Speciale Decreto Sviluppo - Il ruolo dell'attestatore e la nuova fattispecie penale di “falso in attestazioni e relazioni”

Francesco Mucciarelli
03 Agosto 2012

Il “Decreto Sviluppo” ha introdotto una nuova disposizione incriminatrice all'art. 236-bisl. fall.La norma mira a presidiare penalmente l'attività del professionista attestatore nell'ambito delle procedure risanatorie e in particolare la correttezza delle “comunicazioni” dello stesso. Sono previste due modalità alternative di condotta: l'esposizione di informazioni false e l'omissione i informazioni rilevanti. Sono inoltre contemplate due circostanze aggravanti speciali.Risultano nel complesso condivisibili le finalità politico-criminali perseguite dal legislatore ed è apprezzabile la tecnica redazionale della fattispecie.
Il professionista attestatore nell'ambito delle procedure di risanamento e la fattispecie di «Falso in attestazioni e relazioni»

L'

art.

236-bisl. fall., introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. l), del “Decreto Sviluppo” (

D.L. n. 83/2012

), rappresenta una opportuna e - per certi versi - indispensabile integrazione del tessuto normativo nel sotto-settore delle «soluzioni concordate della crisi d'impresa[, che] si affida via via, sempre più, alla funzione svolta dal professionista attestatore» (Vitiello, L'attestazione di veridicità e fattibilità nelle soluzioni concordate della crisi d'impresa: riflessioni su alcune profili problematici, in ilFallimentarista.it). Proprio la constatazione del ruolo centrale che assume l'attività del professionista attestatore ha correttamente indotto il legislatore a irrobustire i requisiti soggettivi sul versante dell'indipendenza attraverso la previsione di nuovo conio inserita nell'art. 67, comma 3, lett. d) secondo cui «il professionista non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo». Se l'irrobustimento dei requisiti di terzietà (autonomia e indipendenza) mira a soddisfare un'esigenza per così dire “preventiva”, intervenendo sul versante del conflitto di interessi (E. Basile, Art. 217-

bis

l. fall
. e gruppi di società, in Banca, borsa, tit. cred., in corso di pubblicazione, nt. 9), la comminatoria penale dell'

art.

236-

bis

l. fall

. - oltre ad assicurare una coerente reazione sanzionatoria a comportamenti certamente offensivi dei beni giuridici meritevoli di tutela - rafforza ulteriormente il presidio che in ultima analisi dovrebbe garantire il corretto svolgimento dell'importante funzione che l'ordinamento oggi assegna alle attività demandate al professionista-attestatore, presidiando in tal modo la correttezza dell'operato del medesimo. Posto che la figura in discorso non può essere equiparata a nessun ruolo dotato di valenza pubblicistica, equiparazione che sarebbe ben disagevole, in particolare nell'ambito squisitamente privatistico nel quale si colloca la procedura ex

art. 67, comma

3, l

. fall

., comportamenti anche gravemente illeciti del professionista nella redazione delle attestazioni o delle relazioni sarebbero verosimilmente rimasti esenti dal rimprovero penale, eccettuate le ipotesi - per vero residuali e affatto diverse sul piano criminologico - di una sua deliberata collusione con il debitore allo scopo di procrastinare la dichiarazione di fallimento. Né, per altro verso, sarebbero state ammissibili forzature interpretative per estendere la portata di fattispecie d'incriminazione intese a reprimere altri fatti allo scopo di colmare un vuoto di tutela.

Detto che il trattamento sanzionatorio (reclusione da due a cinque anni) si colloca in un'area simile a quella contemplata per il reato dell'

art.

228 l

. fall

. («Interesse privato del curatore negli atti del fallimento», dove la sanzione detentiva è compresa fra i due e i sei anni), conviene esaminare la condotta punibile, designata dal legislatore nel primo comma attraverso due formule, l'una riguardante la modalità commissiva («espone informazioni false»), l'altra concernente la modalità omissiva («omette di riferire informazioni rilevanti»). Il dettato della norma limita in modo tassativo l'ambito nel quale le condotte assumono penale rilevanza: si dovrà avere esclusivo riguardo alle falsità e alle omissioni «nelle relazioni o attestazioni di cui agli artt. 67, comma 3, lettera d), 161, comma 3, 182-bis, 182-quinquies e 186-bis». Senz'altro opportuna l'elencazione, coerente con le esigenze di precisione e determinatezza proprie del diritto penale, che comunque censisce tutte le “comunicazioni” significative che la legge affida al professionista-attestatore.

L'esposizione di informazioni false

Una delicata questione sembra esser stata risolta dal legislatore con un bilanciamento attento fra esigenze di tutela e doveroso rispetto del principio dilegalità, qui colto ancora una volta nella valenza della determinatezza e precisione descrittiva della fattispecie. Con riferimento alla modalità commissiva della condotta, l'

art. 236-

bis

l. fall

. discorre di «informazioni false» esposte appunto nelle ricordate attestazioni o relazioni. L'impiego del temine informazione, che rimanda necessariamente alla comunicazione a terzi di una notizia concernente un fatto, da un lato sgombra il campo da un possibile equivoco (che avrebbe potuto generare illogiche estensioni dell'ambito di applicabilità della fattispecie e, ad un tempo, ingiustificate timidezze), dall'altro permette - attraverso una lettura attenta della norma - di valorizzarne la portata. Partendo dalla prima delle due notazioni, il valore semantico di informazione permette di evitare l'esercizio difficile di riferire il requisito della falsità alla categoria dei giudizi, noto essendo che tale estremo si risolve - nella rozza epistemologia penalistica - nel binomio “rispondente al vero/non rispondente al vero”. Difficoltà che nel caso delle attestazioni diverrebbe straordinariamente ardua, sol che si consideri che tali giudizi si risolvono in prognosi (cioè in giudizi rivolti al futuro, dei quali è, forse, impossibile predicare l'eventuale falsità ex ante, corretto essendo invece apprezzarli secondo il versante della probabilità). Ricordato che a seguito della modifica dell'

art. 67, comma 3, lett. d), l. fall

. il professionista è chiamato ora ad attestare anche laveridicitàdei dati aziendali (in precedenza tale attestazione era richiesta soltanto con riferimento al concordato preventivo), non v'è dubbio che le informazioni, la cui rispondenza al vero è presidiata dalla comminatoria penale, sono senz'altro tutte quelle riguardanti di dati economici, finanziari e patrimoniali del debitore, così come quelli economici di carattere contestuale, qualora gli stessi vengano funzionalmente richiamati nel piano (F. Mucciarelli, Stato di crisi, piano attestato, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e fattispecie penali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, 825 ss.). Non v'è dubbio che fra i dati aziendali ve ne siano alcuni che in realtà esprimono a loro volta giudizi, così come, per altro verso, non può nascondersi che anche il giudizio prognostico sulla fattibilità del piano costituisce, nella sua oggettività, un'informazione (consistente nella notizia dell'esistenza di un piano attestato come fattibile) Analoga considerazione vale per i termini funzionalità (rispetto alla migliore soddisfazione dei creditori) ovvero essenzialità (per proseguire l'attività d'impresa), di cui parlano gli

artt. 182

quinquies
e

186

bis

l. fall

.: d'ora innanzi si farà, riferimento, per ragioni di speditezza, soltanto al termine fattibilità, fermo restando che il discorso vale anche per quelli da ultimo menzionati. Se si riflette su questa situazione, ci si avvede agevolmente che l'impossibilità di predicare la falsità (in senso stretto) di tali giudizi non preclude tuttavia un altro e diverso genere di valutazione. Con un esempio: apprezzare la recuperabilità di un credito così come la fattibilità di un piano si risolvono bensì in giudizi, della correttezza dei quali si può ben decidere sotto il profilo metodologico, nel senso che si potrà ex post affermare se gli stessi furono espressi secondo accettate e comunque dichiarate metodologie di valutazione. In altri termini: il giudizio in ordine alla eventuale falsità dell'informazione, di cui discorre l'

art. 236-

bis

l. fall

., se in nessun caso può essere riferito al giudizio di fattibilità come tale, può investire situazioni nelle quali il professionista abbia espresso tale giudizio sulla base di metodi di valutazione non riconosciuti e non accettati dalle “regole dell'arte” (e non soltanto, ovviamente, sulla base di grandezze economiche che compaiono fra i dati aziendali, alle quali è invece ben possibile riferire il binomio vero/falso). La lettura qui suggerita sembra esser coerente con l'esigenza sistematica di garantire tutela alla comunicazione complessivamente portata nella relazione o nella attestazione: la fondatezza ex ante del giudizio che esse esprimono (e sul quale anche si basa la soluzione concordata della crisi d'impresa) deve poter esser valutata dai creditori (e, più in generale, da tutti i soggetti interessati) secondo parametri razionalmente controllabili, quali indubitabilmente sono le grandezze economiche così come le metodologie applicate per giungere alla formulazione di un giudizio.

Se queste ultime notazioni non meritano d'essere respinte, si può allora ulteriormente notare che non ogni difformità dal vero (nel senso di cui s'è detto) integra per ciò solo la fattispecie sul versante obiettivo. Informazioni false che abbiano ad oggetto elementi quantitativamente o qualitativamente non significativi sembrano destinate di restare al di fuori della fattispecie penale, potendosi fissare il limite di detta significatività nella loro rilevanza rispetto al giudizio finale di fattibilità. In altri termini, riferire un dato aziendale in modo difforme dal vero rileva in quanto tale difformità incida - sempre secondo i controllabili criteri metodologici adottati per la redazione del piano e dell'attestazione - sulla valutazione prognostica.

L'omissione di informazioni rilevanti

L'ipotizzata interpretazione della fattispecie commissiva sembra imposta anche dall'esigenza di assicurare un doveroso equilibrio sul piano sistematico rispetto alla previsione della figura omissiva, nella quale espressamente il legislatore seleziona come punibili, fra tutte le omissioni, soltanto quelle «rilevanti». Che tale limitazione della portata della fattispecie omissiva trovi il suo razionale fondamento nell'esigenza di contenere l'ambito di applicazione dell'incriminazione entro ambiti plausibili e coerenti con il superiore principio di offensività è constatazione tanto ovvia quanto non confutabile. Il termine prescelto per fissare la linea discretiva si sostanzia a sua volta in un giudizio di relazione, rispetto al quale occorre fissare un parametro di riferimento (ciò rispetto a cui si predica la rilevanza o irrilevanza dell'informazione eventualmente omessa) in forme sufficientemente rigide, sicché il giudizio in discorso non venga affidato alla soltanto apparente logica del caso per caso. Da questo punto di vista sembra allora che le considerazioni appena sopra svolte possano costituire il criterio di “rilevanza”, posto che la complessiva attività del professionista-attestatore converge verso la formulazione del giudizio di fattibilità, rispetto al quale andrà misurata la funzionalità dell'informazione omessa, per apprezzare cioè se la presenza di quella informazione (altrimenti doverosa) avrebbe mutato il segno del giudizio stesso (mutamento da valutarsi sempre secondo criteri metodologici accettati secondo le leges artis: le regole delle scienze aziendalistiche applicabili).

Prima di concludere sulla forma omissiva della fattispecie, conviene una considerazione, forse ovvia: vertendosi in materia d'omissione, l'obbligo giuridico che fonda il dovere di agire consiste qui nello stesso precetto della norma incriminatrice, che costituisce il professionista attestatore in una posizione di garanzia tutte le volte che sia chiamato a redigere una attestazione o una relazione comprese nella tassativa elencazione portata nell'

art. 236-

bis

l. fall

e di cui s'è detto in principio.

L'elemento soggettivo

Quanto al dolo, senz'altro generico, è da notare che nella figura commissiva esso implica che nel momento rappresentativo dovrà specchiarsi la consapevolezza della difformità dal vero dell'informazione, nel senso sopra precisato, nonché la rilevanza della falsità stessa rispetto al giudizio finale (di fattibilità). Corrispondentemente la struttura del dolo nella fattispecie omissiva contempla la necessaria consapevolezza dell'omissione (cioè del non inserimento nella relazione o nell'attestazione dell'informazione doverosa) e della rilevanza della stessa: evidente però che in questa seconda figura la situazione si fa assai più delicata in punto di accertamento, essendo necessario un apparato probatorio adeguato per distinguere l'omissione consapevole (e, quindi, deliberata) e perciò dolosa da quale invece dovuta a colpa (dovuta cioè a pur riprovevole trascuratezza).

Le aggravanti

Il secondo comma dell'

art. 236-

bis

l. fall

. prevede una circostanza aggravante sostanzialmente modellata su un'ipotesi di dolo specifico: essa consiste infatti nell'aver agito allo scopo di trarre, per sé o per altri, un ingiusto profitto. A ben vedere, la configurazione stessa della circostanza e la struttura del reato nella forma semplice fanno presagire che l'aggravante verrà quasi sempre contestata, vien da dire quasi fisiologicamente. Non è infatti facile, sul piano della comune esperienza, immaginare un'ipotesi di falso di tal genere commesso “per sé”, al di fuori di qualunque profitto per l'agente. Tanto precisato, l'impiego del termine profitto lascia intendere che il legislatore abbia avuto di mira utilità di qualunque genere, ma comunque a sfondo patrimoniale.

Il terzo e ultimo comma stabilisce un'ulteriore aggravante (che implica un aumento di pena fino alla metà): a venire qui in considerazione è il danno ai creditori come conseguenza dell'agire infedele del professionista attestatore. Sebbene la norma sia muta al riguardo, sembra difficile ritenere che il danno di cui parla l'

art. 236-

bis

, comma

3, l

. fall

. possa avere natura diversa da quella di danno patrimoniale o che, comunque, non abbia un riflesso negativo nel patrimonio dei creditori. Depone in questo senso proprio la scelta di elevare ad aggravante questa ipotesi, che sembra dar concretezza al rischio insito nella semplice commissione del reato nella forma base. Meno agevole sarà invece la determinazione di un tal genere di danno, posto che quest'ultimo si genera in senso tecnico quando il creditore vede perdute (anche soltanto parzialmente) le proprie ragioni di credito, ma siffatta situazione è configurabile soltanto dopo che sia stato giudizialmente dichiarato lo stato d'insolvenza.

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