La responsabilità per i debiti della società cancellata (dopo le sezioni unite del 2013)

09 Gennaio 2014

L'ordinamento offre due strategie di tutela del credito utili per fare valere la responsabilità per i debiti di società cancellata: l'una di diritto societario; l'altra di diritto fallimentare.Nella logica del diritto societario vivente, le società tanto di persone come di capitali vanno considerate estinte con la cancellazione; degli eventuali debiti sociali superstiti o sopravvenuti risponderanno i soci secondo una dinamica successoria (Cass. S.U. 6070- 6071 - 6072 del 2013). Con evidente rovesciamento di prospettiva, la responsabilità per i debiti di società estinta si relizza in diritto fallimentare coltivando la fictio iuris della sopravvivenza della società nell'anno successivo alla sua cancellazione, tanto che la società medesima fallisce in proprio.Da questo quadro normativo e giurisprudenziale pare corretto argomentare che il praticare la reviviscenza della società mediante la c.d. cancellazione della cancellazione sia operazione interpretativa contra legem.
 La responsabilità per i debiti di società cancellata secondo il diritto societario

L'ordinamento offre due strategie di tutela del credito utili per far valere la responsabilità per i debiti (sopravvenienze passive o residui passivi non liquidati) di società cancellata: l'una di diritto societario; l'altra di diritto fallimentare.

Nella logica del diritto societario vivente, occorre osservare che in forza dell'

art. 2495 c.c.

le società di capitali, che siano cancellate a seguito di un procedimento di liquidazione(a

ltro resta il caso della cancellazione che sia funzionale al trasferimento della sede sociale: cfr. Cass. S.U., 11 marzo 2013, n. 5945

), vanno considerate estinte. E secondo l'insegnamento di

Cass. S.U. 22 febbraio 2010, nn. 4060

-

4061

-

4062

ragioni di coerenza sistematica impongono la medesima conclusione per le società di persone. Quindi a seguito della cancellazione le società risultano non più esistenti né come persone giuridiche, né come soggetti di diritto, ossia come autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive; degli eventuali debiti sociali superstiti o sopravvenuti risponderanno a diverso titolo soci e liquidatori, secondo gli

artt. 2312

e

2495 c.c.

Ed in particolare:

a)

quanto alla responsabilità dei soci,

Cass. S.U. 12 m

arzo 2013, nn. 6070

6071

6072

(

v. Corte Cost., 17 luglio 2013, n. 198

) ricostruiscono il titolo di tale responsabilità in un fenomeno successorio, sull'assunto che il venir meno della sovrastruttura societaria lasci rivivere il sostrato personalistico. In altri termini, i soci risponderanno del medesimo debito che già faceva capo alla società, nei medesimi termini e condizioni, secondo il medesimo termine di prescrizione e impregiudicate le medesime garanzie. Esce, così, suffragato quell'orientamento giurisprudenziale, già prevalente, secondo il quale il titolo esecutivo preso nei confronti della società estinta può essere azionato nei confronti dei soci, benché gli stessi non risultino cartolarmente, in virtù di un'applicazione estensiva dell'

art. 477 c.p.c.

(

Cass., 8 agosto 2013, n. 18923

). In caso di soci già illimitatamente responsabili, la persistente responsabilità per i debiti sociali discende de plano dai principi; ma anche in caso di soci già limitatamente responsabili l'

art. 2495 c.c.

, tenendo circoscritta l'esposizione personale alle “somme riscosse” in sede di liquidazione, rappresenta l'ovvio portato di almeno due principi inderogati ed inderogabili del diritto societario capitalistico: la limitazione del rischio del socio entro la misura massima del conferimento e la necessaria postergazione delle pretese patrimoniali dei soci a quelle dei creditori sociali, sicché non si può dare che un socio trattenga in via definitiva la quota di liquidazione quando vi sono creditori non pagati;

b)

altrettanto scontata la riaffermazione della responsabilità dei liquidatori, responsabilità che è corretto considerare di natura risarcitoria ( e non già patrimoniale per debiti), per il compimento di atti di mala gestio nella amministrazione della liquidazione. Questo fronte di responsabilità non è, peraltro, precipuo della vicenda estintiva della società, giacché sussisterebbe pure nell'opposto presupposto che la società stessa non si estingua a seguito della sua cancellazione, e comunque, risulta configurabile anche durante societate ( vale a dire: prima della cancellazione);

c)

non trovano sicuro fondamento normativo i tentativi di estendere al creditore sociale di società cancellata strumenti di reazione quali l'opposizione al bilancio finale di liquidazione (tipicamente attribuita al solo socio:

art. 2492 c.c.

) o l'opposizione alla cancellazione, secondo un'applicazione analogica dell'istituto dell'

art. 2445 c.c.

, che assegna al creditore facoltà di opposizione all'autodeterminazione della s.p.a. di ridurre facoltativamente il capitale sociale (

Trib. Monza, 12 febbraio 2001

);

d)

non possono ritenersi preclusi i generali strumenti cautelari di tutela del credito, esperibili anche ai sensi dell'

art. 700 c.p.c.

a fronte del pericolo rappresentato dall'imminente cancellazione della società. Del pari, non va escluso lo scenario di una possibile responsabilità risarcitoria del socio (più verosimilmente: del socio di s.r.l.) per lesione del credito, secondo la clausola generale dell'

art. 2043 c.c.

, nel caso che egli sia partecipe della condotta consapevolmente volta a cancellare troppo frettolosamente la società, nel tentativo di sottrarla alle responsabilità per i propri debiti.

Se questo è il quadro approntato dal diritto societario per realizzare le responsabilità per i debiti della società estinta, va osservato che a seguito della unilaterale opzione per la cancellazione della società stessa si realizza per il creditore sociale un sensibile deterioramento delle proprie tutele. E ciò da vari punti di vista:

  • per il rischio che nessuna responsabilità sia azionabile in via suppletiva: né verso i liquidatori, dei quali non sussista o non sia dimostrato l'inadempimento, né verso i soci di società di capitali, che non abbiano ricevuto riparti di liquidazione (si tratterebbe, in tal caso, di “debitori senza responsabilità”);

  • per le possibili difficoltà nel rintracciare ed escutere personalmente soci e liquidatori. Né giova la previsione sulla possibilità di notificare la domanda, nell'anno successivo alla cancellazione, presso la sede della società (

    art. 2495 c.c.

    ), essendo realisticamente improbabile che tale notifica possa andare a buon fine;

  • per l'effetto confusorio che si crea nel patrimonio del socio tra la quota di liquidazione ed il proprio patrimonio personale; cosicché non solo possono operare quei meccanismi compensativi che durante societate sono preclusi dall'

    art. 2271 c.c.

    , ma si realizza altresì il concorso tra creditori personali del socio e creditori già sociali, in mancanza di un vincolo di destinazione legale sulla quota di liquidazione ricevuta;

  • per la difficoltà di dare piena applicazione al meccanismo di solidarietà nel debito tra i soci: sebbene non sia derogato il principio generale di diritto civile secondo il quale nella coobbligazione la solidarietà è la regola (

    art. 1294 c.c.

    ) e sebbene, quindi, sia lecito ritenere che i soci siano tenuti in solido per i debiti già sociali

    ex

    art. 2495 c.c.

    , il creditore procedente non potrebbe comunque escuterlo per un ammontare maggiore della quota di liquidazione; o, meglio, l'eventuale maggiore pretesa avanzata ben potrebbe essere paralizzata dall'eccezione del socio sulla limitatezza della propria responsabilità. Diversamente opinando, ed affidando all'azione di regresso tra coobbligati il ripristino della misura della responsabilità limitatamente alla quota di liquidazione percetta dal singolo, si correrebbe il rischio di scardinare il principio di ordine pubblico economico sulla limitatezza della responsabilità del socio.

Segue: e secondo il diritto fallimentare

L'insoddisfazione per il sistema di tutela del credito offerto, nel caso di specie, dal diritto societario, è mitigata dalla previsione di un'altra modalità di realizzazione della responsabilità per i debiti della società cancellata, secondo il diritto fallimentare. Infatti, in nome di esigenze equitative tese ad arginare le opportunistiche sottrazioni al fallimento, è principio trasversale all'intera materia concorsuale che le condizioni per la fallibilità abbiano un'ultrattività annuale; e, in particolare, l'esigenza di certezza del diritto impone che la società estinta resti esposta al rischio del fallimento nell'anno successivo alla data certa rappresentata dal giorno della sua cancellazione dal registro delle imprese.

Evidente il rovesciamento della logica sottesa alla disciplina societaria: là, sull'assunto della estinzione della società, il sistema degli

artt. 2312

e

2495 c.c.

, e l'insegnamento di Cass. S.U. 6070 – 6071 - 6072/ 2013, ricostruiscono i contorni delle responsabilità suppletive e conseguenti, di soci e liquidatori. Qui, invece, si coltiva la fictio iuris della sopravvivenza della società nell'anno successivo alla sua cancellazione, tanto che la società medesima fallisce in proprio – in persona dei liquidatori-, in proprio interloquisce nel procedimento fallimentare ed in proprio risponde dei debiti superstiti. Evidentemente, per ripristinare il patrimonio sociale con il quale, appunto, rispondere dei debiti superstiti, occorre che in questo fallimento siano utilizzati gli strumenti recuperatori rappresentati:

a)

dalle azioni (di massa) di responsabilità verso amministratori, liquidatori e soci responsabili di atti di gestione, secondo l'

art 146 l. fall

.;

b)

dalle azioni revocatorie esercitabili ai sensi ed alle condizioni dell'

art. 67,

comma

2

, l. fall

. per la dichiarazione di inefficacia dei pagamenti effettuati in favore di altri creditori sociali, in quanto lesivi della par condicio;

c)

dalla ripetizione delle somme indebitamente percette dai soci a titolo di quota di liquidazione.

Queste ultime restituzioni non sono ottenibili mediante gli strumenti societari (azione del creditore in forza degli

artt. 2312

-

2495 c.c.

), strumenti qui preclusi perché, come si è appena rilevato, fondati sul contrario presupposto della estinzione della società. Occorrerà, piuttosto, ritenere queste dazioniinefficaci di diritto secondo l'

art. 65 l. fall

., mediante la loro equiparazione a pagamenti di debiti non esigibili né scaduti, che sarebbero scaduti in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento; in alternativa, occorrerebbe percorrere la strada offerta dall'

art. 2467 c.c.

, ritenendo che, se possono essere inefficaci di diritto le restituzioni dei finanziamenti dei soci avvenute nell'anno anteriore al fallimento, a fortiori dovrebbero essere inefficaci di diritto le restituzioni dei veri e propri conferimenti, avvenute pure nell'anno. Ma va considerato che questo secondo percorso argomentativo è irto di difficoltà, non solo perché la norma in discorso è testualmente riferita ai soli finanziamenti di soci di s.r.l.; ma anche perché si tratta di finanziamenti c.d. anomali, negoziati in epoca di squilibro patrimoniale della società, condizione difficilmente riscontrabile in relazione al caso di specie. Se si scartassero entrambe queste soluzioni recuperatorie, al curatore non potrebbe comunque essere negata un'azione di ripetizione di indebito – nell'interesse della massa - quale strumento generale e residuale di tutela, secondo l'

art. 2033 c.c.

Va detto che, da un lato, ottenere la dichiarazione di fallimento della società cancellata nell'anno risulta relativamente facile, poiché lo stato di insolvenza, lungi dal dover essere accertato mediante l'usuale valutazione finanziaria, dinamica e prognostica, invece in relazione ad una società cancellata si misura in termini strettamente patrimoniali e statici, risultando in re dalla circostanza che la sopravvivenza di un debito comporta necessariamente un'incapienza patrimoniale. Potrebbe discutersi, tutt'al più, se possa essere ritenuta insolvente una società che si sia estinta evidenziando un (apparente) attivo di liquidazione, poi ripartito tra i soci, ove il debito residuo sia inferiore o pari a tale attivo di liquidazione, quindi tale da poter essere teoricamente assorbito. Ma a ben vedere l'

art. 10 l. fall

. fa riferimento ad un'insolvenza anteriore o manifestatasi nell'anno seguente alla cancellazione, così potendo comprendere il caso esemplificato tra quelli nei quali una data società, benché vantasse un attivo di liquidazione, avendolo ripartito, risulti poi – e nell'anno - insolvente. Sempre nella logica di misurare le facilitazioni per la soluzione fallimentare in discorso si aggiunga, in secondo luogo, che, quanto alle società di persone, la ricorrente condizione di irregolarità comporta l'impossibilità di computare il dies a quo dell'anno dalla data certa della cancellazione ed è sanzionata – secondo l'interpretazione univocamente accolta in giurisprudenza (

Cass., 28 agosto 2006, n. 18618; Cass., 13 luglio 2011, n. 15428; Cass., 21 gennaio 2013, n. 1350

) - con la soggezione sine die a fallimento.

D'altro lato, risultano di ostacolo alla percorribilità della strategia fallimentare

ex

art. 10 l. fall

.:

  • il fatto che il protrarsi della liquidazione potrebbe, nel tempo, avere abbattuto i parametri dimensionali che fissano la soglia quantitativa per la fallibilità, secondo l'

    art. 1, 2° comma, l. fall

    .: cosicché la società risulti non (più) fallibile perché sotto soglia negli ultimi tre esercizi di liquidazione;

  • la previsione dell'ultimo comma dell'

    art. 15 l. fall

    ., secondo la quale non si dà luogo alla dichiarazione di fallimento se i debiti scaduti sono inferiori ai 30.000 euro: quindi la soluzione del fallimento della società cancellata resterebbe percorribile solo se il credito superstite sia di ammontare superiore. E' evidente, peraltro, l'iniquità di applicare ad una società estinta la norma deflattiva pensata per favorire le imprese in esercizio, evitando di assoggettarle a fallimento fintantoché il debito scaduto è contenuto nel limite fissato (impregiudicata la fallibilità all'aggravarsi del debito; circostanza che evidentemente non si può dare nel caso di società cancellata);

  • la comune interpretazione del disposto dell'

    art. 10 l. fall

    . (

    Cass., 12 aprile 2013, n. 8932

    ), secondo la quale il termine annuale va inteso come fissato ai fini della dichiarazione di fallimento: quindi occorre che il creditore istante si attivi anticipatamente e in tempo utile per ottenere, nell'anno, la dichiarazione di fallimento. Non può sottacersi che risulta così tradita la ratio stessa dell'

    art. 10 l. fall

    ., norma che àncora il dies a quo per la fallibilità al momento formale nel quale la cancellazione dell'impresa è pubblicizzata e conoscibile, così che sarebbe stato conseguente individuare nell'anno il termine per l'iniziativa di quei terzi che tale conoscenza maturino, e non già il momento che crea per il debitore la certezza di avere evitato il fallimento;

  • l'interpretazione accolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo la quale (

    Cass., 4 luglio 2013, n. 16751

    ) l'istanza di fallimento

    ex art. 10 l. fall. può provenire da soli creditori

    , e non già dallo stesso debitore, essendo la società già estinta e non più riconosciuta in pieno come autonomo soggetto di diritto. In senso critico, a parte la considerazione che nella logica fallimentare l'assunto sulla estinzione della società è – come detto – smentita, pare obiettivamente inefficiente privare il debitore dell'opportunità di innescare quella procedura fallimentare dove troverebbe più compiuta realizzazione la responsabilità per i debiti residui, con la creazione dello spazio processuale per il coordinato esercizio di tutte le azioni ripristinatorie della par condicio. A tacere della considerazione che l'opzione di portare i libri in tribunale potrebbe valere, per il corretto e diligente liquidatore, anche a discarico delle responsabilità ex

    artt. 2312

    -

    2495 c.c.

Le ricadute sul tema della “cancellazione della cancellazione” della società

Infine, occorre considerare che il sistema di diritto societario e fallimentare che si è delineato sopra non dovrebbe lasciare spazio a quel consistente filone di giurisprudenza di merito che pratica la revoca della cancellazione della società (

Cass., S.U., 9 aprile 2010, n. 8426, cfr. ex multisTrib. Cuneo, 16 luglio 2012; Trib. Vicenza, 24 giugno 2013; Trib. Bologna, 6 giugno 2013; Trib. Padova, 2 marzo 2011. ContraTrib. Milano, 30 ottobre 2012

). Questa interpretazione, come noto, fa leva sull'

art. 2191 c.c.

, che consente la cancellazione delle erronee iscrizioni nel registro delle imprese.

Invero, si tratta di disposizione assolutamente defilata nell'ordinamento, assurta a vero perno di una costruzione argomentativa che si fa carico della preoccupazione di tenere arginato quel comportamento simulatorio che consentirebbe una iniqua lesione del credito mediante cancellazioni pretestuose e di comodo. Se è evidente che l'ordinamento non può che prevedere un rimedio alle erronee iscrizioni, nondimeno occorre considerare che le irregolarità così sanzionate non possono che essere di ordine formale: giacché solo formale è il vaglio compiuto dal conservatore sugli atti da iscrivere. Come lo stesso non si addentra nel merito della correttezza del procedimento di liquidazione e sull'esattezza del bilancio di liquidazione che precedono la domanda di cancellazione, altrettanto non si potrà addurre la scorrettezza del processo liquidatorio per rimuovere cancellazioni eseguite.

Inoltre va preso atto in primo luogo che la sopravvivenza di debiti è testualmente definita compatibile con l'estinzione del debitore/società secondo l'

art. 2495 c.c.

, ormai applicato anche alle società di persone; e, in secondo luogo, che le

SS.UU. della Cassazione del 2013

, muovendo da questa premessa, costruiscono i termini ed i contorni delle conseguenti responsabilità degli unici soggetti superstiti - soci e liquidatori - .

Infine, non può trascurarsi che il diritto fallimentare conosce già una forma di superamento dell'intervenuta cancellazione dell'impresa: per l'appunto nell'ipotesi, appena considerata, della fallibilità dell'impresa già cancellata da meno di un anno. Quindi pare corretto argomentare a contrario che oltre l'anno dell'

art 10 l. fall. il praticare la reviviscenza

della società sia operazione interpretativa contra legem, che rischia di forzare il termine della fallibilità oltre il limite annuale.

Nemmeno varrebbe addurre - per sostenere la revoca della cancellazione - il fatto dinamico della prosecuzione dell'attività nonostante la cancellazione: l'ordinamento, a far tempo dalle fondamentali pronunce della Corte Costituzionale degli anni 1999 – 2000 (

Corte Cost., 21 luglio 2000, n. 319

) ha optato per soluzioni normative che premiano la certezza del diritto, cosicché mai il dato sostanziale della condizione attiva o no dell'impresa è preso in considerazione dalla legge, tutto in favore del dato formale e certo della cancellazione della stessa. Nell'ordinamento si rintraccia un'unica ipotesi nella quale quel dato sostanziale è valorizzato fino a prevalere su quello formale, e si tratta dell'

art. 10, comma

2

, l. fall

. La norma, eccezionale nel suo derogare ai principi sul valore dichiarativo della pubblicità e, pertanto, di strettissima interpretazione (

Cass., 21 novembre 2011, n. 24431

), stabilisce due soli casi nei quali creditore e PM sono ammessi a provare che, nonostante la cancellazione intervenuta da più di un anno, l'impresa è proseguita e risulta ancora fallibile: questi casi sono individuati - per ragioni distinte, che non occorre qui indagare - nella cancellazione dell'imprenditore individuale e nella cancellazione d'ufficio di società. Al di fuori delle due ipotesi testuali, quindi, il fatto della cancellazione non potrà essere superato nemmeno in caso di prosecuzione dell'attività: le responsabilità per i debiti assunti nel prosieguo della gestione dovranno trovare coerente realizzazione nei principi di diritto societario, ed in particolare, nel meccanismo dell'imputazione dell'attività di impresa secondo la spendita del nome nonché nella disciplina applicabile alle società commerciali irregolari e di fatto.

Nel quadro normativo e giurisprudenziale attuale, quindi, la cancellazione della società, tanto di persone quanto di capitali, si va delineando come un evento irreversibile, suscettibile di modificare definitivamente la realtà, mentre la tutela dei creditori e dei soggetti danneggiati è lasciata arretrare dal piano reale a quello meramente obbligatorio.

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