Il ruolo del PM nella fase prefallimentare e la sua legittimazione alla richiesta dei provvedimenti cautelari o conservativi

Luigi Orsi
26 Marzo 2012

La crisi di impresa propone uno dei più delicati settori di intervento nel processo civile e di un importante ambito di esercizio dell'azione penale da parte del P.M., il quale può essere il richiedente del fallimento, oppure un interventore nel procedimento, oppure ancora può rimanere inerte. L'Autore analizza ciascuna di queste ipotesi, soffermandosi sulla legittimazione del PM alla richiesta dei provvedimenti cautelari o conservativi, analizzando, altresì, le fasi successive alla dichiarazione di fallimento ed esaminando infine il ruolo del PM nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Premessa

La crisi d'impresa propone un ambito d'iniziativa particolarmente impegnativo per l'ufficio del PM. Si tratta di uno dei più delicati e complessi settori d'intervento nel processo civile e, al contempo, di un importante ambito di esercizio dell'azione penale. I procedimenti penali fallimentari costituiscono un'ampia porzione del diritto penale commerciale vivente. Non si tratta di una rilevanza esclusivamente quantitativa: le vicende relative ai grandi dissesti (Banco Ambrosiano, Sasea, Parmalat, Cirio) sono ritenute paradigmatiche dell'esercizio della giurisdizione.

Un ulteriore profilo di rilevanza della materia è dato dalla particolare connessione tra procedimenti civili e penali fallimentari: in nessun ambito nel processo civile il dinamismo o l'inerzia del PM può avere un riflesso così significativo sul piano dell'esercizio della giurisdizione penale.

Il rilievo della materia è oggi aumentato, quantomeno riguardo a due fenomeni. Per un verso, la crisi d'impresa è tanto più diffusa quanto più è critico il momento dell'economia di mercato, attualmente in fase recessiva. Per altro verso, il nostro ordinamento sta sperimentando, con le novelle riformatrici della

legge fallimentare

intervenute nell'ultimo quinquennio, uno strumentario piuttosto nuovo e ancora in rodaggio.

Questo scenario impone al PM una riflessione sulla portata del suo ruolo nella gestione della crisi d'impresa, un settore nel quale l'ufficio requirente può e deve migliorare la performance.

In questa direzione sono almeno due i compiti da assolvere: ricostruire uno statuto del PM “fallimentare” e ciò facendo chiarezza in un ambito normativo ricco d'incertezze interpretative; prospettare un modello organizzativo idoneo ad un intervento così articolato quale la legge sembra richiedere.

Il ruolo del pm nel procedimento per la dichiarazione di fallimento

Il PM può assumere, rispetto al procedimento per la dichiarazione di fallimento, il ruolo di richiedente, quello di interventore o anche un ruolo inerte. Occorre innanzitutto definire i casi nei quali possa o debba assumere un ruolo o l'altro. Devono quindi essere chiarite le specifiche modalità dell'iniziativa (legittimazione, competenza territoriale, onere della prova) che il PM assuma motu proprio, ma anche di quella che sia chiamato ad assumere quando l'iniziativa privata desista. Non meno importante è stabilire quale debba essere la condotta del PM dopo la dichiarazione di fallimento, specialmente con riferimento alle ricadute della procedura concorsuale sul procedimento penale (comunicazione della sentenza di fallimento, eventuale revoca della stessa, rapporto con il curatore).

La richiesta di fallimento. Natura

L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento è conferita al debitore, ai creditori e al PM. Sollecitazioni indirizzate al Tribunale fallimentare da soggetti non legittimati non obbligano ad una risposta (LO CASCIO, Codice commentato del fallimento, Milano, 2009, 48). Queste segnalazioni, invece, se indirizzate al PM possono legittimarne l'iniziativa (vedasi infra).

L'iniziativa è autonoma, nel senso che non è condizionata dall'atteggiamento degli altri soggetti legittimati a richiedere il fallimento. Il PM può ricorrere anche se nessun altro legittimato si è mosso e, per converso, l'iniziativa dei privati non esclude quella pubblica.

L'iniziativa integra un vero e proprio diritto di azione

ex art. 69 c.p.c.

, perché:

  • nella disciplina previgente l'iniziativa del PM si esercitava con un'istanza

    , tipico strumento di sollecitazione del potere ufficioso del giudice, laddove la

    richiesta

    è un ricorso azionato da un'autentica parte processuale (FERRO, La legge fallimentare, Commentario,

    Padova, 2007, 44);

  • la qualificazione di parte è confermata dal novellato

    art. 22

    l.

    f

    all

    . (che attribuisce al PM il potere di reclamo contro il provvedimento che respinge l'istanza di fallimento), laddove in passato da questa norma, che non inseriva il PM tra i reclamanti, si arguiva che quello del PM fosse un potere di sollecitazione.

L'azione svolta dal PM ha carattere pubblicistico, ciò cui si collegano alcune essenziali implicazioni:

  • il potere di azione è riferito ad un interesse indisponibile

    , che impedisce al PM di negoziare la desistenza, ma che gli consente (ed impone) di rivedere la richiesta di fallimento laddove l'insolvenza risulti negata da accertamenti successivi alla richiesta di fallimento. Non si può dedurre da questo profilo di imparzialità dell'azione del PM l'improbabile carattere di disponibilità della stessa (Così, erroneamente, DONZI, L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l. fall.

    , in AA.VV., Fallimento ed altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia e L. Panzani, Torino 2009, 123);

  • sul versante sostanziale, l'azione del PM non interrompe la prescrizione del credito

    ;
  • sul versante processuale, non è prevista la condanna alle spese

    in caso di soccombenza (FABIANI, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna-Roma, 2008, 150).

Caducata l'iniziativa ufficiosa del Tribunale, l'impulso del PM è l'unico contrappeso pubblicistico alla privatizzazione del procedimento concorsuale

. In particolare, il PM richiedente il fallimento è, nell'ordinamento italiano, quell'autorità pubblica investita di questa potestà ai sensi dell'

art. 29 del regolamento comunitario n. 1346/2000

. La disciplina nazionale è dettata dagli

artt. 6

e

7 l.

f

all

.

Imprenditore del quale il PM può richiedere il fallimento

In generale, imprenditore soggetto alle procedure concorsuali può essere tanto quello individuale che societario. Imprese escluse dal fallimento sono invece quelle al di sotto delle dimensioni qualificate dall'

art. 1,

comma 2

, l.

f

all

.

Il PM non può richiedere il fallimento del socio illimitatamente responsabile scoperto successivamente al fallimento della società. L'

art. 147 l.

f

all

. non menziona il PM quale legittimato, in ciò innovando rispetto alla giurisprudenza maturata sotto la previgente disciplina.

Non può essere avanzata richiesta di fallimento di un'impresa la cui insolvenza si sia manifestata oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese (

art. 10,

comma 1

, l.

f

all

.), salvo che il PM fornisca la prova che l'imprenditore individuale o quello collettivo cancellato d'ufficio dal detto registro abbiano effettivamente proseguito l'attività nonostante la cancellazione.

Legittimazione attiva del PM

L'

art. 7 l.

f

all

. prevede che il PM presenta la richiesta:

  • quando l'insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale ovvero dalla fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore;

  • quando l'insolvenza sia segnalata dal giudice civile.

La notitia decoctionis che emerge da un procedimento penale ovvero dalla fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali o dall'impossessamento di beni

La formulazione della norma pone alcuni interrogativi, almeno i seguenti:

a) Se la pendenza di un procedimento penale sia condizione legittimante necessaria e sufficiente.

Si deve quindi stabilire:

  • se il PM possa agire quando l'insolvenza emerga al di fuori di un procedimento penale

    . La dottrina dubita che il PM possa venire a conoscere situazioni d'insolvenza al di fuori di procedimenti penali a sue mani (CLEMENTE-GISONDI, Commento all'art. 7, in AA.VV., La riforma della

    legge fallimentare

    a cura di A. Nigro e A Sandulli, Torino, 2006, 31) non potendosi ammettere un potere di svolgere indagini che, in difetto di una notizia di reato, siano esclusivamente finalizzate ad accertare l'insolvenza di taluno (RAGUSA MAGGIORE-COSTA, Il fallimento, Torino, 1997, 286). Tuttavia in giurisprudenza si è ritenuto che il PM che partecipa al procedimento per la revoca

    ex art. 173

    l. fall

    . del concordato preventivo possa chiedere il fallimento pur non avendo aperto alcun procedimento penale (Trib. Bassano del Grappa, 7 ottobre 2011);

  • se possa agire quando l'insolvenza che emerga da un procedimento non sia accompagnata dalla sintomatica condotta fraudolenta dell'imprenditore

    . La notitia decoctionis acquisita dalle risultanze di un procedimento pendente non pare dover essere corroborata dalla detta condotta fraudolenta dell'imprenditore. Si ripete così che l'indicazione delle condotte fraudolente costituisce un esercizio di esemplificazione. La

    S. Corte di cassazione

    (

    Sez. I civile, 21 aprile 2011, n. 9260

    ) ha deciso che il termine “ovvero” pone un'alternativa di legittimazione del PM.

b) Se la nozione di procedimento penale, la cui pendenza legittima il PM, debba essere precisata con riferimento al titolo di reato e al ruolo che vi assuma il debitore.

Se la notizia d'insolvenza che emerge da un procedimento penale è condizione legittimante necessaria e sufficiente perché il PM richieda il fallimento, non ci si dovrebbe chiedere se il procedimento sia iscritto nei confronti dell'imprenditore e se sia iscritto per un qualche specifico reato. Nulla osta a ritenere che l'insolvenza possa emergere da procedimenti iscritti nei confronti di persone diverse dall'imprenditore e persino nell'ambito di procedimenti iscritti contro ignoti. La notizia d'insolvenza che legittima il PM può emergere nell'ambito di un procedimento iscritto per le più disparate tipologie criminose.

Questa conclusione deve essere verificata considerando che: la norma dell'art. 7 individua comportamenti segnaletici d'insolvenza facendo esclusivamente riferimento alla persona dell'imprenditore; che la stessa norma esemplifica alcune condotte che sostanzialmente integrano la bancarotta fraudolenta patrimoniale; l'

art. 238, comma 2, l.

f

all

. facoltizza il PM ad iscrivere il reato di bancarotta anche prima della declaratoria d'insolvenza e quando già sia stata presentata richiesta di fallimento. Sulla base di questi riferimenti normativi si prospetta un'interpretazione riduttiva della legittimazione del PM, sussistente nella sola ipotesi che proceda per il reato fallimentare nei confronti del debitore (SATTA, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1964, 41). Si ritiene che “il PM legittimato a presentare l'istanza è quello che sta procedendo contro l'imprenditore e deve allegare all'istanza presentata le prove della ricorrenza delle situazioni indicate dalla norma ai fini della legittimazione

” (LO CASCIO, op. cit., 61; RAGUSA MAGGIORE-COSTA, op. cit., 286; AULETTA, L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento (specie del creditore sedicente o non legittimato o rinunciante, in Il Fallimento, 2010, 2, 139). Su questa scia si è posta la Corte di Appello di Milano che in più occasioni ha avuto modo di ripetere che legittima il PM esclusivamente una notizia d'insolvenza che emerga da un procedimento penale per reati fallimentari nei confronti dell'indagato debitore. Così

App. Milano 2 dicembre 2010

ha ritenuto che il PM non fosse legittimato dall'avere acquisito la notizia d'insolvenza nel corso di indagini condotte nei confronti di persone fisiche legali rappresentanti di società diverse da quella della quale chiedeva il fallimento. Analogamente C. App. Milano 22 settembre 2011, ha annullato il fallimento dichiarato dal Tribunale, perché “il richiamo contenuto nella norma alle condizioni di “irreperibilità” o “latitanza” dell'imprenditore devono essere intese in senso tecnico e quindi riferite a fattispecie processuali le quali non possono non riguardare che la persona sottoposta ad indagini”.

Questa conclusione non pare persuasiva ed è esplicitamente contraddetta dalla citata Cassazione (Sez. I civile, 21 aprile 2011, n. 9260), secondo la quale la condotta fraudolenta dell'imprenditore è un dato di legittimazione del PM che conserva autonomia concettuale rispetto all'emersione dell'insolvenza dal procedimento penale. Peraltro anche la citata Corte d'Appello ha ora mutato giurisprudenza (

App.

Milano, 24.1.2012

, fall. EMME AND PARTNERS S.r.l.).

c) Se la condotta fraudolenta dell'imprenditore sia condizione necessaria e sufficiente a legittimare il PM.

La citata

Cassazione n. 9260/2011

non si è limitata a rilevare che legittima alternativamente il PM tanto la notizia d'insolvenza che emerga da un procedimento penale, quanto quella che emerga dalla condotta fraudolenta del debitore, ma ha chiarito che questa seconda ipotesi può venire a conoscenza del PM anche al di fuori di un procedimento penale.

Le segnalazioni dei giudici civili

Nella disciplina previgente al 2006, l'art. 8 l.fall. limitava la segnalazione d'insolvenza da parte del giudice civile al caso in cui l'imprenditore fosse “parte del giudizio”. L'

art. 7 n. 2 l.

f

all

. nella formulazione vigente amplia la segnalazione con riferimento a qualsiasi procedimento civile e quindi monitorio, cautelare, societario, di volontaria giurisdizione, esecutivo (CAVALLI, La riforma della legge fallimentare: profili della nuova disciplina (a cura di S. Ambrosini), Bologna 2006, 43).

Il PM, definito “collettore

” delle segnalazioni provenienti dai giudici civili, non si limita a recepire gli elementi segnalatigli, ma svolge gli approfondimenti necessari.

Si discute se la notizia d'insolvenza possa essere indirizzata al PM dal giudice fallimentare. In un caso – quando al PM sia comunicata la domanda di concordato preventivo

ex art. 161,

ult. co., l.

f

all

. - la notizia d'insolvenza non può,

ma deve essere segnalata al PM, che così è legittimato a chiedere il fallimento

ex art. 162, co

mma

2, l.

fall

. Si tratta, in sostanza, di un'ulteriore ipotesi legittimante che si aggiunge a quelle

ex art. 7 l.

fall

.

Si è ritenuta nulla la sentenza di fallimento pronunciata su richiesta del PM cui il tribunale abbia trasmesso gli atti dopo che il creditore ricorrente aveva desistito, in ciò ravvisandosi una violazione del principio di terzietà del giudice (

Cass. civ., sez. I, n. 4632 del 26 febbraio 2009

). Pare un'opzione alquanto drastica, che la dottrina maggioritaria non accoglie.

Non viola il principio di terzietà il giudice che trasmetta al PM copia del fascicolo fallimentare dal quale emerga la desistenza dei creditori (

Cass. civ., Sez. I, 21 aprile 2011, n. 9260

): “la notizia relativa all'insolvenza, acquisita dallo stesso P.M. a seguito di trasmissione, richiesta da tale organo al tribunale, di copia di istanza di fallimento desistita, non integra una segnalazione da parte dello stesso tribunale fallimentare, ai sensi dell'

art. 7 n. 2 l. fall

., trattandosi, da un lato, di un atto di indagine investigativa e, dall'altro, di mero adempimento comunicatorio, non effettuato "motu proprio".

Ulteriori rilievi sulla tassatività dei casi di legittimazione del PM. Le segnalazioni di privati non legittimati e di giudici amministrativi e tributari

Il diritto comune legittima il PM in sede civile secondo un principio di tassatività: così gli

artt. 2907 c.c.

(“ove la legge lo dispone”) e 69 c.p.c. (“casi previsti dalla legge”). Un potere d'iniziativa di carattere generale, non limitato ai casi elencati dall'

art. 7 l.

fall

., pare privo di fondamento normativo (BONFATTI - CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2007, 49).

In questa prospettiva si è già rilevato doversi escludere che il PM possa chiedere il fallimento:

  • di un'impresa la cui insolvenza abbia conosciuto al di fuori di un procedimento penale;

  • del socio illimitatamente responsabile dell'impresa societaria fallita;

  • di un'impresa la cui insolvenza si sia manifestata oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese.

Si discute se siano legittimanti segnalazioni che giungano al PM da privati diversi dal debitore o da un creditore. La dottrina esclude che sia legittimante la segnalazione di privati quali gli amministratori revocati o i sindaci dell'impresa insolvente. In proposito occorre precisare che una segnalazione d'insolvenza svolta al PM da un privato può integrare la denuncia di reato procedibile d'ufficio (appropriazione indebita, truffa aggravata, false comunicazioni sociali) ed imporre l'iscrizione di notizia di reato, che legittima la richiesta di fallimento

ex art. 7 n. 1,

l.

f

all

.

Analoghe considerazioni possono svolgersi quanto alle segnalazioni provenienti al PM da giudici tributari od amministrativi.

Facoltatività o doverosità della richiesta di fallimento

Nella disciplina previgente, si era consolidata l'opinione che riteneva obbligo del PM chiedere il fallimento ex art. 7 l.

f

all

. e facoltà quella di sollecitazione

ex art. 6

l. fall

..La vigenza del fallimento d'ufficio alleggeriva la posizione del PM, la cui iniziativa era comunque vissuta come un riflesso dell'ufficiosità della procedura.

La disciplina attuale propone letture divergenti.

Secondo una prima ricostruzione, che valorizza quanto enunciato dalla Relazione ministeriale che accompagna il

D.lgs. n. 5/2006

, il PM è investito dell‘obbligo di richiedere il fallimento in presenza delle condizioni legittimanti (PAJARDI, Codice del fallimento, a cura di Bocchiola M. e Paluchowski A, Milano, 2009, 124; TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2007, 49).

Questa esegesi valorizza: in primo luogo, l'esplicita indicazione che si legge nella relazione ministeriale; in secondo luogo, sul piano testuale, la modificata rubrica dell'

art. 7

l. fall

. (intestata “Iniziativa del PM

” e non più “

Stato d'insolvenza risultante in sede penale

”); in terzo luogo, ed ancora sul piano testuale, sia la formula attuale (“

presenta la richiesta

”) quanto l'antevigente formula (

“deve chiedere al Tribunale

) in quanto non alludono ad una facoltà, ma ad un vero e proprio obbligo.

Chi, al contrario, sostiene che al PM sia conferita una mera facoltà di richiedere il fallimento mette in dubbio la portata di quanto enunciato dalla relazione ministeriale, contesta che la rubrica del novellato art. 7 definisca obbligatoria l'iniziativa del PM e sottolinea che la locuzione “presenta la richiesta

” risulta meno cogente della previgente “

deve chiedere al Tribunale

”.

Non manca una opinione intermedia, secondo la quale sarebbe obbligatoria l'iniziativa ex art. 7 n. 1 e facoltativa quella

ex art. 7 n. 2

l. fall

.

Questa disparità di vedute è probabilmente destinata a permanere. Non si pretende qui di risolvere una controversia tanto annosa. Si propone, più semplicemente, di mutare prospettiva, tralasciando per un momento quella dei processualisti fallimentari ed abbracciando quella processualpenale. Da questa prospettiva non ho dubbi che il PM a conoscenza dello stato d'insolvenza di un imprenditore la cui condotta – segnaletica di frode - integri il reato fallimentare non appena sia dichiarato il fallimento, si trova in una posizione chiarissima dal punto di vista del dovere d'ufficio.

Competenza territoriale del PM

Il Tribunale competente al quale indirizzare la richiesta di fallimento è quello,

ex art. 9 l.

f

all

., del luogo ove è ubicata la sede principale dell'impresa. Si pongono qui due questioni: quale sia la sede principale dell'impresa che radica la competenza del Tribunale; se il PM che riceve la notizia d'insolvenza di un'impresa, la cui sede principale ricada al di fuori del circondario di competenza, debba trasmettere gli atti al PM che opera in un diverso circondario.

Quanto al primo punto, va appena ricordato che: a) la giurisprudenza ritiene che sia iuris tantum la presunzione di coincidenza della sede effettiva con quella legale; b) la sede effettiva corrisponde al centro degli interessi principali (COMI), che il Regolamento del Consiglio dell'Unione Europea n. 1346/2000 definisce come “il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale e pertanto riconoscibile dai terzi la gestione dei suoi interessi

”; è irrilevante il mutamento effettivo o fittizio intervenuto nell'anno antecedente la richiesta di fallimento.

Definita la competenza del Tribunale, non v'è unanimità di vedute sulla posizione del PM richiedente. Secondo un'opinione, il PM che acquisisce notizia d'insolvenza di un'impresa che ha sede nel circondario di un diverso Tribunale dovrebbe trasmettere gli atti al PM presso il giudice competente (DIMUNDO, Il giudizio di dichiarazione di fallimento in AA.VV. Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, Torino, 2000, 150).

Secondo altri il PM presso un Tribunale incompetente a dichiarare il fallimento potrebbe attivarsi direttamente proponendo la richiesta al Tribunale competente. Si ritiene che la segnalazione da un ufficio di Procura ad un altro violerebbe il principio di tassatività delle fonti di conoscenza cui il PM può attingere e si propone che il PM incompetente inoltri la segnalazione al Tribunale competente perché segnali al PM competente. Questa opinione non può essere condivisa, perché pare confonda il criterio legale di articolazione territoriale dell'ufficio requirente con il principio di tassatività delle situazioni che legittimano il PM a richiedere il fallimento.

Onere della prova gravante sul PM. Utilizzabilità in sede pre-fallimentare degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini preliminari. Accertamenti esperibili nell'ambito di procedimenti relativi a fatti non costituenti notizia di reato

Titolare di un potere di azione, il PM deve: in punto di rito, verificare la ricorrenza delle condizioni legittimanti ex art. 7 l.

f

all

. e l'assenza di elementi ostativi (quali, ad esempio, indicati dagli artt. 1, 10 e 147 l.fall.); in punto di merito, provare l'insolvenza dell'impresa di cui chiede il fallimento.

Il contesto procedimentale di questi accertamenti può modularsi variamente.

Nel caso in cui la notizia d'insolvenza emerga nel corso di indagini preliminari già pendenti (si è precisato, nei confronti di chiunque per qualsiasi reato), gli accertamenti necessari ed utili alla formulazione della richiesta di fallimento saranno condotti all'interno del procedimento penale.

Quando la notizia d'insolvenza provenga dal giudice civile e – come di solito - il PM non abbia ancora iscritto un procedimento penale riferito alla vicenda nel cui contesto si colloca l'insolvenza, gli accertamenti finalizzati alla verifica delle condizioni di formulazione della richiesta potranno essere svolti:

a) in un procedimento penale che sia iscritto proprio e già sulla scorta degli elementi rassegnati dal giudice civile;

b) in un procedimento relativo a fatti non costituenti notizia di reato (mod. 45).

Nel primo dei due contesti, il PM si muove, nei limiti di legge, con tutti i poteri che sono propri dell'indagine preliminare: assunzione di prove dichiarative; acquisizione coattiva di documenti; accertamenti tecnici contabili. Su questo versante, si è richiesto di verificare se via siano limiti di legge alla allegazione alla richiesta di fallimento di elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini. La

Corte d'Appello di Milano 4 giugno 2010

, sul reclamo presentato dalla BDH N.V., holding del noto gruppo Burani, inedita, ha statuito che i documenti acquisiti dal PM nell'ambito delle indagini preliminari in seguito a perquisizione e prodotti con l'istanza di fallimento possono essere acquisiti al procedimento civile, al pari dei documenti prodotti dalle altre parti, laddove – come nella specie – non sia emerso alcun vizio processuale del provvedimento di sequestro penale.

Nel secondo ambito, laddove il PM debba verificare l'insolvenza quando non è ancora emersa una notizia di reato collegata, occorre definire quali accertamenti siano consentiti. Si ritiene che siffatta verifica non possa essere condotta con l'esercizio dei poteri propri delle indagini preliminari (DONZI, 134), arrivando ad opinare che la richiesta basata su una mera segnalazione d'insolvenza e non collegata ad un'indagine penale abbia riferimento esclusivo all'insolvenza conclamata (AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 185).

Il PM interventore

L'

art. 15, comma

2, l.

f

all

. dispone che il PM che richiede il fallimento deve intervenire nel procedimento. Non è invece chiaro se la cancelleria del tribunale gli debba dare comunicazione della convocazione del debitore. La dottrina ritiene che questa comunicazione sia dovuta. Questa regola non pare doversi applicare al PM che non ha richiesto il fallimento.

Nulla impedisce peraltro l'intervento laddove l'Ufficio sia a conoscenza dell'iniziativa privata e ravvisi un pubblico interesse. Ci si chiede quando sussista detto interesse e se il PM debba rappresentarlo. Taluno ritiene sempre sussistente detto interesse.

Il PM che interviene nel procedimento esercita tutti i poteri d'impulso processuale e di prova spettanti alle altre parti.

Provvedimenti cautelari e conservativi emessi dal Tribunale prima della sentenza

Il PM, quale parte del procedimento prefallimentare, può richiedere al tribunale civile l'emissione di provvedimenti cautelari o conservativi finalizzati a prevenire alterazioni del patrimonio del debitore. Si tratta di uno strumento straordinariamente importante se si considera quanto ardua possa risultare per il PM la richiesta o l'adozione di un sequestro nell'ambito del procedimento penale.

Rigetto della richiesta di fallimento. Reclamo del PM richiedente. Procedimento. Partecipazione del PM non richiedente

Nella disciplina previgente si dubitava che il PM potesse impugnare la sentenza di rigetto del chiesto fallimento. Si tratta di una significativa novità normativa introdotta con il

D.lgs. n. 5/2006

.

Il reclamo si propone con ricorso presentato nella cancelleria della Corte d'Appello. Il termine di proposizione – trenta giorni decorrenti dalla comunicazione effettuata dalla cancelleria del Tribunale - è perentorio e non è soggetto alla sospensione feriale.

Il PM che non ha chiesto il fallimento - e che non ha ricevuto quindi comunicazione del rigetto - può intervenire nel procedimento.

Se il reclamo è accolto, vincola il Tribunale alla dichiarazione di fallimento, che può essere pronunciata senza dover far comparire le parti. Ma può darsi che sia mutato lo scenario considerato dalla Corte d'Appello. Il Tribunale può fissare allora la comparizione delle parti. In questo caso, il PM richiedente dovrebbe partecipare anziché confidare sulla decisione della Corte, non potendosi escludere che la situazione sia mutata.

Sentenza di fallimento. Comunicazione al PM. Conseguenti determinazioni dell'ufficio

La comunicazione per estratto al PM è doverosa a prescindere dal fatto che questi abbia presentato la richiesta di fallimento. La dichiarazione di fallimento può intervenire allorché il PM:

  • non ha iscritto alcun procedimento penale;

  • procede per reati che nulla hanno a che fare con quelli fallimentari, la cui iscrizione sia resa obbligata dalla dichiarazione di fallimento;

  • ha già iscritto reati fallimentari (bancarotta fraudolenta o semplice)

    ex art. 238 l.

    f

    all

    . riferiti al fallimento dichiarato;

  • ha già iscritto fatti di reato diversi dalla bancarotta, che, pronunciata l'insolvenza, devono (es.:

    art. 646 c.p.

    ) o possono (es.: 2621 c.c.) essere riqualificati in termini di reato fallimentare.

In tutti i casi, l'intervento del PM deve essere il più sollecito possibile. Se il PM condiziona la valutazione penale della vicenda fallimentare al deposito della relazione del curatore

ex art. 33 l.

f

all

.- di prassi acquisita a distanza di mesi dal fallimento dichiarato - iscrive notizia di reato ed inizia le indagini in un momento in cui – nei casi più gravi - gli accertamenti possono risultare pregiudicati da iniziative fraudolente post-fallimentari (sparizione di documenti cartacei, ma soprattutto informatici, occultamento o distrazione di beni, condizionamento della prova dichiarativa acquisibile da persone informate ad opera di indagati).

Reclamo contro i decreti del giudice delegato e del Tribunale

Si tratta di una facoltà espressamente prevista in favore del curatore, del fallito, del comitato dei creditori e di “chiunque vi abbia interesse

”. Non è chiaro se spetti al PM un siffatto potere di carattere generale.

L'

art. 143 l.

f

all

. prevede che il PM può presentare reclamo a norma dell'

art. 26 l.

f

all

. contro il decreto che provvede in materia di esdebitazione del fallito.

Reclamo del debitore e di qualunque interessato contro la sentenza dichiarativa di fallimento. Posizione processuale del PM nel giudizio

Il PM non è un “qualunque interessato

”, che possa impugnare la sentenza di fallimento. In dottrina si dubita che il PM sia legittimato passivo necessario nel giudizio di reclamo ancorché il fallimento sia stato dichiarato su sua richiesta, avendo semmai facoltà di intervenire a norma dell'

art. 70 c.p.c.

Si è invece recentemente statuito (

Cass. civ., Sez. IV, 4 settembre 2009 n. 19214

) che la corretta instaurazione del contraddittorio esige che il privato reclamante notifichi l'impugnazione al PM che abbia richiesto il fallimento. Nel caso specifico si è posta questione se nel giudizio di reclamo dovesse rappresentare l'Ufficio requirente il PM di primo grado (al quale la notifica doveva essere ed è stata effettuata) o il PG presso la Corte d'Appello, al quale nessuna notifica fu fatta e che non partecipò al procedimento, nel quale fu invece parte di PM presso il Tribunale. La Cassazione non ha ravvisato nell'anomalia alcun vizio procedimentale considerando il difetto d'interesse del ricorrente in sede di legittimità. Il commentatore ha invece opinato trattarsi di nullità

ex art. 70 ord. giud

.).

Si deve comunque osservare, prendendo spunto da questa vicenda, che un certo protocollo debba presiedere i rapporti tra gli uffici requirenti di diverso grado.

Sentenza di revoca del fallimento. Riflessi su procedimenti penali pendenti. Iniziativa e doveri del PM

Al P.M. non deve essere notificata la sentenza di revoca del fallimento, pure dichiarato su sua iniziativa,

ex art. 18, comma 12, l.

f

all

. La revoca della declaratoria di fallimento, allorché sia passata in giudicato, elide la configurazione dei reati fallimentari. Pare dunque importante che il PM si organizzi per essere informato della revoca e ciò per evitare di promuovere o proseguire un'iniziativa priva del presupposto di legge.

Il rischio disinformativo non è normalmente concreto laddove l'ufficio sia attivo nel procedimento penale e si confronti non occasionalmente con il curatore.

Va appena ricordato che il passaggio in giudicato della revoca della dichiarazione di fallimento non preclude una nuova richiesta di fallimento, su nuovi presupposti.

Ruolo del pm nell'ambito della procedura per l'ammissione al concordato preventivo

Procedura storicamente “minore” rispetto al fallimento, il concordato preventivo è una forma di composizione concordata della crisi d'impresa, rilanciata dalle recenti novelle e per nulla ridimensionata dall'inedita procedura di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Il ricorso al concordato preventivo non sembra marginale. A Milano queste procedure rappresentano un totale che è pari, grosso modo, ad un decimo delle procedure fallimentari. Dal punto di vista qualitativo pare che ricorrano alla procedura concordataria imprese di dimensioni più rilevanti rispetto alla media di quelle per le quali viene richiesta l'apertura della procedura fallimentare.

Questi dati bastano a far comprendere quanto possa essere rilevante l'attenzione del PM per queste procedure.

Il c.d. nuovo profilo privatistico del concordato preventivo

Si è ancora recentemente osservato che, nella fase dell'ammissione, il giudice avrebbe meri poteri di verificaformale (o poco più) della domanda del debitore e dell'acclusa relazione del professionista (MUCCIARELLI, Stato di crisi, piano attestato, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e fattispecie penali, in Rivista trimestrale di diritto penale dell'economia, 2009, n. 4, 835). Questa opinione si sarebbe certo attagliata alla disciplina introdotta dalla

legge 80/2005

(antevigente al

D.lgs. 169/2007

) a tenore della quale (

ex art. 163

l. fall

.) il Tribunale non poteva andare oltre la “verifica della completezza e regolarità della documentazione

” (nel 2006 ALESSANDRI, Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi d'impresa, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2006, 117, e BRICCHETTI-MUCCIARELLI-SANDRELLI, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna-Roma, 2006, 2746). Dopo l'ultima novella del 2007 questo giudizio non vale più (RAGO, I poteri del tribunale sul controllo della fattibilità del piano nel concordato preventivo dopo il decreto correttivo, in Il fallimento, 2008, n. 3, 264 ss.).

In realtà il tribunale non può, né deve valutare la convenienza della proposta, questione interamente rimessa ai creditori, ma può e deve valutarne la fattibilità. Il controllo che il tribunale è chiamato ad esercitare non è meramente formale, ma sostanziale. La valutazione prende le mosse dalla relazione dell'attestatore – sul quale grava la responsabilità della veridicità dei dati assunti - e ne verifica la completezza informativa e logicità argomentativa (Trib. Milano, 18 marzo 2010, Est. Lamanna

). Siffatto controllo non è segno di alcun principio di privatizzazione.

Più in generale, la procedura – pure in presenza di un presupposto oggettivo che non è più esclusivamente l'insolvenza, ma il più lato stato di crisi, inteso come stato di insolvenza o di pericolo di insolvenza - continua ad essere permeata da regole finalizzate alla realizzazione di un interesse pubblicistico. Non a caso in questo quadro si spiega : che la domanda sia obbligatoriamente comunicata al PM (

art. 161, u. co.,

l. fall

.); che il tribunale possa chiedere al debitore di integrare il piano e produrre nuovi documenti (

art. 162, co

mma

1,

l. fall

.); che dichiari inammissibile la proposta all'esito della verifica dei presupposti (

art. 162, co

mma

2,

l. fall

.); che, ammessa la procedura, nomini un commissario giudiziale, che è pubblico ufficiale (

art. 165 l.

f

all

.).; che revochi la procedura se il debitore ha compiuto atti di frode (

art. 173

l. fall

.); che il debitore che abbia fraudolentemente agito per conseguire l'ammissione sia penalmente responsabile (

art. 236

l. fall

.).

Intervento del PM. Obbligo o facoltà

Nella disciplina previgente rispetto al

D.lgs. 169/07

non vi era unanimità di vedute su questo punto. L'intervento del PM era ritenuto obbligatorio sulla base di un argomento testuale persuasivo: secondo l'antevigente

art. 162

l. fall

. il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda “sentito il pubblico ministero

”. La contraria opinione, basata sulla ritenuta privatizzazione della procedura concorsuale, era seguita da meno numerosi sostenitori.

La disciplina introdotta dall'ultima novella, abrogativa dell'anzidetto inciso dell'

art. 162

l. fall

. ed introduttiva dell'obbligo di comunicazione della domanda al PM

ex art. 161, ult. co.,

l. fall

., viene ancora letta in modo opposto, ma prevale l'opinione che reputa l'intervento del PM facoltativo in una cornice privatistica della procedura, nella quale la comunicazione oggi dovutagli avrebbe la semplice funzione di informarlo della pendenza del procedimento, lasciandolo arbitro di intervenire o meno.

A sostegno della contraria opinione, secondo la quale l'intervento del PM sarebbe obbligatorio, si assume un dato di carattere testuale: dal combinato disposto degli

articoli 70

e

71 c.p.c.

emerge che il giudice ha l'obbligo di comunicazione della domanda al PM nei casi in cui l'intervento è obbligatorio. In questo quadro, l'obbligo di comunicazione

ex art. 161, ult. co., l.

f

all

. non è altro che un'applicazione della regola

ex art. 738, comma

2, c.p.c.

, a tenore del quale “se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti sono a lui previamente comunicati

”.

Il dilemma non pare quindi irrevocabilmente sciolto. L'incertezza può generare rilevanti effetti distorsivi: l'inerzia del PM a fronte di un intervento ritenuto obbligatorio genera nullità del processo civile rilevabile d'ufficio; la medesima inerzia, che pure lascia immune da vizi il procedimento civile, integra l'omessa doverosa iniziativa del PM nel campo del diritto penale fallimentare.

Se si considerano i differenti effetti di siffatta inerzia del PM nella procedura concordataria si comprende perché i cultori del processo fallimentare accolgano senza riserve la facoltatività dell'intervento del PM. In opposta prospettiva, si comprenderebbe se i penalisti – e particolarmente i pubblici ministeri – si preoccupassero degli effetti che l'inerzia può determinare sul piano del doveroso esercizio dell'azione penale.

In realtà non si può contestare che la disciplina novellata, caducando il potere di dichiarare il fallimento d'ufficio, non per questo ha privatizzato

la procedura (ciò di cui può dubitarsi, invece, se ci si riferisce all'assottigliata discrezionalità del giudice in ordine alla valutazione della domanda) e soprattutto ha conferito al PM una funzione nevralgica, ben diversa da quella disegnata dalla previgente normativa, poco più che ornamentale. La complessiva disciplina del concordato preventivo, a ben vedere, presuppone che il PM sia effettivamente parte della procedura. Ciò emerge per più versi:

  • l'

    art.

    162, comma 2 l. fall
    .

    (inammissibilità della proposta di concordato preventivo cui può conseguire il fallimento su richiesta del PM) sembra dare per scontata la partecipazione del Procuratore. Se questo, avvisato, non prende parte al procedimento, non può venire a sapere che il Tribunale fallimentare ha rigettato la domanda. Deve escludersi che incomba al giudice una suppletiva comunicazione, ulteriore rispetto a quella iniziale

    ex art. 161

    l. fall

    ., come tassativamente è previsto dall'

    art. 173

    l. fall

    . in caso di revoca del concordato. Il duplice effetto di questa inerzia (sotto il profilo fallimentare un'impresa insolvente continua ad operare sul mercato, sotto il profilo penale non si procede per reati fallimentari eventualmente sussistenti) ricade interamente sul PM;

  • il meccanismo di responsabilizzazione del PM è ancora più grave se si considera il procedimento di revoca del concordato preventivo. L'

    art.

    173, comma 2, l. fall
    .

    dispone che il tribunale dichiara il fallimento (anche) su richiesta del PM al quale, ai sensi del primo comma, ha dato comunicazione della pendenza della segnalazione del commissario giudiziale. Motivo della revoca sono comportamenti che integrerebbero la violazione dell'

    art. 236, co

    mma

    1, l.

    f

    all

    . da parte dell'imprenditore individuale (l'attribuzione di attivi inesistenti fatta allo scopo di ammissione alla procedura

    ex art. 236, co

    mma

    1, l.

    f

    all

    . rientra certamente tra gli atti di frode

    ex art. 173, co

    mma

    1, l.

    f

    all

    .) e dell'art.

    223

    l.

    f

    all

    . del titolare di funzione organica nell'impresa societaria (l'occultamento e dissimulazione di attivi

    ex art. 173, co

    mma

    1,

    l. fall

    . è ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale

    ex art. 223, co

    mma

    1,

    l. fall

    .; la dolosa omessa denuncia di crediti e l'esposizione di passività insussistenti è ipotesi di bancarotta documentale fraudolenta

    ex art. 223,

    co

    mma

    1,

    l. fall

    .) se il concordato non fosse revocato. Comportamenti che – in caso di revoca ed in mancanza di richiesta di fallimento – sarebbero penalmente irrilevanti. L'effetto dell'inerzia del PM, se nessun creditore chiede il fallimento, è quindi ancora più eclatante di quello che nasce in caso di rigetto della domanda di concordato, perché la revoca presuppone una condotta fraudolenta del debitore, che così potrebbe restare esente da responsabilità.

  • Una situazione analoga si propone in sede di giudizio di omologa del concordato preventivo: l'

    art.

    180, ult. co., l. fall
    .

    dispone che il tribunale, se respinge il concordato, dichiara il fallimento su iniziativa del creditore o del PM. Il quesito sull'obbligatorietà o facoltatività della comunicazione al PM di questa fase procedimentale (ritenuta obbligatoria a pena di nullità nella disciplina antevigente ed oggi facoltativa in virtù dell'iniziale comunicazione

    ex art. 161

    l. fall

    .) non pare centrale quanto il rilievo – che attiene allo statuto ed alla responsabilità del PM – che riguarda il grave effetto dell'inerzia dell'ufficio requirente e che consiste nell'esenzione da responsabilità penale fallimentare.

  • Non va dimenticato, infine, che l'assenza del PM può avere riflessi rilevanti sul giudizio che il tribunale è chiamato a svolgere in ordine all'ammissione alla procedura e particolarmente sulla valutazione della relazione

    ex art.

    161, comma. 2, l. fall
    .

    predisposta dal debitore e quella del professionista

    ex art.

    161, comma 3, l. fall
    .

    . Se questi elaborati costituiscono, in assenza di istruttoria, i soli riferimenti sui quali il tribunale può fondare il giudizio di ammissibilità e se il potere di verifica rimesso al giudice può riguardare esclusivamente la coerenza intrinseca delle relazioni, allora la presenza del PM – che

    ex art. 72 c.p.c.

    può produrre documenti e dedurre prove - costituisce una insostituibile dialettica processuale, idonea a prevenire e sanzionare abusi. A questo riguardo sarebbe interessante stabilire quale possa essere il rilievo penale di relazioni rappresentative di dati non veri. Allo stato manca giurisprudenza sul punto, probabilmente in conseguenza della non assidua presenza del PM in queste procedure. Si prospettano esegesi pregevoli, ma piuttosto incerte, alle quali si rimanda senza pretesa di prospettare soluzioni (GIUNTA-SCARCELLA, Riflessi penali della nuova disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali, in AA.VV., La riforma della

    legge fallimentare

    a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2009, 1219).

Sulla scorta di questi rilievi, la giurisprudenza non dubita del ruolo del PM in sede di procedura di ammissione al concordato preventivo. Il Tribunale Milano (Decreto 28 ottobre 2011, Pres. est. Lamanna

) ha rigettato un'obiezione del debitore ripetendo che: “

Il pubblico ministero, in quanto parte del procedimento concordatario ai sensi dell'

articolo 161, ultimo comma, legge fallimentare

, ha piena facoltà di contraddire sulla domanda di concordato preventivo, soprattutto nel caso in cui detto organo si sia fatto promotore, ai sensi dell'

articolo 7, legge fallimentare

, della richiesta di fallimento o della dichiarazione di insolvenza”.

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l. fall.

L'accordo di ristrutturazione è un contratto di diritto privato (pactum de non petendo, remissione parziale di debito, costituzione di una garanzia, conversione di credito in capitale), che, per essere produttivo di effetti legali, è sottoposto al vaglio del giudice esplicantesi nel giudizio di omologazione. La fase giudiziale così innescata non integra un procedimento concorsuale e differisce, in particolare, dal procedimento di ammissione al concordato preventivo (MANDRIOLI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti

ex art. 182 bis l. fall.

, in Il fallimento, 2010, 5, 610; Trib. Brescia, decreto 22 febbraio 2006; Trib. Roma 16 ottobre 2006; Trib. Milano 24 gennaio 2007. Si veda anche

Cass. SS.UU. 26 febbraio 2009 n. 24468

).

Non deve trarre in inganno il fatto che presupposto oggettivo del giudizio di omologa richiesto al giudice è quello stato di crisi dell'impresa, quella difficoltà finanziaria già incontrata quale presupposto del concordato preventivo. In realtà, è stato esattamente notato, il presupposto oggettivo dell'omologa è diverso da quello proprio del concordato preventivo, perché esclusivamente in quest'ultimo ambito “per stato di crisi si intende anche lo stato d'insolvenza

” (

art. 160, co

mma

3,

l. fall

.). Ciò da cui consegue che l'accordo di ristrutturazione è omologabile soltanto laddove la crisi non sia ancora insolvenza.

Il giudizio di omologa

L'

art. 182

bis

l. fall

. non specifica il criterio di giudizio che il tribunale deve seguire sicché ne conseguono opposte opzioni esegetiche. Piuttosto isolata pare l'opinione che, in assenza di opposizioni, il giudice debba limitarsi alla sola verifica della regolarità formale degli adempimenti procedimentali. Un'opinione più diffusa e ripetuta dalla giurisprudenza nega trattarsi di mero controllo di regolarità formale. In questi termini si sono pronunciati: il Trib. Milano 24 gennaio 2007, dianzi citato, secondo cui “il controllo non deve limitarsi alla mera constatazione asettica dell'intervenuta approvazione del piano, ma deve anche concretamente entrare nel merito del ricorso e soffermarsi con attenzione sulla concreta attuabilità del piano, intesa come il rispetto coerente degli accordi prospettati sulla base delle concrete prospettive di realizzo, basandosi su un ragionevole grado di monetizzazione, con particolare attenzione alla posizione dei creditori estranei all'accordo”. In termini analoghi, il Trib. Roma 5 novembre 2009, ha respinto il ricorso osservando che se il giudice deve prescindere dalla valutazione di merito sulla convenienza dell'accordo deve però verificare se la relazione fornisce un quadro attendibile e veritiero dei dati riportati e dell'attuabilità dell'accordo e se l'attestatore ha fornito un quadro coerente e completo. Secondo

Trib. Milano 15 ottobre 2009

, “l

a valutazione che il tribunale è chiamato a compiere in ordine alla fattibilità degli accordi di ristrutturazione è d'intensità diversa, a seconda che vi siano o meno opposizioni di creditori non aderenti. In mancanza di opposizioni il tribunale deve procedere alla disamina della chiarezza espositiva e della completezza della relazione del professionista, verificando che le analisi e le valutazioni svolte dall'esperto siano accurate, logiche, coerenti ed esaustive. Il profilo della fattibilità è quindi scrutinato su un piano astratto, strettamente ancorato alla razionalità argomentativa della relazione. Laddove, invece, vi siano opposizioni, il controllo assume un'estensione e una concretezza maggiori, immediatamente correlate alle doglianze che sono svolte dai creditori opponenti con facoltà di esaminare nel merito le censure svolte dai creditori contrari all'omologa e di verificarne ogni possibile ricaduta sulla concreta attuabilità dell'accordo e/o sulla sua capacità di assicurare il pieno soddisfacimento ai creditori estranei”.

Alla stregua di queste massime, si può convenire con chi rileva che il c.d. giudizio di merito non può mai andare oltre una rivalutazione critica dell'opinione del professionista laddove il giudice non dispone di poteri istruttori e non è prevista una figura che controlli i dati offerti dal ricorrente.

Il ruolo del PM

La disciplina degli accordi di ristrutturazione non fa alcuna menzione del ruolo del PM. Questo silenzio non è ovviamente sufficiente a ritenere la sua estraneità rispetto alla procedura

ex art. 182

bis

l. fall

. Già il fatto che il debitore sia un'impresa insolvente è circostanza che il PM non può, né deve ignorare. Anche laddove il debitore assuma di versare nel meno critico stato di crisi, si comprende che l'attenzione del PM non può essere distolta, non fosse che per il difficile discrimine della crisi rispetto all'insolvenza. Laddove il PM che sia a conoscenza del ricorso vi si opponga, amplia già per questo lo spettro di valutazione e la compiutezza del controllo giudiziale. Se poi, approfondendo l'analisi, il PM acquisisca la prova dell'irreversibile insolvenza e richieda il fallimento, svolge un compito giuridicamente precluso al tribunale e pressoché insostenibile per i creditori. A questo – che già consiglia ed impone al PM di assumere un ruolo nei giudizi in parola – va aggiunto un dato che pare significativo: la prassi recente segnala che alle procedure di omologa di accordi di ristrutturazione ricorrono spesso imprese di notevoli dimensioni, la cui crisi può contrassegnare negativamente un vasto ceto di soggetti coinvolti. Non serve aggiungere altro per segnalare la rilevanza del tema. Occorre allora affrontare le più rilevanti questioni che l'ingresso del PM in questa procedura pone.

Cognizione, da parte del PM, della pendenza dei ricorsi ex art. 182 bis l. fall.

Gli accordi sono pubblicati nel registro delle imprese e vanno anche depositati nella cancelleria del tribunale fallimentare con la richiesta di omologa. La norma non prevede alcuna comunicazione al PM, a differenza di quanto avviene in sede di ricorso per l'ammissione al concordato preventivo. Si tratta di una situazione simile alla presentazione di un ricorso privato per la dichiarazione di fallimento. Va da sé che il PM non verifica in continuità il registro delle imprese, ma neppure può permettersi di ignorare la pendenza di queste procedure. Pare quindi perfettamente ammissibile che il PM richieda alla cancelleria del Tribunale la segnalazione dei ricorsi

ex art. 182 bis l. fall.

che siano stati depositati. Questa è la prassi instaurata dalla Procura di Milano.

V'è un caso in cui il PM è immediatamente a conoscenza dell'iniziativa

ex art. 182

bis

l. fall

.: quando questa viene assunta allorché sia già pendente una richiesta di fallimento. La giurisprudenza afferma la sindacabilità incidentale dell'accordo nel procedimento per la dichiarazione di fallimento (App. Trieste 4 settembre 2007) ritenendo che il deposito dell'accordo non incida sulla procedibilità dell'iniziativa mirata alla declaratoria di fallimento. Si è precisato che i due procedimenti vanno riuniti per il rapporto di connessione e di pregiudizialità tra la richiesta di omologa – il cui accoglimento integra il superamento dello stato di crisi - e quella di fallimento e che l'iniziativa del PM rimane perfettamente procedibile ai sensi dell'

art. 182

bis

c

omma

3

l. fall

. poiché non si confonde con le iniziative cautelari dei creditori.

L'opposizione del PM all'omologa

L'accordo può essere oggetto di opposizione da parte dei creditori e di ogni altro interessato

(

art. 182-

bis

c

omma

4

l. fall

.). In questa categoria può rientrare il PM che ritenga di intervenire nel giudizio di omologa (

Trib. Milano 15 ottobre 2009

citata, ma anche Trib. Milano 25 marzo 2010). Quest'ultima decisione ha precisato che l'intervento va ricondotto sia alla previsione dell'

art. 70 u.c. c.p.c.

(intervento in ogni procedimento civile ove ravvisi un interesse pubblico), sia all'

art. 182

bis

l. fall

. che legittima ogni interessato.

Questa iniziativa del PM può innescare una dialettica processuale che amplia la portata del giudizio di omologa, altrimenti prossimo al significato di una mera convalida della richiesta del debitore ricorrente. L'opposizione, come tale, tuttavia, non equivale ad una richiesta di fallimento, tanto che – se il tribunale non omologa - non perciò può dichiarare il fallimento in mancanza di una richiesta. Il PM opponente può trovarsi nella situazione di non poter presentare richiesta di fallimento in almeno due ordini di casi.

Può darsi, innanzitutto, che il PM sia privo della legittimazione

ex art. 7

l. fall

. per il fatto che non ha ancora aperto un procedimento penale dal quale emerga la vicenda d'insolvenza. In questa situazione, non è imprevedibile che, presa visione del bilancio del debitore e rilevatane la falsità, iscriva notizia di reato

ex art. 2621 c.c.

oppure iscriva ipotesi di reato (truffe, appropriazioni indebite) segnalategli dai creditori estranei agli accordi in parola.

Può darsi che – pur legittimato – il PM non possa provare lo stato d'insolvenza, perché il debitore versa in quell'indefinito limbo che pare sia lo stato di crisi

. Tra l'insolvenza e lo stato di crisi non ha cittadinanza l'

insolvenza prospettica

, proiettata nel futuro.

Decisione di omologa da parte del tribunale. Reclamo del PM

La decisione, di omologa o di rigetto, è reclamabile in Corte d'Appello

ex art. 183

l. fall

. Nulla sembra impedire al PM di proporre reclamo contro l'omologa quando – analogamente alla situazione in cui propone opposizione al tribunale - abbia ragione di contestare l'omologa, ma non abbia legittimazione o elementi di prova d'insolvenza per presentare richiesta di fallimento.

Decisione di omologa. Richiesta di fallimento post-omologa

Si è rilevato che il deposito dell'accordo non incide sulla procedibilità dell'iniziativa mirata alla declaratoria di fallimento (§ 4.2.1.) Si deve ritenere che pure l'intervenuta omologa non pregiudichi iniziative ex

artt. 6

e

7

l. fall

. Il PM può dunque svolgere richiesta di fallimento – quando sia legittimato e sussista l'insolvenza – pur dopo l'intervenuta omologa

ex art. 182-

bis

l. fall

.

Il Trib. Milano, che ha omologato gli accordi presentatigli ed ha rigettato la richiesta di fallimento

ex art. 7

l. fall

., ha statuito che “all'ufficio del PM sarà affidata ...un'opera di attenta vigilanza sulla regolare attuazione degli accordi

”.

Mancata omologa. Ma anche mancata iniziativa del PM

I soggetti legittimati all'iniziativa per la dichiarazione d'insolvenza - i quali possono agire pur dopo

l'omologa

ex art. 182-

bis

l. fall

. - a fortiori possono chiedere il fallimento in pendenza del procedimento di omologa, e – ancora a maggior ragione – quando il ricorso per l'omologa sia stato respinto.

La mancata omologa non consente tuttavia al Tribunale di dichiarare il fallimento se non c'è l'iniziativa di un creditore o del PM.

Accordo di ristrutturazione omologato e difetto di successiva procedura concorsuale. Mancanza del presupposto di reati fallimentari

Se l'accordo è omologato e non segue procedura concorsuale, non v'è spazio per la prospettazione di reati fallimentari. L'

art. 236

l. fall

. non consente di applicare le norme penali della

legge fallimentare

analogicamente al debitore che abbia fatto ricorso all'omologa ex 182 bis

l. fall

. (

Cass. Pen. SSUU 26.2.2009, n. 22468

).

L'applicazione del divieto di analogia pare decisivo. L'omologa

ex art. 182

bis

l. fall

. non può essere ritenuta equivalente all'ammissione al concordato preventivo. Da questo punto di vista la decisione delle Sezioni Unite non può essere messa in discussione.

Lascia forse qualche dubbio la scelta degli argomenti a partire dai quali si coglie la differenza tra i due istituti e che la Corte individua: a) nel fatto che l'accordo “non prevede un organo di controllo per la valutazione iniziale e per lo svolgimento della procedura

”, laddove “

il sopravvenire dell'omologazione non attribuisce connotazione pubblicistica all'accordo

”; b) nella circostanza che il ricorso “

non va comunicato al PM per un suo eventuale intervento

”.

In proposito occorre considerare: a) che gli accordi negoziali trovano efficacia se superano il giudizio di concreta attuabilità del piano, non esattamente un atto dovuto; b) che pare doversi qualificare privatistica

ogni procedura nella quale i ricorsi privati non debbano essere comunicati al PM, altrimenti privatistica sarebbe anche la procedura fallimentare.

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