Il sindacato del giudice nel concordato preventivo un anno dopo: prove tecniche di actio finium regundorum ?

Danilo Galletti
22 Gennaio 2014

La sentenza della Cassazione,Sez. Unite n. 1521/2013, in tema di sindacato del giudice sulla fattibilità nel concordato preventivo è stata oggetto di vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza: a distanza di un anno dalla pubblicazione, l'Autore fa il punto sugli elementi essenziali e sui principi regolatori contenuti nella sentenza, alla luce dei più rilevanti interventi interpretativi che ne sono seguiti, esaminando in particolare il concetto di causa concreta nel concordato e la difficile distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica.
I principi regolatori contenuti nella sentenza delle Sezioni Unite n. 1521/2013

Ad un anno dalla pubblicazione della sentenza, la sistemazione della materia contenuta in

Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521

sembra purtroppo tutt'altro che “scolpita” nelle tavole della Legge.

Ciò a causa di un'architettura del provvedimento assai complessa, composta di premesse, sottopremesse, asserti apparentemente contraddittori, che fanno assomigliare la sentenza più ad un trattato “misteriosofico”.

Eppure l'interpretazione dell'atto interpretativo mi pare possibile, e condivise o meno le motivazioni e le premesse teoriche, la materia si presta ormai a rinvenire alcuni principi regolatori saldi, da declinare nelle applicazioni concrete che solo i Tribunali di merito potranno fare.

Il noto arresto giurisprudenziale è sintetizzabile a mio avviso nei seguenti termini schematici:

  • il concordato preventivo assolve a finalità di carattere pubblicistico, ed è connotato da esigenze di tutela di interessi anche esterni a quelli dell'impresa, rappresentati soprattutto dal ceto creditorio, la cui “amministrazione” è rimessa soprattutto al Giudice;

  • il controllo del Tribunale non attiene alla convenienza della proposta, che è rimessa esclusivamente al ceto creditorio (a condizione che essi siano informati in modo corretto);

  • il controllo del Tribunale non è di contenuto prestabilito ed astratto, ma va adattato al caso concreto;

  • il controllo del Tribunale non è di secondo grado, non si svolge cioè esclusivamente sulla relazione dell'attestatore, ma è diretto, ed ha per oggetto anche la sostanza ed il merito della domanda, potendosi discostare in concreto dal giudizio dell'attestatore stesso;

  • il controllo del Tribunale non è meramente formale, né di mera regolarità, ma attiene anche al contenuto del piano;

  • il Giudice può e deve sindacare la fattibilità giuridica del piano;

  • il Giudice può e deve altresì sindacare la concreta realizzabilità del piano, quando viene messa in discussione la causa concreta dello stesso, sicché l'interesse “tipico” dei creditori, oggettivizzato nello specifico piano, non può essere in alcun modo soddisfatto nelle forme e con le modalità prospettate dal debitore;

  • il concordato preventivo è uno strumento di “regolazione della crisi”, volto al suo superamento, sicché non può non essere sanzionato il suo utilizzo quando esso nel caso concreto deflette da tale funzione.

Il concetto di “causa concreta”: dalla materia contrattualistica a quella concordataria

Tali principi, peraltro affermati esplicitamente nel contesto di un piano fondato sulla cessione dei beni ai creditori (cessio bonorum), sono stati ribaditi poi sinteticamente più di recente da

Cass., 9 maggio 2013, n. 11014

(che discorre icasticamente di un controllo giudiziario che non si limita ad un'“operazione di mero segretariato giudiziale, ma implica un giudizio di merito in ordine alla intrinseca serietà logica della proposta”) (

Cass.

27 maggio 2013, n. 13083

;

Cass.

27 maggio 2013, n. 13083

;

Cass.

25 settembre 2013, n. 21901

;

Cass.

26 settembre 2013, n. 22083

;

Cass.

6 novembre 2013, n. 24970

).

La sentenza ha ricevuto l'onore di molteplici commenti in dottrina (

Lamanna, L'indeterminismo giuridico creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: “così è se vi pare”, in ilfallimentarista.it; Fabiani, in Fall., 2013, 156 ss.; De Santis, in Società, 2013, 442 ss.; Di Marzio, Fattibilità giuridica vs. fattibilità economica, in ilfallimentarista.it

), quasi tutti sinora caratterizzati da un approccio assai critico, in particolare concentrato sulla natura extravagante del ricorso da parte della Corte al concetto di “causa in concreto”, già noto ai civilisti ed agli studiosi del contratto, e trasportato disinvoltamente dal piano dell'atto a quello del procedimento.

L'inflazione di commenti provenienti da settori della dogmatica civilistica non può certo sorprendere: il ricorso, del tutto imprevisto, ad una nozione di causa negoziale ormai imperante nel dominio dei contratti (

De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1976; G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria generale del negozio giuridico, Milano, 1968; Bianca, Diritto civile, 3, Milano, 1987

), se da un lato conferma la tendenza al sincretismo che innerva la produzione giurisprudenziale, dall'altro sposta il terreno della discussione su un crinale assai scosceso.

Nella moderna teoria del contratto, infatti, non sono poi così assodate, né “navigate”, le distinzioni concettuali, apparentemente chiare, fra il tipo (ossia la causa astratta, o funzione economico-sociale), la causa concreta (ossia la funzione economico- individuale, c'est à dire la sintesi degli obiettivi, e quindi degli interessi, obiettivati nell'atto), l'oggetto (ossia il bene e le prestazioni promesse), il contenuto (ossia il regolamento negoziale).

Traslare il concetto in un settore ove la stessa natura contrattuale del concordato è ancora assai osteggiata (a mio avviso fondatamente), tanto più nel contesto di una ricostruzione che privilegia senz'altro il momento pubblicistico, ed i profili di eterotutela di interessi pur privatistici, non può apparentemente che aumentare il disagio degli interpreti, e la confusione.

In realtà, io credo che l'equivoco nasca all'origine, si annidi cioè proprio là dove quel concetto è stato elaborato, e che tradisca alcuni equivoci preconcettuali, comprensibili nel settore della dogmatica civilistica, rimossi i quali l'actio finium regundorum tentata dalla S.C. può sperare di funzionare, rimettendo finalmente ai Giudici di merito il compito di attuare quei principi, specializzandoli ed adattandoli alle fattispecie concrete; ciò che costituisce lo sforzo programmaticamente più rilevante, come le stesse Sezioni Unite sottolineano a più riprese, là dove sottolineano la necessità di un ragionamento casuistico, che individui in ogni singolo procedimento di concordato una specifica “causa concreta”, e quella utilizzi come benchmark.

Taluni Tribunali individuano fin dal decreto di ammissione tale causa concreta del procedimento, e ciò non può che essere percepito con favore, dato che in tal modo tutti gli attori del concordato, debitore in primis, e poi creditori e Commissario, potranno adattare il proprio comportamento di conseguenza, se del caso proponendo subito una eventuale differente interpretazione degli obiettivi del piano concordatario.

L'enfasi sulla causa concreta può tuttavia produrre il rischio che la discussione si screlotizzi preconcettualmente su concetti inadeguati al concordato: il fenomeno contrattuale, così come la dogmatica civilistica, è infatti strutturato sull'archetipo del diritto dell'atto, che è per sua natura statico; il concordato invece, così come il diritto concorsuale e dell'impresa, poggia sul diritto dell'attività, ed ha natura intrinsecamente dinamica.

La percezione del profilo dinamico, e del momento dell'attività, non è caratteristico del solo concordato con continuità aziendale, ove l'attività di impresa prosegue durante la procedura: anche il concordato con cessione dei beni infatti trova il suo sostrato non già in un atto (la cessione), bensì in un'attività (un procedimento appunto), ossia in una sequenza coordinata di atti indirizzati verso un obiettivo (

Auletta, Attività (dir. priv.), in Enc. del Dir., Milano, 1958, 981 ss.

), la realizzazione appunto degli obiettivi della proposta, da conseguirsi tramite le linee di azione esposte nel piano durante l'esecuzione concordataria.

In realtà il diritto dei contratti non sconosce affatto situazioni consimili: si pensi al contratto di società (

art. 2247 c.c.

), dal quale scaturisce l'organizzazione societaria, che costituisce certamente un momento dinamico; certo è però che proprio nel comparto delle società non sono rare le ricostruzioni che vedono il momento contrattuale, statico, esaurirsi nella fase costitutiva dell'ente, laddove quel che segue, intrinsecamente dinamico, avrebbe una matrice differente, oggettiva, essenzialmente organizzativa, e non contrattuale (

Ferro Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971

).

Il fatto è che la dogmatica civilistica si è strutturata nei secoli sull'archetipo del contratto di scambio, che ha struttura tipicamente bilaterale e corrispettiva, caratterizzata da un preciso vincolo sinallagmatico; la categoria dei contratti “plurilaterali” vive da sempre in un limbo ambiguo, intrecciata con la classe limitrofa dei contratti “con comunione di scopo”. Ad essi si applicano talune (poche) norme tipiche, mentre tutto quel che residua circa l'appartenenza e la comunanza alla fattispecie del contratto di scambio è assai controverso.

Nella struttura del contratto di scambio bilaterale è relativamente facile distinguere fra il tipo e la causa concreta: il primo è costituito dalla sintesi della disciplina che regolamenta la fattispecie, individuandone i tratti tipici; la seconda attiene alla sintesi degli interessi perseguiti in comune dai contraenti; non i motivi individuali, bensì gli interessi comuni e pertanto obiettivati nello scambio contrattuale.

Ciò informa tipicamente la teoria del collegamento negoziale, della presupposizione, etc. etc.

Col concordato la situazione è un po' più complessa: la intrinseca eterogeneità fra gli interessi sottostanti alla platea dei creditori (

Belcredi, Crisi di impresa e ristrutturazione finanziaria, Milano, 1995

), assai simile a quella che si registra nel quadro dell'organizzazione societaria, rende arduo individuare una sintesi degli interessi che si possa obiettivare nella singola proposta concordataria.

In altra occasione ho ritenuto di enucleare, come unica possibile “sintesi” degli interessi dei creditori relativi ad un concordato, la massimizzazione del valore del patrimonio del debitore, ai fini del suo utilizzo per soddisfare i creditori; è singolare che la stessa prospettazione, legata alla massimizzazione del valore del patrimonio sociale, sia caratteristica delle teorizzazioni più moderne sull'interesse “sociale” (

Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, in Tratt. Colombo- Portale, 3, Torino, 1993

).

Questo sembra il piano cui si riferiscono le Sezioni Unite quando fissano il concetto per cui la proposta deve costituire uno “strumento di regolazione della crisi”; essa cioè deve corrispondere alla funzione di costituire un mezzo per ristrutturare il patrimonio del debitore, consentendogli di superare l'insolvenza, anche attraverso il meccanismo del voto maggioritario e della conseguente efficacia “conformativa” delle proprie obbligazioni secondo gli obiettivi della proposta (

art.

184 l

.

f

all

.).

Qualsiasi proposta che in realtà sfugga riconoscibilmente a tale orizzonte funzionale, e che pertanto si prefigga in realtà solo di procrastinare la stigmatizzazione dell'insolvenza, non può sfuggire al controllo giudiziario: tale proposta sarà inammissibile in radice, siccome dissonante dalla causa “astratta” del concordato, ossia, se vogliamo, dal “tipo” giuridico.

Siamo al di fuori di qualsiasi profilo di fattibilità: il sindacato si esercita cioè sulla conformità del piano e della proposta rispetto alla funzione giuridica astratta.

E' questo il campo in cui si esercita in genere la sanzione giudiziaria relativa all'”abuso” dello strumento concordatario: si pensi alle ipotesi di rinunzia/reiterazione della domanda al solo fine di sfuggire alla stigmatizzazione di gravi vizi della stessa, se del caso già enfatizzati

ex

art. 173

l.

fall

, ove la formulazione di una domanda successivamente alla prima non consegue ad un obiettivo di regolazione della crisi, bensì soltanto di sottrazione all'apertura del concorso fallimentare (

Cass., 23 giugno 2011, n. 13818

;

App. Bologna, 25 febbraio 2013

;

Trib. Milano, 24 ottobre 2012

;

Trib. Latina, 22 ottobre 2012

;

Trib. Parma, 2 ottobre 2012

; Trib. Forlì, 15 marzo 2013).

Una norma tipizzata che svolge una funzione anti-abuso è costituita dall'

art. 161, comma 9

,

l.

fall

. (

Lamanna, Profili di abuso e limiti nella reiterazione di domande di preconcordato, di concordato e di omologa di accordi, in ilFallimentarista.it

).

Lo stesso

art. 173

l.

fall

, con riferimento agli atti di “frode”, svolge una funzione anti- abuso, nella misura in cui delimita l'utilizzo del concordato a quelle situazioni in cui ai creditori siano fornite le informazioni necessarie e sufficienti ad adottare una decisione consapevole circa il voto. In questi casi la proposta potrebbe anche risultare, per il suo contenuto, conforme al “tipo” astratto della regolazione della crisi; ciononostante, essa devierebbe dalla funzione tipica assegnata dalla Legge al procedimento concordatario nel suo complesso.

Ancora, non possono esservi dubbi sul fatto che al Tribunale spetti un potere di vaglio assai penetrante sul contenuto dell'attestazione: nelle pieghe della sentenza delle Sezioni Unite si sviluppa finalmente l'idea che all'attestatore (benché apparentato ad un ausiliario del Giudice, pur se in epoca posteriore all'abrogazione della norma che ne imponeva la prededuzione delle prestazioni) non è stata conferita alcuna delega di potere giudiziario: la fattibilità è requisito della proposta, e la stessa è conosciuta dal Giudice anche direttamente, al di fuori cioè dell'intermediazione della relazione dell'attestatore.

Se la relazione devia dallo schema tipico, ricostruibile anche attraverso la messa a fuoco delle best practices (ISAE 3400, Principi dell'Ordine Nazionale dei Dottori Commercialisti, Linee Guida, etc.: cfr. per tutti Riva, L'attestazione dei piani delle aziende in crisi, Milano, 2009), perché difetta di parte del contenuto necessario, non declina dal punto di vista metodologico il contenuto dei controlli e delle procedure di revisione espletati, appare viziata sotto il profilo della logicità e della linearità delle inferenze, oppure si fonda esplicitamente od implicitamente su fatti dei quali il Tribunale conosce, anche attraverso i suoi poteri istruttori, la inesistenza e/o falsità, allora la proposta è inammissibile (

Cass., 27 maggio 2013, n. 13083

; Trib. Bologna, 9 settembre 2013

).

La difficile distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica

Spostando il fuoco dell'attenzione direttamente sulla fattibilità, cala inevitabilmente la notte, ove tutte le vacche rischiano di sembrare nere …

L'incentrarsi della motivazione dell'arresto sulla distinzione fra fattibilità giuridica e fattibilità economica infatti rischia di creare non pochi equivoci.

Sgombriamo subito il campo dall'errata convinzione che il controllo del Tribunale non attenga al merito: il Giudice esamina invece senz'altro il contenuto del piano e della proposta, e come si è già detto lo fa direttamente, senza intermediari obbligati; nessuna nozione, quale quella di merito, risulta infatti più ambigua, ed ha dato luogo in passato a più malintesi, proprio in tema di ricostruzione dei limiti del sindacato giudiziario: chi ha memoria storica non può non ricordare come un'analoga suggestione fosse diffusa persino ai tempi della vecchia “moratoria”, e come la riflessione sistematica della letteratura l'avesse da tempo spazzata via (

Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell'amministrazione controllata, Milano, 1984, 316 ss.

).

Il punto attiene a quale sindacato il Giudice possa e debba fare di quel merito.

La distinzione fra fattibilità giuridica ed economica potrebbe alimentare la suggestione che si tratti di due fenomeni ontologicamente differenti: nel primo caso il Tribunale potrebbe valutare la violazione di qualsiasi norma imperativa di legge, già nel contenuto della proposta o del piano, oppure “nelle modalità attuative”; nel secondo l'indagine atterrebbe alla verosimiglianza delle previsioni del debitore, e non vi sarebbe alcuno spazio di operatività per il controllo giudiziario, con l'eccezione della accertata e manifesta impossibilità di assicurare ai creditori una sia pur minima soddisfazione percentuale o di altra natura.

In realtà nulla appare più lontano dalla sostanza giuridica dei concetti: la distinzione fra impossibilità giuridica e materiale non ha sede nell'ordinamento, che le apparenta anzi sempre, ogni volta che assegna al Giudice il compito di sindacare la conformità di una situazione all'ordinamento (arg. ex

artt. 1325,

2379 c.c.

).

La stessa fattibilità giuridica non può attenere alla possibilità per il Giudice di verificare qualsiasi violazione di legge comunque implicata dalla proposta o dalla sua esecuzione: tale suggestione è frutto dell'equivoco di importare il concetto dal mondo dei contratti, ove tuttavia l'

art. 1418 c.c.

(esteso anche alle patologie “virtuali”) svolge un ruolo di “accentratore sistematico” che si confà alle situazioni statiche, nelle quali il contenuto delle prestazioni programmate è sempre parte integrante del regolamento contrattuale.

Nel concordato il Tribunale fallimentare accerta la conformità della proposta e del piano al diritto concorsuale, non svolge un controllo di legittimità a tutto campo, esteso anche alle eventuali specifiche modalità negoziali di esecuzione della proposta.

Lo studio dei rapporti fra diritto societario e diritto dei concordati sotto questo punto di vista è assai fecondo: se il piano concordatario si impernia sulla adozione futura di una deliberazione assembleare che potrebbe essere impugnata dai legittimati, il Tribunale non conosce della legittimità di quella delibera (altro è il Giudice competente), ma semmai verifica la probabilità che quell'impugnazione sia esperita, e con successo; se cioè è presumibile che l'impugnazione non avvenga, per i motivi più disparati, legati anche solo alle motivazioni specifiche dei legittimati, il piano è fattibile, nonostante vi si programmi la violazione di una norma. Si tratta cioè comunque di un sindacato di fatto, non di diritto, anche se la valutazione si fonda sulla prevedibile applicazione di norme di diritto.

Il Tribunale fallimentare non è lo “sceriffo” delle imprese insolventi: ha il suo campo di azione, e la sua sfera tipica di cognizione.

Anche l'esempio della vendita di cosa altrui, contenuto nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, è assai infelice, atteso che tale modalità negoziale non comporta alcuna patologia, ma solo la inefficacia dell'effetto traslativo, unito all'insorgere dell'obbligo di procurare l'acquisto della proprietà.

Dunque se anche il debitore promette di vendere beni non suoi, ma è altamente probabile che il vero titolare li metta efficacemente a disposizione dei creditori, quale infattibilità, giuridica od economica, potrebbe prospettarsi? Vi sarà semmai frode se il debitore abbia omesso di dire che i beni non sono suoi, perché così ha privato i creditori della possibilità di valutare quel rischio.

Ancora, circa la fattibilità economica, la pronunzia sembra eccettuare dall'irrilevanza ai fini del controllo giudiziario l'ipotesi limite in cui sia assolutamente impossibile realizzare gli obiettivi del piano, ossia la “causa concreta” del procedimento.

Sembrerebbe che tale impossibilità (addirittura assoluta) non possa attenere alla situazione ove i creditori chirografari non ricevano prospetticamente alcun livello di soddisfo, poiché in questi casi è già implicata causa “astratta” del concordato, ossia la sua inerenza ad un tentativo di “regolazione della crisi”.

Invece no, perché la pronunzia specifica che il sindacato deve attenere alle “modalità attuative” della proposta, che cristallizza espressamente nella percentuale e nei tempi di realizzo; e la soglia di rilevanza del vaglio giudiziario viene fissata al momento in cui la proposta non può trovare attuazione “neanche parziale”, ossia quando i creditori non possono trovare soddisfazione “in qualche misura”.

I confini del sindacato del giudice

Il revirement sorprende, anche per l'enfasi sul concetto di impossibilità “assoluta” (v. la sottolineatura in

Cass., n. 24970/2013

, ove viene negata rilevanza a qualsiasi situazione problematica che non comporti “necessariamente” una previsione infausta di realizzabilità del piano), quando il comparto del diritto dei contratti ha ormai esteso l'ambito applicativo della “impossibilità” alla stessa “inutilità” della prestazione (

Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958

).

Ci si sarebbe dovuti attendere, cioè, che anche l'accertamento di una probabilità qualificata di inconseguibilità degli obiettivi specifici del piano, obiettivati nella “causa concreta”, dovesse attivare la reazione del Giudice; invece no, perché altrimenti la Corte avrebbe dovuto affermare la vincolatività della percentuale di soddisfo specificamente indicata come risultato prospettico della futura liquidazione dei beni in favore dei creditori; e questo non era certamente compatibile con le motivazioni “politiche” del decisum.

Dunque la parte applicativa della sentenza registra, alla prova dei fatti, un deciso arretramento della “causa concreta” su quella “astratta”.

Soltanto nei casi cioè ove gli accertamenti del Tribunale, anche intermediati dalle attività ispettive del Commissario giudiziale, portino alla luce una impossibilità oltremodo qualificata di conseguire non già e non solo gli obiettivi del piano, bensì qualsiasi soddisfacimento apprezzabile dei creditori chirografari, il Giudice potrà attivare i propri poteri di controllo e di arresto del procedimento.

Così facendo, è indiscutibile che il Tribunale attinga al “merito” della fattibilità economica del concordato.

Ma questa soluzione non evade dai limiti di un sindacato di legittimità, e l'ordinamento non è povero di esempi analoghi.

Basti pensare alla cognizione del Giudice sui comportamenti degli organi sociali nelle azioni di responsabilità.

Se il merito delle decisioni gestionali non è sindacabile, ciò non può dirsi invece qualora le stesse devino dagli standards razionali di condotta esigibili dall'organo gestorio, più in generale quando difetti “l'adozione di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere” (

Cass., 28 aprile 1997, n. 3652

;

Cass.

23 marzo 2004, n. 5718

; Trib. Milano, 2 maggio 2007; Trib. Milano,20 febbraio 2003; Trib. Milano, 10 febbraio 2000; da ultima

Cass., 12 agosto 2009, n. 18231

).

La business judgement rule non ha infatti validità generale, e non costituisce un principio “ontologico”, ma una regola tecnica di giudizio: essa risponde semplicemente alla ratio della impossibilità per il Giudice, e della inopportunità in generale, di sindacare concrete scelte di gestione, elevatamente discrezionali, per la loro natura fortemente opinabile e “soggettiva”, ciò che potrebbe risolversi in un forte disincentivo all'adozione delle determinazioni imprenditoriali del management.

Il Giudice pertanto non può confrontare la condotta specifica dell'amministratore con un proprio ideale astratto di “buon amministratore”, non può cioè immaginarsi manager nella stessa situazione, e assumere quale sarebbe stato il comportamento più opportuno.

Questo non perché il Giudice non “sappia”, perché alle inevitabili (ed anche in un certo senso auspicabili, dato il suo ruolo “terzo”) lacune cognitive del Giudice rimedia la c.t.u., ma piuttosto perché la natura elevatamente discrezionale e “relativa” del giudizio imprenditoriale renderebbe assai pericoloso il sindacato a posteriori sull'atto, il quale si risolverebbe probabilmente in una “delega” di fatto del potere sanzionatorio al consulente tecnico d'ufficio, con forti e non auspicabili conseguenze disincentivanti ex ante.

Il limite di tale impostazione, non a caso, è la c.d. irrazionalità dell'atto gestorio, ossia la formula, in fondo abbastanza equivoca, del “sindacato di legittimità attraverso l'esame del merito”, per cui il Tribunale confronta la condotta dell'amministratore con gli standards astratti applicabili al settore, andando a stigmatizzare quei comportamenti che nessun amministratore ragionevole avrebbe potuto assumere, che cioè vanno al di là di ogni discrezionalità, risolvendosi in sostanza in un mero “azzardo morale”, e trasformando così l'impresa in una “casa da gioco autorizzata”.

Come è ben noto, infatti, il sindacato giudiziario può rispondere al modello del confronto della fattispecie concreta con delle vere e proprie rules, ossia regole di condotta specifiche e puntuali, oppure con dei meri standards.

Tanto nel dominio delle azioni di responsabilità, quanto nel mondo del concordato, il Tribunale sanzionerà tanto la violazione di norme di diritto proprie del concordato preventivo e del diritto concorsuale (quello che confusamente le Sezioni Unite chiamano “fattibilità giuridica”, ad es. la violazione dell'ordine delle cause legittime di prelazione), quanto la deviazione della proposta e soprattutto del piano dagli standards di cui la migliore scienza ed esperienza fanno uso al fine di sottoporre a verifica la attendibilità di previsioni di realizzo degli obiettivi di un piano di ristrutturazione.

Ecco, dunque, che la assunzione della irrazionalità di una previsione, siccome difforme da ogni standard di verifica, determinerà la “infattibilità economica”, pur rilevante ai fini del sindacato giudiziario sul concordato.

Conclusioni

Tuttavia, per quella che appare come una scelta di politica del diritto, di cui bisogna pur prendere atto, l'accertamento di tale deviazione assumerà rilevanza concreta, ai fini del diniego giudiziario al concordato, soltanto ove la percentuale di scostamento delle previsioni del piano dallo standard sia oltremodo elevata, tale da determinare un'impossibilità quasi “assoluta” (l'assolutezza nel dominio della epistemologia moderna in realtà, e come è noto, non esiste, risolvendosi sempre in una elevata probabilità di verificazione) di realizzazione del piano, che per di più determini una prevedibile soddisfazione soltanto “irrisoria” dei creditori della classe di chirografari “residuale”.

E' possibile però che le peculiarità del caso portato all'esame della S.C. abbiano impedito alle Sezioni Unite di prendere contezza di un ulteriore corollario.

Quando il concordato è un concordato “in continuità” (

art. 186-

bis

l.fall

), esso ha dunque la funzione legale tipica di perseguire la causa “concreta” di ristrutturare l'impresa esercitata dalla ricorrente, riportandola all'equilibrio economico, patrimoniale e finanziario, ed attraverso tale mezzo così consentendo il soddisfacimento programmato dei creditori.

Le considerazioni del Commissario e di eventuali creditori “attivi” potrebbero però portare all'evidenza come le assunzioni a base del piano industriale che informa di sé la proposta concordataria (piano “di continuità”), muovano da presupposti errati, od omettano di considerare fattori essenziali, antecedenti e talvolta anche sopravvenuti al deposito del ricorso.

L'obiettivo del riequilibrio dell'impresa potrebbe pertanto essere assolutamente non conseguibile attraverso l'attuale piano concordatario.

L'

art. 186-

bis

, ult. cpv.,

l.

fall

, là dove impone al Tribunale di

revocare l'ammissione al concordato in continuità quando la prosecuzione dell'attività d'impresa cessi o diventi dannosa per i creditori, configura poi un obbligo specifico, che non può non attivarsi quando prevedibilmente l'implementazione delle linee del piano non abbiano concrete possibilità di soddisfare gli obiettivi pianificati in favore dei creditori, ma anzi vi sia la forte probabilità che le ragioni di questi ultimi siano compromesse.

In questi casi la sindacabilità della fattibilità è giuridica, prima ancora che economica, poiché l'istituto viene piegato ad una funzione che non è quella tipica: il debitore cioè non persegue l'obiettivo di regolare e superare la propria crisi, bensì aspira solo a procrastinare l'exitus fallimentare.

Non può che cessare in questi casi anche l'ordinaria non vincolatività del quantum offerto ai creditori, giacché per effetto dell'omologazione (rectius, dell'assegnazione dei titoli azionari) si verifica l'esdebitazione

ex

art. 184

l.fall

, e l'impresa torna definitivamente in bonis.

Dunque è fondamentale che vi sia certezza su quanto

i creditori riceveranno, potendo altrimenti gli stessi azionare l'istituto della risoluzione.

Soltanto se la soddisfazione dei creditori deriva da una liquidazione del patrimonio, cui fa seguito la cessazione dell'attività, infatti, può dirsi che il livello di conseguimento concreto del soddisfo concordatario sia irrilevante. Quando invece l'attività prosegue, e genera nuovi flussi con nuovi debiti di funzionamento, la mancata corresponsione al creditore concorsuale di quanto promesso non può che abilitare quest'ultimo ad agire coattivamente per ottenere ciò che gli è stato assicurato, poiché non ci sarebbe altrimenti modo di determinare quanto gli sia altrimenti possibile attribuire. Si possono proiettare scenari alternativi, condizionati dal raggiungimento di determinati obiettivi nel successo della ristrutturazione, ma all'interno degli stessi comunque il conseguimento di determinati risultati avrebbe natura fissa e vincolante.

In tali casi infatti il concordato è assimilabile nelle funzioni e negli scopi a quello “con garanzia” (

Lamanna, L'indeterminismo giuridico creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: “così è se vi pare”, in ilfallimentarista.it

). E dunque la previsione di conseguimento delle percentuali di soddisfo programmate non può che tornare vincolante, e la verifica di ogni deviazione dalle stesse, pur se probabilisticamente “qualificata”, non può che generare l'arresto del procedimento.

Il tutto a meno di non trasformare l'obbligazione concordataria in una obbligazione “a ricorso limitato” (with limited recourse), legata cioè ai risultati dell'impresa in esercizio ed in ristrutturazione; ciò che però noverebbe il titolo dell'obbligazione in associazione in partecipazione (sia consentito il rinvio alla mia voce Cartolarizzazione dei crediti, in Enc. del diritto, Agg., Milano, 2009, 205 ss.).

Ciò però dovrebbe essere oggetto di un preciso patto concordatario, che in genere non si rinviene nelle proposte con continuità che si esaminano ormai quasi quotidianamente.

In conclusione, a me pare che il sindacato del Tribunale debba ormai esplicarsi in un controllo di “conformità” della proposta e del piano, accompagnati dalla documentazione allegata (in primis l'attestazione) al modello legale del concordato preventivo ed agli standards tecnici di attendibilità delle previsioni circa la ristrutturazione (si pensi ancora, in prospettiva storica, al controllo che svolgeva il Tribunale in fase di omologazione degli statuti societari, controllo che veniva appunto percepito come verifica di “conformità” al tipo societario prescelto,

V. Morera, L'omologazione degli statuti di società: il controllo in sede di costituzione e di modificazione, Milano, 1988

).

Controllo che avrà ad oggetto direttamente, se del caso anche col contributo di approfondimenti istruttori autonomi:

  • la conformità della proposta e del piano concordatari alle norme imperative che regolano il concordato preventivo ed il diritto concorsuale;

  • la conformità della attestazione al tipo ed allo standard richiesto, anche sotto il profilo della linearità, logicità delle inferenze nonché alla corretta esposizione delle metodologie applicate;

  • la conformità delle previsioni del piano agli standards di verifica razionali disponibili, con riferimento a potenziali deviazioni che conducano con elevata probabilità, ma solo se avente come oggetto la cessione dei beni ai creditori, ad una previsione di soddisfazione nulla o “irrisoria” per i creditori chirografari;

  • la conformità delle previsioni del piano agli standards di verifica razionali disponibili, con riferimento a potenziali deviazioni che conducano con elevata probabilità, se invece avente come oggetto la continuità aziendale, a previsioni di soddisfacimento per i creditori difformi da quelle programmate.

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