseguenze sostanziali, in quanto, ove si dovesse stabilire che un determinato livello di disfunzione non arriva ad essere qualificato come “crisi” di impresa, verrebbe a mancare il presupposto oggettivo per l'accesso alla procedura di concordato preventivo della quale l'imprenditore non potrà avvalersi quale strumento di risoluzione della propria condizione patologica.

A tal proposito, in assenza di una definizione positiva è necessario rifarsi alle ricostruzioni formulate dall'economia aziendale.

Stando ad autorevole dottrina, infatti, è possibile distinguere diversi “stadi” rappresentanti momenti del graduale processo di deterioramento in cui si manifesta la crisi di impresa.

Un primo stadio, coincidente col manifestarsi di un iniziale segnale negativo non ancora espressione di un fenomeno di prima disfunzione, può essere definito di “incubazione”, con la possibile attivazione di una gestione anticipativa che prevenga l'avvio di un processo disfunzionale.

Un secondo stadio (di preallarme), coincidente con il manifestarsi dell'iniziale disfunzione, dà vita ad una crisi latente, che può essere fronteggiata attraverso un'azione preventiva.

Un terzo stadio si paventa attraverso la diffusione delle disfunzioni ai vari livelli aziendali, sì da generare squilibri settoriali originando la vera e propria crisi d'impresa che, sebbene grave e diffusa, è ancora controllabile e sanabile attraverso una gestione reattiva e repulsiva che conduca al risanamento e quindi al riequilibrio della struttura aziendale.

Infine, un ultimo stadio coincide con una diffusione generalizzata delle disfunzioni ed è causa di uno squilibrio globale capace di dare origine alla “crisi acuta” incontrollabile ed ineliminabile

.

Siffatta ricostruzione è utile per affermare come la “crisi”, rilevante ai fini della gestione concorsuale disciplinata dal legislatore, debba essere quella che si paventa sin dal suo primo stadio di manifestazione, ossia sin dalla fase della c.d. “incubazione”.

Sicché, combinando tale dato con la prospettiva pianificatoria, l'imprenditore possiede gli strumenti economico-giuridici utili al superamento della crisi sin dalla sua fase embrionale e prima che essa sfoci nella patologia della insolvenza.

Ed invero, la ratio delle procedure concordatarie è proprio quella di consentire all'imprenditore di superare i fenomeni di disfunzione che possono colpire la realtà d'impresa.

Di conseguenza, pare che tale risultato possa essere tanto meglio raggiunto quanto più tempestivo è l'intervento.

In quest'ordine di idee, nulla osta - anzi è preferibile e doveroso per l'imprenditore nella salvaguardia del patrimonio aziendale - che egli possa eliminare tale condizione, sin dalla fase della incubazione, pianificando i sistemi di soluzione della stessa in seno alle ipotesi concordatarie quali il piano di risanamento, l'accordo di ristrutturazione, il concordato preventivo, ossia tutti strumenti ai quali si associa la possibilità di beneficiare di taluni aspetti di stabilità, quali ad esempio l'esonero dalla revocatoria degli atti di disposizione, che rendano più efficaci i sistemi di intervento. Si pensi all'ipotesi in cui la strategia di reazione - ad un fenomeno di “incubazione”, che tende a raggiungere velocemente il secondo stadio - sia costituito dall'esternalizzazione, attraverso una cessione di azienda, di una data area strategica di affari, ovvero ad una semplice dilazione con i creditori, ecc..

Ebbene, realizzare tale reazione in seno ad un piano, la cui ragionevolezza è attestata da un professionista

ex art. 67, comma 3, lett. d)

l.

fall

, consente di dotare la reazione di un maggior connotato di stabilità costituito dal fatto che, a prescindere dagli esiti dell'intervento e dal degenerare della disfunzione fino all'ultimo stadio, l'atto di disposizione è esentato da possibili azioni revocatorie.

Così operando la pianificazione concordataria può sfruttare appieno le proprie potenzialità di strumento normativo di eliminazione della crisi, utilizzabile in tutti gli stadi in cui essa si presenta, e persino dalla fase di incubazione. Tanto anche per il fatto che pare inutile attendere che, ciò che è in incubazione, si trasformi in vera e propria malattia prima di essere curata, laddove, al contrario, fronteggiare la crisi sin dal suo stadio embrionale consente la sua eliminazione in radice e con essa la massimizzazione degli interessi sottesi alla disciplina.

In conclusione, allora, è necessario dare vita ad un'interpretazione estensiva del concetto di crisi, coerente e funzionale alla ratio delle soluzioni concordatarie, che si manifestano quale elemento di pianificazione da preferire alle ipotesi patologiche del fallimento, da immaginarsi quale ultima ratio delle sorti dell'attività di impresa.

In quest'ottica, il legislatore consente all'imprenditore - che voglia superare lo stato di crisi avvalendosi di una soluzione concordataria - un elevatissimo grado di autonomia nel pianificare le soluzioni possibili.

Grado di autonomia il cui esercizio riduce inevitabilmente, in un'ottica di gestione razionale, le ipotesi in cui la crisi degeneri nella insolvenza, essendovi svariati modi attraverso i quali prevenirla e persino eliminarla, anche laddove abbia raggiunto il proprio stadio più acuto, ossia l'insolvenza irreversibile. Anche in tale ipotesi, infatti, nulla osta che l'imprenditore possa proporre ai creditori una soluzione che gli stessi ritengano comunque preferibile al fallimento. Tuttavia, la “professionalità” nella gestione delle attività impone di evitare che si giunga sino a tale stadio.

Da qui la valenza fagocitante della pianificazione concordataria rispetto a quella concorsuale. Valenza fagocitante che, intanto può divenire tale, in quanto l'imprenditore prenda coscienza che la crisi va affrontata - ove possibile - prima che la stessa degeneri in insolvenza.

Questo è il primo passo da compiere per ridimensionare l'insolvenza: prevenirla prima che divenga insolvenza.

Si deve prendere atto che l'insolvenza - salvo non sia dovuta a fatti eccezionali e imprevedibili che investono l'impresa - corrisponde ad una disfunzione della programmazione collegata al rischio dell'imprevisione (

Galletti, Della dichiarazione di fallimento, in AA VV, Milano 2010) e, possiamo aggiungere, alla tempestiva adozione di scelte aziendali di superamento della stessa agevolate dalla possibilità del ricorso alle “soluzioni concordatarie”.

In questo, l'imprenditore - oltre che delle proprie capacità manageriali - può avvalersi di uno strumento giuridico che, se utilizzato correttamente, consente la sopravvivenza dell'imprenditore, dell'impresa e dell'azienda.

Lo strumento - come si evince dalla stesso significato del termine - “è un mezzo di cui ci si può servire per raggiungere particolari scopi” (

Devoto Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano 2010).

Esso è allora qualcosa che, in tanto funziona, in quanto “correttamente utilizzato”, ossia quale modello generale di prevenzione dell'insolvenza e non già di mero “riparo” alla stessa.

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