Speciale Decreto Sviluppo - La “nuova” responsabilità penale dell'attestatore

Gianluca Minniti
03 Agosto 2012

L'art. 236-bis, introdotto dal ”Decreto Sviluppo” prevede la nuova fattispecie di reato di “Falso in attestazioni e relazioni”.L'entrata in vigore di tale norma consentirà di porre fine ai laboriosi tentativi di ricorrere al diritto comune per sanzionare penalmente gli attestatori infedeli. L'Autore analizza i presupposti soggettivi e oggettivi della nuova fattispecie penale, il concetto di informazione ed i confini della “rilevanza”, soffermandosi, infine, sulla responsabilità dell'attestatore “di fatto”.
I tentativi di far fronte al “vuoto” normativo

Prima di affrontare le diverse questioni sollevate dalla nuova fattispecie penale ormai prossima ad entrare in vigore, appare opportuno svolgere un rapido excursus per rappresentare gli esiti dei tentativi di individuare, nel diritto vivente, una norma che potesse sanzionare penalmente le false attestazioni, a fronte del delicato ruolo assegnato all'esperto dal legislatore della riforma fallimentare.

In particolare, l'esigenza di individuare un presidio penale era sostenuta da chi stigmatizzava la mancanza di rigorose previsioni normative che potessero garantire un'effettiva indipendenza dell'attestatore rispetto al suo cliente, l'imprenditore in crisi. La risposta del legislatore è stata, sul punto, probabilmente anche eccessiva, posto che la disciplina in corso di approvazione prevede, da un lato, una complessa indicazione dei requisiti di indipendenza dell'esperto e, dall'altro, l'introduzione di una fattispecie penale che appare eccessivamente rigorosa sia per quanto riguarda la misura della pena, sia in relazione alla previsione di punibilità anche a titolo di dolo generico.

L'entrata in vigore dell'art. 236-bis consentirà comunque di porre fine ai laboriosi tentativi di ricorrere al diritto comune per sanzionare penalmente gli attestatori infedeli. Infatti, l'unica certezza raggiunta all'esito del dibattito dottrinale svoltosi prima dell'elaborazione dell'

art. 236-

bis

l. fall

. riguardava la configurabilità (seppur mai affermata - per quanto noto - giudizialmente) del concorso dell'attestatore quale extraneus nei reati fallimentari posti in essere dall'imprenditore, con particolare riferimento all'

art. 236, comma

2, l

.

fall

. , ma anche in relazione ai reati di bancarotta preferenziale e causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose.

Più complesso ed articolato è stato, invece, l'esito dei tentativi di individuare una figura delittuosa applicabile direttamente all'attestatore infedele. L'unico approdo non contestato, peraltro condiviso anche da una delle pochissime pronunce sull'argomento ad oggi note (

Trib. Torino, 31 marzo 2010

), è l'impossibilità di riconoscere all'esperto la qualifica di pubblico ufficiale, con la conseguenza di restringere notevolmente le norme sanzionatorie in astratto applicabili. Maggiori consensi si sono, invece, registrati in relazione alla possibilità di applicare la fattispecie di “falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità

” punita dall'

art. 481

c.p

.

(Gianoglio, Strumenti di soluzione della crisi di impresa, ruolo dell'attestatore e profili penali, in ilFallimentarista.it, 17.7.2012), ovvero, in caso si ritenga il ruolo del professionista privo di qualsivoglia valenza pubblicistica, quella di “falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico

”, di cui all'

art. 483

c.p.

Tale seconda norma sanzionatoria è stata, in concreto, recentemente applicata dal GIP del Tribunale di Rovereto (Trib. Rovereto 12 gennaio 2012) in una sentenza certamente anticipatoria delle problematiche che si porranno in caso di entrata in vigore della nuova fattispecie attualmente “in gestazione”.

In particolare, il giudice trentino ha condannato l'attestatore di un concordato preventivo reo di non aver indicato tra le componenti attive del patrimonio della società un risconto relativo al maxicanone pagato poco prima della presentazione del ricorso

ex

art.

160 l

. fall

. per un leasing immobiliare. Poiché detto risconto era nei fatti confluito nel ramo d'azienda oggetto di trasferimento, il GIP, a fronte della difficoltà di pronunciarsi circa la congruità del prezzo di cessione, peraltro autorizzata

ex

art.

167 l

. fall

. dal giudice delegato della procedura, ha ritenuto sussistente la contestata falsità, imputando all'esperto di “non avere indicato e posto all'attenzione dei creditori e degli organi della procedura una parte dell'attivo, costituita, appunto, da quell'anticipo sui canoni di locazione, di cui avrebbe necessariamente goduto, al termine dell'operazione, l'acquirente dell'azienda stessa”. Per effetto di tale omissione, secondo la sentenza di condanna, i creditori non sarebbero stati compiutamente informati e non avrebbero potuto esprimere un “libero ed autonomo consenso” in ordine alla convenienza della proposta, dovendo “subire” la valutazione di congruità operata dall'attestatore.

Una siffatta motivazione non può però essere condivisa e ciò per le seguenti ragioni, che occorre ribadire anche in vista dell'entrata in vigore della norma sanzionatrice speciale. Tralasciando la dibattuta questione circa l'ammissibilità ed i limiti di un giudizio di verità/falsità avente ad oggetto dati, come quelli “contabili”, connotati da indubbi profili valutativi, si deve però sottolineare con forza che il giudizio sulla veridicità dei dati contabili che l'attestatore è chiamato ad effettuare non è fine a sé stesso, ma è strumentale e prodromico al vero oggetto della sua valutazione, che riguarda la fattibilità del piano. Compito precipuo dell'attestazione è quello di trasmettere una valutazione, complessa ed articolata, relativa alla tenuta del piano proposto dal debitore, che, ovviamente, come tale, non può prescindere da un'analisi e verifica della correttezza dei “numeri” su cui il piano stesso si fonda. Tale verifica rileva non in assoluto (come quella operata dal curatore in sede di relazione

ex

art.

33 l

.

fall

.), ma esclusivamente in relazione allo scopo finale dell'attestazione.

In quest'ottica, la mancata indicazione e valorizzazione di una potenziale attività della società debitrice, se certamente può rilevare - anche penalmente - sotto altri profili (si pensi all'occultamento di “beni”, di cui all'

art.

216 l

.

fall

.), non influenza evidentemente il giudizio dell'attestatore in punto di fattibilità del progetto concordatario. Tutt'al più l'omessa evidenza di un attivo liquidabile potrebbe rilevare in ordine al giudizio di convenienza della proposta rispetto alle alternative concretamente praticabili, ma anche questo profilo esula da quella che è la precipua finalità dell'attestazione, sia essa resa in relazione ad un concordato preventivo, ad un accordo di ristrutturazione o ad un piano attestato.

Parimenti è da ritenersi irrilevante anche l'eventuale infedele giudizio reso dall'attestatore riguardo alla congruità dei corrispettivi per le cessioni previste nell'ambito del piano concordatario. Non è, infatti, certamente compito dell'esperto (ma, piuttosto, del commissario giudiziale) quello di prevenire atti distrattivi o depauperativi del patrimonio del debitore.

Il concetto di “informazione” ed i confini della “rilevanza”

L'art. 236-bis punirà sia le infedeltà attive, che quelle passive, andando a colpire anche gli omissis consapevolmente introdotti dall'attestatore, purché relativi ad “informazioni rilevanti”.

Vale sin da subito evidenziare che il legislatore ha individuato precisamente l'oggetto della condotta illecita. Anzitutto, sono coperte da sanzione penale solo quelle falsità che riguardano “informazioni”. Circa l'ampiezza di tale concetto, va ricordato che, in tema di false comunicazioni sociali, la migliore dottrina aveva giudicato sostanzialmente ininfluente la sostituzione del termine “fatti” con quello di “informazioni” (Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2007, 51). Al riguardo appare ragionevole ritenere che la nozione di “informazioni” ricomprenda non solo i “dati contabili” (seppur nei limiti sopra anticipati), ma anche tutte le notizie, gli scenari e le analisi che l'esperto utilizza nelle sue valutazioni. Ed è qui che va collocato il limite all'oggetto della falsità: mentre sono certamente sensibili, sotto il profilo penale, tutte le informazioni che costituiscono il presupposto, l'ossatura del procedimento valutativo, non potrà essere oggetto della falsità di cui all'

art. 236-

bis

l. fall

. la valutazione in ordine alla fattibilità del piano, come anche tutte quelle valutazioni di secondo grado che ne costituiscono il presupposto. Si faccia riferimento, ad esempio, a quello che il più delle volte costituisce il “cuore” dell'attestazione: la valutazione in merito alla “tenuta” del piano industriale, con particolare riguardo ai flussi di cassa futuri destinati a soddisfare i creditori. Ebbene la falsità, per essere penalmente punibile, dovrà avere ad oggetto gli elementi di fatto, di natura contabile, economica o finanziaria sui quali si fonda il giudizio di “tenuta” del piano (come l'esistenza di brevetti potenzialmente idonei a far crescere le vendite, l'implementazione di politiche di contenimento dei costi oppure l'inizio di un trend di ripresa del settore di riferimento), ma non anche il percorso logico–argomentativo, specie se coerente con le best practices di riferimento, in base al quale l'esperto è giunto alla sua conclusione. In ultima analisi, il legislatore ha voluto preservare il momento più delicato dell'operazione dell'attestatore dagli inevitabili rischi derivanti dalla sua sottoposizione al vaglio penale. La previsione di limitare le falsità sanzionabili a quelle che hanno ad oggetto esclusivamente “informazioni” tutela l'operato dell'attestatore, istituendo un'area protetta, proprio con riferimento a quella parte di attestazione ove ben difficilmente possono trovare spazio valutazioni di verità/falsità. Una siffatta conclusione sembra essere rispettosa di quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui il falso ideologico sussisterebbe anche quando ha ad oggetto valutazioni da svolgersi secondo schemi operativi tecnicamente indiscussi, posto che, nel caso delle attestazioni, residuano, pur nell'ambito di linee guida sufficientemente delineate, margini discrezionali non certamente irrilevanti, che, fatto salvo ogni giudizio in punto di responsabilità civile, certamente non possono in alcun modo condurre a conseguenze sul piano penale.

Circa la condotta omissiva, val la pena sottolineare che la stessa pare integrare, in realtà, non tanto un vero e proprio reato omissivo, quanto un c.d. “falso ideologico per omissione”, sulla falsariga di quello previsto in tema di false comunicazioni sociali dagli

artt. 2621

e

2622 c.c

.

(Iacoviello, Il falso ideologico per omissione, in Cass. Pen., 1996, 1425), posto che l'attestatore, in realtà, rappresenta falsamente l'idoneità del piano per effetto del nascondimento di informazioni, che, ove rese note, avrebbero condotto ad un giudizio diverso.

Le approfondite riflessioni effettuate in tema di false comunicazioni sociali sono utili, altresì, per meglio definire la portata del concetto di “rilevanza”, che delimita il disvalore penale dell'informazione omessa. Anche in questo caso sembra si possa ritenere che, come affermato in tema di falso in bilancio, “solo un riferimento ai contenuti prescritti dalla legge civile alle singole comunicazioni può riempire un concetto aperto come quello di “nascondimento”, che rimanda ad un obbligo di comunicazione” (Pedrazzi, Profili penali dell'informazione societaria, in a.a.

, L'informazione societaria, II, Milano, 1982, 1130). Simmetricamente, quindi, il contenuto effettivo dell'informazione omessa dovrà essere confrontato con quanto imposto all'attestatore dalla disciplina di riferimento prevista dalla

legge fallimentare

. Non solo, coerentemente con la previsione del precetto penale quale extrema ratio a tutela dell'ordinamento, appare doveroso non limitarsi al mero rinvio alle norme concorsuali, introducendo un “quid pluris” necessario per integrare la fattispecie, che potrebbe essere individuato proprio nella mancata evidenziazione di un dato significativo rispetto al giudizio di idoneità del piano (Sul concetto di “significatività” si veda Pedrazzi, voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig. disc. pen., vol. XIII, Torino, 1998, 358). Conseguentemente andrebbero escluse dall'area del penalmente rilevante tutte quelle omissioni inidonee ad influire sul giudizio reso dall'esperto. Si pensi, ad esempio, all'omessa indicazione (e valutazione) dei presupposti per l'esperibilità dell'azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci o, anche, al mancato giudizio in ordine alla congruità del corrispettivo previsto per la cessione di uno o più asset del concordato. In ultima analisi, non rileverebbero, ai fini penali, quelle “informazioni” che ineriscono al giudizio di convenienza della proposta concordataria rispetto alle alternative concretamente praticabili, come anche quelle relative all'eventuale sussistenza di “atti in frode” di cui all'

art. 173 l. fall

. Entrambi i temi, pur certamente rilevanti nell'economia di una proposta di soluzione della crisi, non sono però significativi rispetto all'oggetto delle valutazioni dell'attestatore, che, lo si ripete, riguarda esclusivamente l'idoneità del piano ideato dal debitore.

Il dolo di falsità

Particolarmente problematica appare la previsione di punire il falso dell'attestatore a titolo di semplice dolo generico, che trova conferma nella specifica aggravante applicabile nel caso in cui il reato sia posto in essere “al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri”. Sarà, infatti, sufficiente la coscienza e volontà del falso per fondare la responsabilità penale dell'attestatore, a prescindere dall'effettiva finalità perseguita. Ben più coerente con le esigenze concrete perseguite dal legislatore e parimenti efficace dal punto di vista generalpreventivo sarebbe stata la previsione di restringere la punibilità ai soli falsi decettivi, ossia posti in essere con la precisa intenzione di ingannare creditori e Tribunale.

La mancata delimitazione dell'elemento soggettivo rischia di comportare numerose incertezze interpretative, che, oggettivamente, incrementano la possibilità che attestatori “onesti ma sfortunati” possano essere coinvolti loro malgrado in procedimenti penali. Il riferimento è, in particolare, alla possibilità di ritenere ammissibile anche una responsabilità a titolo di dolo eventuale. A tal fine occorre richiamare quanto sino ad oggi elaborato in tema di reati di falso ideologico. Secondo la dottrina prevalente, il dolo di falso, benché generico, comprenderebbe non solo la coscienza dell'immutatio veri, ma anche la consapevolezza di offendere l'interesse protetto, con la conseguenza che occorrerebbe, in capo all'agente, la percezione di provocare un'alterazione dotata di effettiva rilevanza giuridica e potenzialmente idonea ad ingannare. E ciò perché il fatto tipico dei reati di falso ricomprenderebbe anche l'offesa all'interesse della veridicità, quantomeno sotto il profilo della sua effettiva messa in pericolo. Da un punto di vista più strettamente pratico, tale impostazione conduce ad individuare tra la “verità” e la “falsità” un'area di “dubbio”, caratterizzata dall'esistenza di un effettivo margine di incertezza in capo all'agente in ordine alla verità o falsità della sua affermazione. Ed è proprio in questa situazione di dubbio soggettivo che potrebbe residuare uno spazio per affermare la responsabilità dell'attestatore a titolo di dolo eventuale. Sempreché in concreto lo stesso abbia effettivamente posto in essere una reale valutazione costi–benefici in ordine alla decisione di predisporre un'attestazione potenzialmente falsa, restando, ovviamente, relegata nell'ambito della colpa cosciente, e, pertanto, del penalmente irrilevante, quelle falsità frutto di atteggiamenti meramente negligenti, superficiali o avventati.

Ben più delicata è, invece, l'applicazione del dolo eventuale con riferimento alla fattispecie omissiva, posto che lo stato di “dubbio” in cui versa l'agente deve avere ad oggetto dati aventi un grado di oggettività elevato, dovendo gli stessi poter essere, appunto, valutati in termini di “verità”/”falsità”. Ben difficilmente, invece, il giudizio in merito alla rilevanza di un'informazione omessa può essere valutato, salvo casi sporadici, in termini oggettivi, quanto piuttosto secondo la dicotomia corretto/errato. Con la conseguenza che il giudizio di valore effettuato dall'attestatore in ordine alla rilevanza del dato poi non indicato mal si presterebbe ad una valutazione di penale rilevanza fondata sul paradigma del dolo eventuale.

La responsabilità dell'attestatore “di fatto”

Da ultimo occorre sin da subito confrontarsi con una questione già attuale, ma che, con ogni probabilità, assumerà ulteriore rilevanza a seguito dell'entrata in vigore delle modifiche in corso di esame da parte del Parlamento. Non è raro, infatti, imbattersi, nella prassi, in attestazioni predisposte da professionisti diversi da chi formalmente se ne attribuisce la paternità. Tale discutibile modus operandi trova la sua giustificazione vuoi in esigenze di contenimento dei costi, vuoi per velocizzare la predisposizione delle proposte concordatarie, “accorpando” di fatto estensore e controllore del piano in unico soggetto, con tutte le facilmente immaginabili conseguenze in ordine all'attendibilità dell'elaborato finale. È lecito attendersi che tale fenomeno sia destinato ad incrementarsi sia in vista degli stringenti requisiti in tema di autonomia ed indipendenza dell'attestatore, sia proprio a seguito dell'introduzione delle sanzioni penali, che potrebbero condurre ad un fenomeno simile a quello ben noto dei sindaci di società ottuagenari.

Vi è al riguardo da domandarsi se, una volta accertata l'identità del “ghost writer”, quest'ultimo possa ritenersi penalmente responsabile al posto di (o in concorso con) l'attestatore formale.

Al riguardo occorrerà, presumibilmente, far ricorso alle medesime considerazioni che avevano condotto giurisprudenza e dottrina a ritenere destinatario delle norme incriminatrici in tema di reati fallimentari anche colui che avesse esercitato in concreto le prerogative tipiche dell'amministratore, prima della “istituzionalizzazione” della figura dell'amministratore di fatto avvenuta a seguito dell'espressa previsione introdotta nell'

art. 2639 c.c.

Se si seguisse tale impostazione, potrebbe ritenersi sufficiente, ai fini dell'applicabilità del reato proprio, la dimostrazione dell'effettivo espletamento dei controlli e la “paternità” delle valutazioni poi confluite in un'attestazione formalmente sottoscritta da un professionista terzo.

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