L'applicabilità dell'art. 186-bis, ultimo comma, ai concordati preventivi in continuità aziendale: analisi di un caso concreto

Alberto Bianco
Puglisi Maria Chiara
04 Marzo 2014

Nei casi di concordato in continuità, l'art. 186-bis, ultimo comma, l. fall. prevede la possibilità per il Tribunale di revocare l'ammissione al concordato e dichiarare il fallimento qualora cessi l'esercizio dell'attività di impresa o la continuità aziendale risulti manifestamente dannosa per i creditori.Il problema discusso in dottrina e giurisprudenza è quello relativo alla linea di confine tra autonomia privata e controllo giudiziale nell'ambito delle procedure di concordato preventivo.
La norma di cui all'art. 186-bis, ultimo comma, l. fall. e la revoca del concordato

Ai sensi dell'

art. 186-

bis

, ultimo comma, Legge Fallimentare

, il tribunale provvede ai sensi dell'

articolo 173 della Legge Fallimentare

se nel corso di una procedura di concordato con continuità aziendale:

  • l'esercizio dell'attività di impresa cessa;

  • risulta manifestatamente dannoso per i creditori

    .

Nei casi di concordato in continuità, il legislatore ha dunque previsto una doppia cautela:

quella iniziale, riferita al momento dell'accesso alla procedura di concordato preventivo, che è riconducibile al miglior soddisfacimento dei creditori; la relazione del professionista indipendente deve attestare, infatti, che la prosecuzione dell'attività sia funzionale al migliore soddisfacimento dei creditori stessi; e

quella in corso di procedura, legata alla necessità di evitare una manifesta dannosità della prosecuzione dell'attività per i creditori.

Tale ultima locuzione è diversa da quella prevista per l'accesso alla procedura, che si riferisce al miglior soddisfacimento dei creditori. Il danno per i creditori, in quest'ultimo caso, deve essere manifesto e, pertanto, deve essere certo che la prosecuzione dell'attività di impresa cagionerebbe ai creditori un danno maggiore di quello derivante dalla liquidazione dell'attività.

La sanzione applicata in questi casi è la revoca dell'ammissione al concordato con possibile conseguente dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'

art. 173 della Legge Fallimentare

.

Ricordiamo che ai sensi dell'

art. 173 Legge Fallimentare

il tribunale può revocare l'ammissione al concordato e dichiarare il fallimento ove ricorra una delle seguenti ipotesi:

  • accertamento di comportamenti dolosi da parte del debitore finalizzati all'occultamento o alla dissimulazione di parte dell'attivo, ovvero omessa denuncia di uno o più crediti, ovvero esposizione di passività insussistenti, ovvero compimento di altri atti di frode;

  • compimento, da parte del debitore, in costanza di procedura, di atti non autorizzati o comunque diretti a frodare i creditori;

  • accertamento della mancanza di una condizione prescritta per l'ammissibilità alla procedura di concordato

    .

La cessazione, o la manifesta dannosità, dell'attività di impresa di cui all'art. 186-bis in esame sembra rientrare in quella sopraggiunta mancanza delle condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato di cui al punto (iii) che precede, prevista come presupposto per la revoca.

E tuttavia si pone, rispetto alla norma in commento, un doppio problema interpretativo: anzitutto, è necessario individuare, anche con il conforto della recente giurisprudenza, il potere di intervento del Tribunale rispetto alla verifica della fattibilità del piano; in secondo luogo, è opportuno definire la tempistica entro la quale il Tribunale è eventualmente legittimato a contestare tale manifesta dannosità, posto che lo stesso art. 186-bis ultimo comma fa salva la facoltà per il debitore, in questi casi, di modificare la proposta concordataria.

Per provare a risolvere entrambi i dubbi interpretativi sopra posti, può essere di aiuto anche una recente pronuncia di merito che sarà oggetto di breve analisi nel prosieguo.

I poteri di intervento del tribunale

Il problema discusso in dottrina e giurisprudenza è quello relativo alla linea di confine tra autonomia privata e controllo giudiziale nell'ambito delle procedure di concordato preventivo e in particolare al potere di intervento del giudice sulla fattibilità del piano concordatario.

La

Legge Fallimentare

è chiara nell'individuare i requisiti per l'ammissione alla procedura di concordato, i quali sono contenuti:

  • nell'

    art. 160 della Legge Fallimentare

    recante “Presupposti per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo”;

  • nell'

    art. 161 della Legge Fallimentare

    recante “Domanda di concordato”.

Il compito del Tribunale di accertare la presenza di tali requisiti appare fondamentale, tenuto conto dell'esigenza che ispira la disciplina del concordato preventivo: garantire che i creditori siano messi in condizione di prestare il loro consenso con cognizione di causa, vale a dire che possano manifestare un consenso informato e non viziato da una falsa rappresentazione della realtà. A tal fine, è necessario che la documentazione prodotta dal debitore sia completa e possa essere inquadrata correttamente nella tipologia di istituto cui il debitore vuole accedere secondo quanto richiesto dal legislatore.

Secondo una parte della dottrina e giurisprudenza, il Tribunale dovrebbe effettuare, sia nella fase di ammissione alla procedura che in quella di omologazione, un'indagine formale, procedurale e documentale, di mera legalità sulla regolarità e completezza della documentazione prodotta, escludendo qualsiasi controllo di merito sulla fattibilità del piano.

  • Altro orientamento ritiene che il controllo del Tribunale debba essere di natura sostanziale e di merito e debba valutare la fattibilità del piano, anche in assenza di opposizioni.

La Corte di Cassazione a sezioni unite (sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013) ha distinto a sua volta tra fattibilità giuridica e fattibilità economica.

Da un punto di vista giuridico

, spetterebbe al Tribunale verificare:

  • che le modalità attuative del piano non risultino incompatibili con norme inderogabili;

  • che il piano non presenti una assoluta impossibilità di realizzazione, anche in relazione alla preventiva individuazione della causa concreta della soluzione della crisi e nel riconoscimento ai creditori di una, sia pur minimale, percentuale del credito da essi vantato in tempi ragionevolmente contenuti.

Da un punto di vista economico,

la valutazione spetterebbe, invece, ai creditori essendo legata ad un giudizio prognostico che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, con un fattore di rischio che deve essere posto a carico degli interessati, a condizione che siano stati correttamente informati.

Secondo quanto indicato dalla Cassazione, “non rientra nell'ambito del controllo sul giudizio di fattibilità esercitabile dal giudice un sindacato sull'aspetto pratico-economico della proposta, e quindi sulla correttezza della indicazione della misura di soddisfacimento percentuale offerta dal debitore ai creditori”.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, voluto sottrarre all'organo giudicante la facoltà di intervenire sulla fattibilità economica del piano, che è rimessa unicamente alla valutazione dell'esperto e a quella di creditori (che la esprimeranno con il loro voto).

Momento centrale della procedura risulta essere pertanto l'adunanza dei creditori, alla quale viene conferito un ruolo decisivo e di massima responsabilità e che riscontra in parallelo la restrizione del potere di intervento del giudice, contraendone l'ambito del controllo di garanzia in cui si innesta la relazione del commissario che è finalizzata alla corretta informazione dei creditori.

I poteri del tribunale in un concordato in pura continuità

Il Tribunale di Pordenone, in un caso di concordato preventivo in pura continuità aziendale, al momento dell'omologa, a seguito dell'approvazione della proposta concordataria da parte del ceto creditorio, si è posto il problema dell'eventuale applicazione dell'

articolo 186-

bis,

ultimo comma, della Legge Fallimentare

con conseguente revoca del concordato e dichiarazione di fallimento, poiché la società, nei primi sei mesi, non era pienamente in linea con i dati del piano attestato.

Nel caso di specie, in particolare, il Tribunale di merito, a seguito del deposito della relazione del commissario giudiziale ai sensi dell'

articolo 172 della Legge Fallimentare

ed alla luce del fatto che la stessa avrebbe evidenziato una situazione patrimoniale prospettica della società peggiore rispetto a quella contenuta nel piano, riteneva di dover verificare:

  • la sussistenza del presupposto di cui all'

    art. 186-

    bis,

    ultimo comma, della Legge Fallimentare

    (ovvero che la continuazione dell'impresa potesse risultare dannosa per i creditori), ai fini di cui all'

    art. 173 della Legge Fallimentare

    ;

  • e l'effettiva possibilità, per la società in esame, di procedere al soddisfacimento dei creditori privilegiati nei termini di cui al ricorso, circostanza che, ove non sussistente, sarebbe pure rilevante ai fini della applicazione dell'

    art. 173 della Legge Fallimentare

    .

A seguito del deposito di memorie da parte dei difensori della società nelle quali veniva ribadito che non sussistevano i presupposti di cui all'

articolo 173 della Legge Fallimentare

e dell'approvazione con ampia maggioranza favorevole da parte dei creditori del concordato, il Tribunale, in linea con le conclusioni delle sezioni unite (analizzate nel paragrafo che precede) – pur rilevando che il commissario giudiziale segnalava un andamento negativo della gestione economica dell'impresa ed il peggioramento della situazione del debitore nel periodo di osservazione, concludendo come allo stato fosse improbabile il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano con conseguente significativo impatto sugli impegni assunti dalla debitrice con la proposta concordataria - dichiarava il non luogo a provvedere ex

articolo 173

e

186-

bis

della Legge Fallimentare

e di conseguenza omologava il concordato.

In particolare, nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che gli elementi emersi non fossero sufficienti ad affermare che fossero venuti meno i presupposti di ammissibilità (di cui agli

articoli 160

e

161 della Legge Fallimentare

, dimostrati pienamente sussistenti sia al momento della presentazione del ricorso sia alla data di omologazione), risultando la fattibilità, da un lato, attestata dal professionista ai sensi dell'

articolo 161, comma 3, della Legge Fallimentare

, e, dall'altro, posta in dubbio dal commissario giudiziale sulla base di analisi prospettiche il cui recepimento avrebbe indotto il Tribunale ad operare valutazioni che, secondo il citato orientamento di legittimità, il legislatore ha inteso sottrargli.

La circostanza legata all'integrale pagamento di creditori privilegiati alle scadenze previste nel piano non rappresenta, secondo tale pronuncia, una condizione di ammissibilità alla procedura di concordato (e come tale sindacabile ai sensi dell'

art. 173 della Legge Fallimentare

), ma, casomai, è inerente alla fattibilità del piano, elemento che è stato sottratto dal giudizio di merito del Tribunale e rimesso alla esclusiva valutazione dei creditori, alla luce della sentenza della Corte di Cassazione.

Inoltre, nella fattispecie in oggetto, il Tribunale ha ritenuto che non sussistessero i presupposti di cui all'

articolo 186-

bis

, ultimo comma, della Legge Fallimentare

, in quanto non poteva dirsi manifestatamente dannosa per i creditori una continuità aziendale che, seppur in presenza di notevoli elementi di criticità evidenziati, non appariva deteriore rispetto all'alternativa fallimentare, posto che lo stesso commissario giudiziale aveva evidenziato nella propria relazione, in tale seconda ipotesi, il rischio legato alla dispersione del valore dell'impresa.

Nel caso in esame, infatti, trattandosi di concordato con continuità aziendale, oltre ai requisiti di cui agli

articoli 160

e

161 della Legge Fallimentare

è stato necessario dimostrare altresì la sussistenza degli ulteriori presupposti richiesti dall'articolo 186-bis ovvero:

  • l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività che devono essere contenuti nel piano;

  • l'attestazione da parte del professionista che la prosecuzione dell'attività di impresa fosse funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.

Fermo restando quanto affermato, il Tribunale ha comunque sottolineato come la società in concordato con continuità omologato e gli organi della stessa siano soggetti a tutti gli obblighi propri di qualsiasi imprenditore, dovendo pertanto gli stessi, assumendosene le relative responsabilità, valutare se permangano i presupposti della continuità e in difetto adottare in qualsiasi momento le iniziative più opportune.

La facoltà di modifica della proposta

Resta da verificare il secondo dubbio interpretativo sopra esposto, attinente il momento temporale entro il quale il Tribunale può eventualmente considerare manifestamente dannosa la prosecuzione dell'attività di impresa, posto che, come detto, l'articolo 186-bis, ultimo comma prevede la facoltà per il debitore di modificare la proposta di concordato. Tale modifica potrebbe riguardare sia il passaggio da un concordato con continuità ad un concordato meramente liquidatorio (o misto), sia un mutamento delle condizioni del concordato con continuità che determini l'eliminazione del danno, per i creditori, proveniente dalla continuazione dell'attività di impresa.

Al di là delle modifiche, tuttavia, il problema principale riguarda il termine ultimo entro cui il Tribunale ha la facoltà di eccepire la manifesta dannosità della prosecuzione.

Sul punto, la norma sembra estendere il potere d'intervento a tutto il “corso di una procedura iniziata ai sensi del presente articolo”, con la conseguenza che il potere di revoca potrebbe essere esercitato dal Tribunale anche dopo la votazione dei creditori.

La norma prevede però anche la facoltà per il debitore di presentare modifiche alla proposta., mentre tale possibilità , secondo l'

articolo 175, comma 2, Legge Fallimentare

, non può essere esercitata dopo l'inizio delle operazioni di voto dei creditori.

Una modifica proposta in una fase successiva a tale momento non potrebbe essere ammessa, posto che muterebbe le condizioni ed i presupposti della valutazione della fattibilità del piano originario su cui si sono espressi il professionista, il commissario giudiziale, il Tribunale ed i creditori che hanno votato, dando di fatto vita ad una nuova domanda (con l'evidente necessità di avere a disposizione un congruo termine per apportare le modifiche).

Sembrerebbe quindi doversi concludere che al potere di revoca del Tribunale, che permane per tutto il procedimento, si accompagni anche la facoltà di modificare la proposta da parte del debitore solo fino al termine ultimo dell'udienza di votazione dei creditori. Dopo tale termine tale facoltà di modifica non è più esercitabile.

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