Società a partecipazione pubblica, qualifica di “imprenditore commerciale” e procedure concorsuali nel prisma dei principi costituzionali

Paolo Pizza
30 Aprile 2014

L'assoggettabilità o meno della società a partecipazione pubblica alla legge fallimentare è argomento di vivace discussione nella giurisprudenza.L'Autore offre un'analisi dei più recenti orientamenti espressi nelle pronunce di merito e sui principi sanciti dall Corte Costituzionale al fine di rispettare il principio di uguaglianza, con particolare riferimento alla salvaguardia del corretto funzionamento del sistema concorrenziale.
Un recente orientamento dei Tribunali

Negli ultimi tempi si sta facendo strada nella giurisprudenza dei Tribunali ordinari

la tesi secondo cui alcune categorie di società in mano pubblica (invero non ben identificate nei loro tratti caratteristici) non sarebbero assoggettabili alle procedure concorsuali previste dalla

Legge Fallimentare

non tanto perché qualificabili come “enti pubblici” (l'orientamento in questione, infatti, respinge espressamente l'idea che una società in mano pubblica possa essere qualificata come “ente pubblico”), quanto piuttosto perché non qualificabili come “imprenditori commerciali”.

In particolare, ciò è stato sostenuto dal Tribunale di Palermo in due diversi decreti – trattasi, in particolare, del decreto 8 gennaio 2013, n. 99 e del decreto 19 giugno 2013, n. 268 - aventi ad oggetto la medesima società a totale partecipazione pubblica (Gesip s.p.a.). In tali provvedimenti si afferma che, ai fini della valutazione relativa alla sottoponibilità alle procedure concorsuali contemplate dalla

l. fall

., “l'indagine da compiere deve condurre a … verificare … se la società operi all'interno di un mercato concorrenziale, incompatibile con la situazione di esclusiva o di monopolio, svolgendo attività economica diretta al pubblico degli utenti e dei consumatori”. Partendo da questo presupposto il Tribunale di Palermo ha escluso la fallibilità di Gesip s.p.a. in quanto l'attività da questa svolta “… non è istituzionalmente diretta al pubblico degli utenti e consumatori, ma è rivolta nei confronti dell'unico cliente Comune di Palermo …” e non è “… stata svolta di fatto, attualmente o nel passato, nei confronti di terzi, con la partecipazione a gare d'appalto o con l'acquisizione di commesse da parte di soggetti diversi dall'ente che le partecipa …”.

Analoga prospettiva è stata assunta dal Tribunale di Avezzano con il decreto 26 luglio 2013, attinente alla società Consorzio Acquedottistico Marsicano s.p.a., nel quale si legge che “… l'approccio da dover adottare … involge la questione …, strettamente appartenente al diritto fallimentare, [riguardante] la circostanza che un soggetto formalmente privato possa, solo per questo, ritenersi impresa commerciale. Si vuole cioè affermare che gli elementi sintomatici in base ai quali può riconoscersi la natura di “istituzione pubblica” in senso sostanziale ad un soggetto possono assumere autonoma rilevanza nel diritto fallimentare: gli stessi infatti assumono significato non solo relativamente alla individuazione … di un soggetto come pubblico o come privato, ma anche al fine di stabilire se quest'ultimo possa definirsi, ancor prima, come “impresa commerciale” secondo il diritto fallimentare. La progressiva specialità assunta, anche in ragione delle spinte comunitarie, dalle varie normative di settore ... alla quale non è estraneo il diritto fallimentare tenuto conto degli interessi sottesi alla relativa disciplina, impone … che l'analisi in ordine al riconoscimento in capo al ricorrente … dell'esercizio in concreto di una “attività commerciale” avvenga tenendo inevitabilmente conto, allo stesso tempo, del quadro normativo di riferimento, previgente ed attuale, dell'oggetto sociale esercitato, nonché, da ultimo, delle concrete modalità di gestione dell'attività … Reputa il Tribunale come la prescrizione dell'

art.

1 l

. fall

. importi accertamento specifico in ordine al detto requisito della commercialità, peraltro ben coniugabile col disposto del secondo comma dell'

art. 2195 c.c.

(cfr. se non risulta diversamente), consentendo di escluderlo (come avviene nel caso di scrutinio sulle cooperative) nelle limitate ipotesi in cui l'attività svolta non consenta, né in astratto, né in concreto, per prescrizione di legge o regolamento (e non di certo per libera autodeterminazione degli organi amministrativi) ... il perseguimento dell'attività precipua”.

L'assunto di fondo dal quale muovono le pronunce del Tribunale di Palermo e del Tribunale di Avezzano, se non si erra, è quello secondo il quale per stabilire se una società in mano pubblica sia o meno qualificabile come “imprenditore commerciale” non è sufficiente valutare se sussistano o meno i requisiti contemplati dall'

art. 2195 c.c.

, ma occorre altresì valutare le condizioni concrete dell'“ambiente” all'interno del quale la società negozia i beni e i servizi prodotti, dovendosi ritenere che siano qualificabili come “imprenditori commerciali” soltanto le società in mano pubblica che operano all'interno di un mercato concorrenziale.

La corrente giurisprudenziale di cui si discorre, dunque, ritiene che, ai fini dell' attribuzione della qualifica di imprenditore commerciale, la presenza di soci pubblici imponga all'interprete l'obbligo di effettuare una valutazione diversa e più complessa rispetto a quella che si deve effettuare laddove non faccia parte della compagine sociale alcun soggetto pubblico.

Si noti, peraltro, che le condizioni dalle quali, secondo l'orientamento in questione, dovrebbe desumersi la non commercialità dell'attività imprenditoriale nel caso in cui la valutazione abbia ad oggetto una società a partecipazione pubblica sono descritte in modo abbastanza vago ed incerto: non si comprende con precisione, infatti, se requisito necessario affinché un'attività imprenditoriale svolta da una società in mano pubblica possa qualificarsi come “non commerciale” sia solo lo svolgimento della stessa in condizioni di esclusiva/monopolio oppure anche il fatto che i beni e i servizi prodotti nell'esercizio dell'attività siano acquistati da un unico soggetto, né si comprende se tale soggetto debba essere uno dei soci (pubblici) oppure possa anche essere un soggetto estraneo alla compagine sociale.

La non completa comprensibilità dell'itinerario logico giuridico sotteso all'orientamento in questione, induce l'interprete a verificare se esistano argomenti che consentano di suffragare o di smentire l'idea secondo cui l'attribuzione della qualifica di “imprenditore commerciale” alle società in mano pubblica richiederebbe una valutazione sui generis, diversa da - e più complessa di - quella necessaria per stabilire se sia qualificabile come “imprenditore commerciale” la società alla cui compagine sociale non partecipa alcun soggetto pubblico.

La Corte costituzionale sulle società in mano pubblica cd. strumentali

Da questo punto di vista, pare a chi scrive che qualche spunto interessante sia desumibile da alcune sentenze della Corte Costituzionale che, negli ultimi anni, hanno avuto modo di esprimersi in ordine alla legittimità costituzionale di disposizioni legislative statali dedicate alle società in mano pubblica c.d. strumentali, il cui novero, pur avendo confini incerti, ricomprende – secondo quanto ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti - le società che negoziano i beni e i servizi da esse prodotti soltanto con i soggetti pubblici che appartengono alla compagine sociale, in regime di esclusiva.

Ponendosi su questo crinale, rilevante sembra soprattutto il contenuto della sentenza 1 agosto 2008, n. 326, con la quale la Corte costituzionale, in una controversia tra Stato e Regioni avente ad oggetto le disposizioni contenute nell'

art. 13 del

d.l

. n.223 del

2006

, ha affermato in via generale, al fine di dimostrare che la competenza legislativa in materia appartiene allo Stato, che nel nostro ordinamento giuridico esistono due tipologie di società in mano pubblica, individuabili caso per caso sulla base dell'oggetto sociale, rappresentate, rispettivamente, dalle società che costituiscono strumento di esercizio, da parte dei soci pubblici, di “attività amministrativa in forma privata”, e dalle società che costituiscono strumento di esercizio, da parte dei soci, di “attività di impresa di enti pubblici”.

Nell'opinione della Corte, le società in mano pubblica che costituiscono strumento dei soci pubblici per esercitare l'attività che viene definita “attività amministrativa in forma privatistica” sono quelle

che operano per conto delle pubbliche amministrazioni socie, esercitando un'attività amministrativa, di natura finale (esercitano attività amministrativa di natura finale le società che offrono direttamente beni o servizi a soggetti diversi dai soci pubblici, in regime di non concorrenza) o strumentale (esercitano attività amministrativa di natura strumentale le società che forniscono prestazioni direttamente ai soci pubblici, che se ne servono poi per l'esercizio dei propri poteri).

Le società in mano pubblica che costituiscono strumento di esercizio, da parte dei soci, di “attività di impresa di enti pubblici”, secondo la Corte, sono, invece, quelle che offrono direttamente beni e/o servizi al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza.

E' importante sottolineare, per sgombrare immediatamente il campo da equivoci, che la Corte costituzionale ritiene che la qualifica da attribuire alle società in mano pubblica, tanto nel caso in cui attraverso di esse venga svolta “attività amministrativa in forma privata”, quanto nel caso in cui attraverso di esse venga svolta “attività di impresa di enti pubblici”, sia

comunque quella di “ente privato”.

Ciò si desume dal fatto che è proprio partendo dal presupposto secondo cui le società in mano pubblica appartenenti alle due categorie poc'anzi descritte sono sempre persone giuridiche private che la Corte, con la sentenza in questione - dopo aver precisato che nella materia “ordinamento civile” contemplata dall'

art. 117 Cost.

rientra anche la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato –, ha potuto affermare, da un lato, che l'

art. 13 del

d.l.

n. 223 del 2006

rappresenta una disposizione riconducibile alla materia “ordinamento civile dello Stato”, in quanto “mira a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private” (e deve, dunque, considerarsi rientrante – secondo quanto disposto dall'art. 117, comma 2, lett. l) Cost. - nella competenza legislativa esclusiva dello Stato); e, dall'altro, conseguenzialmente, che lo stesso

art. 13 del

d.l

. n. 223 del 2006

non è riconducibile alla materia “organizzazione amministrativa della Regione” (la quale rientra, sempre ai sensi dell'

art. 117 Cost.

, nella competenza legislativa della Regione).

Un primo contributo che gli argomenti enucleati dalla Corte costituzionale paiono, dunque, in grado di apportare nel dibattito relativo alla fallibilità delle società in mano pubblica sta in questo, che risultano assai indebolite, per non dire del tutto neutralizzate, le teorie che mirano a qualificare le società in mano pubblica come “enti pubblici” e, per questa via, ad escludere la fallibilità delle stesse: tali teorie, infatti, operano una lettura dell'

art. 1 l

.

fall

. che stride con l'idea, fatta propria dal giudice delle leggi, secondo cui le società in mano pubblica sono soggetti di diritto privato.

Chiarito questo primo profilo, ci si deve interrogare, come s'è detto, circa la possibilità di desumere dalla sentenza n. 326 del 2008, e dalle successive sentenze del giudice delle leggi che si sono poste nel medesimo solco, anche argomentazioni che consentano di qualificare come “non commerciale” l'attività di produzione di beni e di servizi svolta da alcune categorie di società in mano pubblica.

La questione si pone in quanto è abbastanza evidente l'assonanza esistente tra le caratteristiche che, secondo le sentenze dei Tribunali di Palermo e di Avezzano, devono ricorrere in capo ad una società in mano pubblica per escludere che essa sia qualificabile come

“imprenditore commerciale” ai sensi dell'

art. 1

l

.

fall

., e le caratteristiche che devono ricorrere, secondo la Corte costituzionale, per riconoscere ad una società a partecipazione pubblica la qualifica di “strumento di esercizio di attività amministrativa in forma privata”.

La risposta, a dire il vero, non è scontata.

Ed infatti occorre tenere presente che, come chiarito anche dalle sentenze della

Corte n. 149 del 2009

e n. 229 del 2013, la distinzione tra “attività amministrativa di diritto privato” e “attività imprenditoriale di enti pubblici” mira ad evitare che i soggetti pubblici che si servono di una società per esercitare un'attività di produzione di beni o servizi possano operare nel mercato concorrenziale

beneficiando dei privilegi dei quali possono godere in quanto pubbliche amministrazioni: in particolare, la Corte ritiene che laddove una determinata società in mano pubblica potesse operare contemporaneamente sia sul mercato, sia in ambiti ad essa riservati, si avrebbe un'alterazione della concorrenza, da ciò derivando che le disposizioni legislative che hanno come obiettivo quello di vietare che le società attraverso le quali gli enti pubblici esercitano “attività amministrativa di diritto privato” possano essere adoperate anche come strumento di esercizio di “un'attività imprenditoriale di enti pubblici” devono essere considerate conformi alla Costituzione in quanto miranti a tutelare la concorrenza.

Adottando la chiave di lettura appena illustrata, sembrerebbe astrattamente sostenibile che anche la regola della non sottoponibilità delle società in mano pubblica che svolgono “attività amministrativa di diritto privato” alle procedure concorsuali previste dalla

l

.

fall

. non alteri la concorrenza, tenuto conto che di tale prerogativa si gioverebbero società che, pur avendo i requisiti previsti dall'

art. 2195

c.c.

.,

non operano sul mercato.

Sennonché una lettura di questo genere sarebbe riduttiva e parziale, in quanto non terrebbe conto del fatto

che la non sottoponibilità alle procedure concorsuali previste dalla

l. fall

. delle società in mano pubblica che costituiscono strumento per l'esercizio di “attività amministrativa di diritto privato” sembra comunque in grado di inficiare il corretto funzionamento dei meccanismi concorrenziali. In particolare, se ci si pone sul piano della attività – cioè dei rapporti che la società, in quanto soggetto riconosciuto dall'ordinamento come dotato di una propria capacità giuridica e di agire, instaura con i terzi – ci si avvede che essa creerebbe una notevole disparità di trattamento, con conseguente violazione del principio di eguaglianza, tra i fornitori/creditori di tali società, da un lato, e i fornitori/creditori delle società in mano pubblica che costituiscono strumento di esercizio di “attività di impresa di enti pubblici” e i fornitori/creditori di tutte le altre società operanti sui mercati, dall'altro: i primi, infatti, non solo non potrebbero giovarsi delle procedure concorsuali contemplate dalla

l

.

fall

. – accessibili invece ai secondi –, ma neppure potrebbero fare ricorso a procedure liquidative di altro tipo, stante l'assenza nel nostro ordinamento giuridico di procedure alternative individuate da disposizioni normative dettate ad hoc per le società che costituiscono strumento di esercizio di “attività amministrativa di diritto privato”.

In questa prospettiva, d'altra parte, non si comprende per quale ragione lo stato di insolvenza di società che, sebbene coinvolte nell'esercizio di “attività amministrativa di diritto privato”, si approvvigionano comunque sul mercato, non dovrebbe consentire, su iniziativa dei creditori, l'imposizione di una regolazione della crisi attuata mediante una procedura concorsuale liquidativa.

Conclusioni

Alla luce delle brevi considerazioni appena riportate, pare, allora, a chi scrive, che una lettura costituzionalmente orientata dell'

art. 1 della

l

.

fall

. induca necessariamente a ritenere che non vi siano ragioni per sostenere che l'attribuzione della qualifica di “imprenditore commerciale” ad una società a partecipazione pubblica richieda valutazioni ulteriori e diverse rispetto a quelle richieste per l'attribuzione della medesima qualifica ad una società partecipata esclusivamente da soggetti privati.

In questo senso, deve segnalarsi che l'idea secondo la quale tutte le società in mano pubblica devono considerarsi sottoposte all'applicazione della

l. fall

. per ragioni di uguaglianza e di tutela della concorrenza è stata di recente condivisa anche dalla

Corte di cassazione, la quale con la sentenza n. 22209 del 27 settembre 2013

ha affermato, senza mezzi termini, che “…la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione di principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi degli strumenti di tutela posti a disposizione dell'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e le stesse modalità”.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario