Il concordato in continuità: proposte operative per un più efficace utilizzo dell'istituto

Federico Clemente
06 Giugno 2014

La recente introduzione della possibilità di strutturare la proposta concordataria attraverso la prosecuzione dell'attività d'impresa (art. 186bisl. fall), ha concentrato dottrina e giurisprudenza in un ampio dibattito sull'istituto. L'Autore, osservando quali vantaggi e quali svantaggi possano derivare da una ristrutturazione debitoria mediante continuità aziendale, propone delle soluzioni operative idonee a rendere più proficuo per tutti i soggetti coinvolti il ricorso a tale tipologia di concordato.
Pro e contro del concordato in continuità aziendale

Il tema del concordato in continuità, che pure sta riscuotendo ampio interesse dottrinale ed operativo, costituisce sicuramente un argomento spinoso e di estrema delicatezza.

Dobbiamo premettere che, per certi aspetti, il concordato in continuità non convince appieno, anche se è stato salutato con grande enfasi e favore nei primi commenti.

È un tipo di procedura che consente indubbiamente una serie di facoltà, i cosiddetti vantaggi del concordato in continuità. La dottrina recente (Stanghellini, Il concordato in continuità aziendale, in Fall., 2013, 1222 e ss) ne ha individuati sette:

  • la facoltà di scioglimento dai contratti onerosi (

    art. 169-

    bis

    l. fall

    .);

  • l'impedimento allo scioglimento dai contratti da parte dei terzi (art. 186-bis, comma 3);

  • la possibilità di prosecuzione o di stipulazione di contratti con la pubblica amministrazione (art. 186-bis commi 3, 4 e 5);

  • la moratoria di un anno per il pagamento dei creditori con prelazione (art. 186-bis, comma 2 lett. c);

  • la possibilità di pagamento dei creditori strategici (art. 182-quinquies comma 4);

  • la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione (art. 182-sexies);

  • la possibilità di contrarre finanziamenti prededucibili (art. 182-quinquies, commi 1, 2 e 3, ancorché si tratti di facoltà non esclusiva del concordato in continuità).

A fronte di questi vantaggi, che non sono peraltro di immediata traduzione operativa, non vanno dimenticati quelli che, ad avviso di chi scrive, sono sicuri "svantaggi" per il debitore e, in alcuni casi, anche per i creditori:

  • i rischi che nel corso della procedura si formino rapidamente e irrimediabilmente rilevanti debiti in prededuzione;

  • le ipotesi, per i soggetti che continuano ad operare con la società in concordato in continuità,

    che la domanda venga ritirata, ritenuta inammissibile, o non venga presentato un piano, con il rischio che le spettanze maturate in corso di concordato non godano di alcuna prededuzione;
  • la necessità di offrire una percentuale fissa, che quindi (secondo una corrente di pensiero) non può variare laddove i risultati del piano siano meno favorevoli del previsto;

  • un controllo più stringente dei tempi di pagamento, che diventano legati a scadenze predeterminate nella proposta, e non più sindacabili;

  • l'assenza di agevolazioni fiscali (salva l'ipotesi oggetto di vaglio in prosieguo);

  • la necessità che la proposta sia "migliorativa" rispetto ad un concordato non in continuità.

In quest'ottica, anche allorché si voglia proseguire nella gestione dell'impresa, può essere preferibile la formula dell'affitto d'azienda, meglio ancora se stipulato ante domanda o almeno ante piano, anche in capo a una newco facente capo ai medesimi portatori di capitale.

Il concordato in continuità potrebbe dunque essere riservato solo ai casi in cui vi siano oggettive difficoltà ad avviare l'attività in capo ad una società affittuaria, di norma per l'assenza di liquidità atta a consentire di reggere il primo impatto finanziario del ciclo produttivo (costi per stipendi, materie prime, energia ecc. fino all'incasso dei crediti).

Il concordato in continuità può essere seriamente valutato nell'ipotesi in cui, per una adeguata formazione dei flussi, possa essere di significativo beneficio il recupero delle perdite fiscali pregresse della società in crisi.

Piano e proposta di ristrutturazione. Contenuti

Poste queste premesse, che costituiscono ovviamente un'opinione personale, veniamo al piano e alla proposta di ristrutturazione.

Al riguardo, si possono dare le seguenti semplificanti definizioni:

- proposta di ristrutturazione significa quanto l'imprenditore in crisi offre di pagare ai creditori, e quando;

- piano significa quali sono le operazioni che l'imprenditore intende porre in essere per reperire la liquidità atta al pagamento dei creditori in base alla proposta di ristrutturazione.

Il piano in continuità può prevedere:

- l'esercizio diretto dell'impresa;

- la cessione dell'azienda;

- il conferimento dell'azienda in altra società.

A questa casistica, in determinate ipotesi, viene affiancato, secondo una corrente di pensiero, l'affitto di azienda.

Concentriamoci ora sull'esercizio diretto dell'impresa.

L'imprenditore prosegue l'attività e, in particolare con i flussi di liquidità prodotti dalla gestione caratteristica in uno specifico arco temporale, prospetta di procurarsi le risorse finanziarie per pagare i creditori nella percentuale e nei tempi oggetto della proposta.

Infatti, la liquidità si può creare:

1)

grazie agli utili di gestione, in un'ottica di rafforzamento o recupero della redditività (auspicabilmente, in un arco temporale ridotto);

2)

con il contributo diretto dei costi non finanziari, quali ammortamenti, accantonamenti, TFR ecc.;

3)

con una variazione di capitale circolante netto operativo idoneo a liberare liquidità;

4)

con il contributo delle aree di gestione diverse da quella caratteristica, ossia quella correlata ad investimenti/disinvestimenti e quella dei finanziamenti.

Qui ci si consenta una digressione.

Si è potuto constatare, infatti, in alcune ipotesi concordatarie, un'incongruità di fondo nella determinazione della liquidità nel corso del piano. Questa, infatti, viene proposta come sommatoria di crediti iniziali, utile d'esercizio ed ammortamenti.

E' invece evidente che l'impresa, proseguendo nella gestione, si troverà alla fine del periodo di durata del piano ad avere ancora una quota di attivo differito rappresentato dai crediti. In altri termini, anche alla fine del periodo di durata del piano vi saranno crediti e, quindi, i crediti iniziali non si saranno trasformati (se non parzialmente) in liquidità. La stessa considerazione, all'evidenza, vale per le rimanenze.

Diviene quindi indispensabile redigere un budget finanziario che tenga conto dei riflessi in termini di variazione di capitale circolante netto operativo, e che quindi valuti ad esempio:

- i tempi di incasso dei crediti e di pagamento dei fornitori, con ipotesi prudenti;

- la possibile riduzione delle rimanenze, e quindi i minori acquisti necessari;

- gli assorbimenti di liquidità eventualmente conseguenti all'aumento di fatturato, o per la necessità di investimenti.

Tornando alle possibili variabili del piano, oltre agli effetti derivanti dai risultati reddituali, dai costi non finanziari e dalla variazione di capitale circolante, possiamo dunque avere il contributo delle aree di gestione differenti da quella caratteristica, ossia:

- quella degli investimenti e disinvestimenti;

- quella finanziaria.

Sotto il primo profilo, è evidente che un piano in continuità può ben avere una componente liquidatoria, che può riguardare in prima battuta beni mobili e immobili (anche se utili all'azienda, ma comportanti un impegno finanziario incompatibile con il piano). Si possono anche ipotizzare riassunzioni in affitto di beni ceduti ad investitori sociali od operazioni di leaseback (con le dovute cautele).

Venendo al secondo profilo, si aprono spazi interessanti di formazioni di liquidità, perché il piano può prevedere che vengano ottenuti finanziamenti in prededuzione ai sensi dell'articolo 182-quater, da porre al servizio dei creditori concorsuali, in varie forme. Ad esempio:

- cessione dei crediti, al sistema bancario o anche a società di factoring (in tal modo riuscendo a

monetizzare i crediti a fine piano);

- anticipazione bancaria;

- finanziamenti, eventualmente garantiti.

Ci si è posti al riguardo una domanda, e cioè se tali investimenti debbano essere puntualmente indicati nel piano (tipologia, entità, soggetto concedente) e formalizzati in contestualità al piano, o se sia possibile solo prevederne l'entità, lasciando alla fase dell'esecuzione l'individuazione di forme e soggetti eroganti, ritenendo ragionevole la loro concessione una volta riequilibrate le sorti aziendali grazie anche all'omologazione del concordato.

Sul punto è venuta in aiuto la

Corte di cassazione con la sentenza n. 24970/13

. La Corte, infatti, ha ritenuto che la mancanza di impegni cogenti per la nuova finanza dopo l'omologazione (come pure di impegni all'acquisto dei beni offerti in liquidazione) non comporti l'esclusione in futuro dell'apporto della liquidità prevista al riguardo, e quindi che la conseguente prospettazione di tali iniziative possa essere ragionevole.

In definitiva, raramente il concordato in continuità può essere costruito solo sulla prosecuzione dell'attività (specie per poter superare il vaglio di "proposta migliorativa" imposto dall'articolo 186-bis).

Lo stesso sarà dunque più probabilmente il coacervo di una serie di fattori e contributi:

- ritorno all'utile e contributo dei costi non finanziari;

- variazione di capitale circolante netto operativo;

- liquidazione di beni (o anche di rami d'azienda);

- finanziamenti di terzi.

Si possono ora aggiungere due tasselli, due contributi che possono aiutare.

Debiti pagabili al di fuori della durata del piano

Il primo riguarda il fatto che non necessariamente tutti i debiti esistenti all'apertura del concordato debbano essere pagati nell'arco temporale del piano posto alla base del concordato.

Vi sono debiti che, per legge o per accordo tra le parti, possono essere pagati a scadenze che sono preventivabili al di fuori del periodo di durata del piano.

Ci si richiama ad esempio:

- al TFR;

- ai mutui ipotecari.

Quanto al TFR, se l'impresa prosegue non sarà necessario (né si potrà) pagare tutte le spettanze per TFR durante il periodo interessato dal piano, in quanto la debenza di tale posta si manifesta alla cessazione del rapporto. Poiché la maggior parte dei dipendenti verosimilmente proseguirà nel rapporto, si dovranno preventivare come uscite finanziarie per TFR all'interno del piano:

- quelle legate ad un programma di ridimensionamento dell'organico;

- quelle per rapporti che giungeranno al pensionamento nell'arco di durata del piano;

- quelle legate ad un fisiologico turn-over, sulla base dei dati storici e con un margine di prudenza.

Quanto ai mutui, si possono prospettare (e sovente si ottengono) accordi con le banche finanziatrici, per la ripresa delle ordinarie scadenze del mutuo, o addirittura per il prolungamento dei tempi originariamente previsti. Questo tipo di accordo, d'altro canto, permette agli istituti di credito di ridurre l'esposizione, maturare interessi, mantenere intatta la garanzia (con maggiori possibilità di soddisfacimento integrale, in ipotesi di una futura esecuzione).

Questi creditori al termine del piano troveranno una situazione riequilibrata, con un attivo superiore al passivo, e non avranno subito un mutamento negativo dell'originale garanzia (proprio perché il passivo sarà notevolmente diminuito, rispetto alla variazione dell'attivo).

Gli aspetti liquidatori. La soluzione della proposta concordataria poliedrica

Il secondo tassello riguarda gli aspetti liquidatori del piano in continuità: questi aspetti, ad avviso di chi scrive, potrebbero essere distinti in termini di incidenza sulla percentuale offerta, precisando che la proposta è per gli aspetti liquidatori soggetta all'alea dei tempi e degli importi realizzabili (come nel concordato con cessione dei beni).

Ciò, per non gravare eccessivamente la società in termini di rigidità di impegni, con possibili benefici anche di carattere fiscale.

Si dà di fatto vita ad un concordato di natura mista, in parte in continuità e in parte liquidatorio.

L'impostazione può aiutare anche dal punto di vista fiscale ai fini delle imposte dirette.

Ci si richiama all'articolo 86 del testo unico delle imposte sui redditi, in base al quale "la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze".

La norma trova la propria collocazione

naturale nel concordato preventivo con cessione dei beni, ed è volta a neutralizzare gli effetti fiscali ai fini imposte dirette delle vendite di beni i cui ricavi vengono posti al servizio del pagamento dei creditori concorsuali.

In dottrina vi è una comprensibile prudenza per l'applicazione di tale agevolazione al di fuori del concordato totalmente liquidatorio, anche perché la norma è nata allorché si distinguevano soltanto il concordato con cessione dei beni e quello con garanzia.

Peraltro, il tenore letterale volge non al tipo di concordato, ma al tipo di iniziativa, ossia la cessione dei beni ai creditori in ambito concordatario.

Se, quindi, la proposta concordataria accompagnasse ad un'anima in continuità un aspetto liquidatorio, volto alla cessione di alcuni beni affidati ad un liquidatore giudiziale, e fosse considerata ammissibile, non sarebbe irragionevole applicare l'articolo 86 del testo unico a tale ambito liquidatorio (ancorché sarebbe opportuno un chiarimento da parte dell'Amministrazione delle Finanze).

In definitiva, una proposta concordataria poliedrica, con un'anima in continuità ed una liquidatoria,

che prospetti il ricorso a finanza esterna e il pagamento di parte dei creditori al di fuori del periodo di durata del piano, potrebbe rappresentare un punto di incontro delle molteplici esigenze operative e dei diversificati aspetti giuridici correlati alla soluzione della crisi di impresa tramite lo strumento del concordato preventivo, laddove si voglia prospettare la prosecuzione dell'attività in capo all'imprenditore in crisi.

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