Concordato preventivo e gruppi d’imprese: cessione e diversione di beni, e attestazioni condizionate

Danilo Galletti
21 Settembre 2012

È inammissibile la proposta di concordato che pianifichi la destinazione di parte del ricavato della cessione degli attivi concordatari al soddisfacimento dei creditori di altra società appartenente al medesimo gruppo societario, in quanto contraria alla norma imperativa, di ordine pubblico, di cui all'art. 2740 c.c., a nulla valendo la prospettazione di pretesi vantaggi compensativi.
Massima

È inammissibile la proposta di concordato che pianifichi la destinazione di parte del ricavato della cessione degli attivi concordatari al soddisfacimento dei creditori di altra società appartenente al medesimo gruppo societario, in quanto contraria alla norma imperativa, di ordine pubblico, di cui all'art. 2740 c.c., a nulla valendo la prospettazione di pretesi vantaggi compensativi.

E' inammissibile la proposta concordataria accompagnata da una relazione che non contenga un'esplicita assunzione di responsabilità in ordine alla integrale fattibilità del piano, e che formuli altresì giudizi prognostici condizionati alla verificazione di plurimi eventi, senza pronunziarsi sul grado di verosimiglianza degli stessi.

Il caso

È inammissibile la proposta di concordato che pianifichi la destinazione di parte del ricavato della cessione degli attivi concordatari al soddisfacimento dei creditori di altra società appartenente al medesimo gruppo societario, in quanto contraria alla norma imperativa, di ordine pubblico, di cui all'art. 2740 c.c., a nulla valendo la prospettazione di pretesi vantaggi compensativi. (massima)


E' inammissibile la proposta concordataria accompagnata da una relazione che non contenga un'esplicita assunzione di responsabilità in ordine alla integrale fattibilità del piano, e che formuli altresì giudizi prognostici condizionati alla verificazione di plurimi eventi, senza pronunziarsi sul grado di verosimiglianza degli stessi. (massima)

Più società appartenenti allo stesso agglomerato societario depositano una domanda di concordato “collettiva”, formulando proposte condizionate l'una rispetto all'esecuzione dell'altra.
La domanda è formulata in modo da tenere formalmente distinte le masse attive e passive di ciascun piano concordatario; ciononostante gli assets destinati alla liquidazione di una società appaiono destinati almeno in parte al soddisfacimento esclusivo dei creditori di un'altra cellula del gruppo, mediante attribuzione di quota parte del realizzo.
Tale diversione dei benefici economici della cessione viene giustificata anche alla luce della c.d. teoria dei vantaggi compensativi, valorizzando la sottrazione dei creditori della società “pregiudicata” (i cui beni cioè sono eterodestinati) al rischio di subire azioni revocatorie fallimentari, nonché la concessione di altri benefici ricavati all'interno del gruppo.
La relazione dell'attestatore recepisce il contenuto di alcune perizie redatte da tecnici in effetti qualificati, pur evidenziandone alcune criticità, ed inoltre esprime il giudizio di fattibilità assoggettando la valutazione finale ad una serie di condizioni “risolutive”, la cui verificazione integrale renderebbe la proposta del tutto infattibile, laddove l'integrazione soltanto parziale delle condizioni condurrebbe ad una soddisfazione dei creditori in percentuale minore rispetto a quanto prospettato.
Il Tribunale reputa che la proposta, così formulata, contravvenga al principio generale di cui all'art. 2740 c.c., di fatto sottraendo taluni beni alla garanzia dei creditori. Il fenomeno, non a caso, appare infatti possibile nell'ambito di una fusione, ma col presidio del potere di opposizione dei creditori (art. 2503 c.c.).
In un obiter dictum si valorizza la differenza ontologica rispetto al concordato “in continuità”, richiamando anche la novità legislativa contenuta nel c.d. decreto sviluppo, nel quale sarebbe invece possibile, a tutela dell'interesse generale alla continuazione dell'attività, destinare taluni beni alla prosecuzione dell'attività caratteristica, e liquidando gli altri al fine di soddisfare la collettività dei creditori concorsuali.
Anche la relazione dell'attestatore non supera il vaglio di ammissibilità, evidenziando il Tribunale come l'esperto possa utilizzare perizie redatte da professionisti terzi, ma abbia l'onere di valutarne criticamente l'operato e di recepirne le conclusioni.
Anche l'apposizione di un'attestazione di fattibilità condizionata non soddisfa il Tribunale, il quale osserva come ogni giudizio nasconda in sé un margine di aleatorietà, ma anche come all'attestatore si richieda appunto di valutare e dichiarare che i fattori di rischio da cui la realizzazione del piano dipende si verificheranno con un sufficiente margine di verosimiglianza e di “ragionevolezza”.
D'altro canto, anche l'affermazione per cui se le condizioni apposte si realizzassero in parte gli obiettivi del piano concordatario sarebbero conseguiti in misura parziale, consentendo il soddisfacimento del ceto creditorio secondo un'aliquota inferiore a quella prospettata, appare insufficiente, posto che l'esperto deve attestare la fattibilità del piano nella sua integralità, senza potersi accontentare di formulare giudizi parziali; diversa essendo fra l'altro la funzione ordinamentale dell'attestatore e del Commissario.

Le questioni giuridiche

Il diritto concorsuale ordinario, com'è noto, non prevede disposizioni apposite relativamente ai gruppi di società.
Se la disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese conosce forme di coordinamento fra procedure riguardanti società appartenenti al medesimo gruppo (artt. 80 ss. D.Lgs. n. 270/1999), particolarmente efficaci e “sensibili” alla prospettiva dell'aggregazione delle imprese (arg. ex artt. 81, secondo comma, D.Lgs. n. 270/1999, 3, terzo comma, e 5 L. n. 39/2004)(cfr. in particolare il commento di Daccò all'art. 3 l. n. 39/2004, in La legge Marzano. Commentario a cura di Castagnola e Sacchi, Torino, 2006, 88 ss.), nulla è invece prescritto né in materia di fallimento né di concordato preventivo (cfr. in dottrina, per un panorama delle opinioni prima della Riforma del 2006-2007, Fabiani, Legge fallimentare e insolvenza nei gruppi societari, in Fall. 1998, 901 ss.; Corsi, L'insolvenza nel gruppo, in I gruppi di società, Atti del Convegno di Venezia, II, Milano, 1996, 1059 ss.; Gambino, I gruppi nelle procedure concorsuali minori, in Giur. comm., 1993, I, 367 ss.; Abate, I gruppi di imprese nelle procedure concorsuali, in Fall., 1993, 985 ss.; Scognamiglio, Gruppi di imprese e procedure concorsuali, in Giur. comm., 2008, II, 1091 ss. Di recente v. invece Lamanna, La “crisi” nel gruppo d'imprese: breve report sull'attuale stato dell'arte, in ilfallimentarista.it.).
Prima della Riforma del 2005-2007, la giurisprudenza aveva offerto qualche timida “sortita”, in realtà inadatta a fornire qualsiasi generalizzazione.
Così, si è per lo più consentito di trattare le procedure relative a distinte società del gruppo, in forza di ricorsi unitari, oppure mediante la riunione di più ricorsi distinti (Trib. Firenze, 13 luglio 1992, in Dir. fall., 1994, II, 563; Trib. Orvieto, 18 maggio 1994, in Fall., 1994, 1090; Trib. Ivrea, 21 febbraio 1995, ivi, 1994, 969; Trib. Roma, 16 dicembre 1997, in Dir. fall., 1998, II, 778; Trib. Terni, 19 maggio 1997, in Fall., 1998, 290. Viene spesso citato come precedente contrario a quest'indirizzo Trib. Perugia, 3 marzo 1995, in Foro it., 1995, I, 1952, ma in realtà la sentenza si limita a negare che si possa dar luogo ad un unico concordato, avente come oggetto il gruppo in sé, senza negare rilevanza, ai fini della valutazione del Tribunale, al fenomeno dell'aggregazione di imprese).
Non si dà mai la stura, quindi, ad una procedura di concordato unitaria, che abbia per soggetto ed oggetto il gruppo di imprese inteso in quanto tale (fa eccezione il concordato omologato nel 2005 dal Tribunale di Pavia - caso “Yomo” -, il quale ha argomentato esplicitamente dalla nozione di “impresa di gruppo”; in realtà però anche la teorica della holding di fatto sarebbe di scarso aiuto, posto che se anche in un gruppo si potesse individuare un'impresa “di gruppo”, cosa che non è, resterebbero comunque sempre distinte le masse attive e passive, imputabili a ciascun soggetto: l'impresa è un'attività, non un soggetto, e non può essere di per sé debitrice o titolare di beni), ma sempre a più procedure distinte, pur fra di loro connesse (anche la diffusa tendenza a riconoscere comunque competente per tutte le procedure il Tribunale ove ha sede la capogruppo è perlomeno discutibile, atteso che non è detto che la “sede effettiva” delle società del gruppo coincida con quella della capogruppo, ove possono essere accentrate talune funzioni strategiche, non l'amministrazione dell'impresa, chè altrimenti la capogruppo ed i suoi amministratori sarebbero sempre amministratori di fatto delle società controllate, e non vi sarebbe alcun bisogno di fare applicazione degli artt. 2497 ss. c.c.; un discorso analogo può farsi anche per il “centro principale degli interessi” che fissa la competenza internazionale ai sensi del Regolamento UE n. 1346/2000; inoltre è perlomeno discutibile che possa operare la connessione di cui all'art. 40 c.p.c., dato che sembrerebbe che l'aspirazione al simultaneus processus derivi da mere ragioni di convenienza processuale, ed allora non dovrebbe essere possibile effettuare lo “spostamento” della competenza per territorio).
Frequente è la nomina delle stesse persone per i medesimi organi (Giudice Delegato, Commissario), anche se ciò può a volte determinare situazioni difficili, a causa del rischio di conflitti di interesse fra una società e le altre.
Non è da escludere che, nel caso in cui sia nominato un medesimo Commissario, questi rediga un'unitaria Relazione ex art. 172 l. fall. (unitaria in senso documentale), così attenuandosi fra l'altro i possibili problemi relativi al deficit informativo dei creditori di un concordato rispetto ad un altro.
Taluni provvedimenti hanno affermato, più o meno lucidamente, la possibilità che certi elementi del concordato siano valutati “unitariamente”; ma quasi tutti hanno negato espressamente di poter dar luogo ad una qualsiasi commistione di masse, attive come passive (Cfr. anche, pur se in tema di fallimento, Trib. Messina, 15 febbraio 1996, in Fall., 1996, p. 792, a proposito di un gruppo di società in cui il patrimonio e le passività delle singole società erano state oggetto di confusione nella fase di esercizio dell'impresa in bonis); allo stesso modo, si è quasi sempre proceduto a votazioni separate per ciascuna massa creditoria (contra però Trib. Crotone, 28 maggio 1999, in Giust. civ., 2000, I, 1533; più di recente Trib. Terni, 30 dicembre 2010, in ilcaso.it).
L'unico riferimento normativo sembra costituito dall'art. 4-bis, comma 2, L. n. 39/2004, ove si disegnano (a dire il vero in modo un po' sconclusionato) i tratti distintivi di una proposta di concordato “unica” per più società del gruppo (v. il commento di Daccò in La legge Marzano, cit., 164 ss.). In realtà, tuttavia, la stessa norma (che pur si muove in un contesto normativo ove ben diversa è la struttura della procedura, la rilevanza dell'interesse creditorio, nonché la considerazione del gruppo) ha cura di indirizzare esplicitamente gli operatori verso la separazione delle masse attive e passive; vi si dice poi che “a seconda delle condizioni patrimoniali di ogni singola società” i trattamenti possono essere differenti pur all'interno delle medesime classi, evidentemente sul presupposto che sia possibile una struttura della proposta con classamento omogeneo di creditori simili pur insistenti su diversi patrimoni, i quali tuttavia siano soddisfatti proporzionalmente alle rispettive consistenze degli attivi; e che il “possano” non debba essere letto come un obbligo, anziché come una mera facoltà, è tutto da dimostrare.
In merito alla relazione dell'attestatore, le stesse best pratices sembrano convalidare le argomentazioni del Tribunale.
Tutti i giudizi, soprattutto quelli previsionali, contengono stime e valutazioni circa la verificabilità di eventi futuri, e questo è vero tanto per i concordati in continuità, ove i risultati di un'attività d'impresa, addirittura in fase di turnaround, sono per definizione aleatori; quanto per i piani “di cessione”, che rivelano margini consistenti di opinabilità, soprattutto in ordine alla realizzabilità delle ipotesi di liquidazione, salvo il caso-limite in cui il piano sia integralmente “chiuso” attraverso la predisposizione di vincoli negoziali preliminari che rendano l'attività di liquidazione sostanzialmente eteroindirizzata (col pur sempre ineliminabile residuo margine di rischio della incapienza patrimoniale dei promissari acquirenti).
Le leges artis, già codificate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, all'interno del documento del 2006, nel successivo documento divulgato dal CNDEC nel febbraio del 2009, e poi nel 2010, codificano il sapere “tecnico” degli operatori quanto alla “tecnica” di redazione delle attestazioni, con indicazioni che paiono convergenti nel senso prospettato dal Tribunale romano.
Così, in particolare, nel Documento del 2009 si afferma che “attestare consiste, quanto al giudizio di veridicità dei dati aziendali, nella formulazione di una dichiarazione che si traduca di fatto in un'assunzione di responsabilità in ordine ad una certa attività di controllo svolta sugli stessi dati aziendali, e, quanto al pronostico di fattibilità del piano, nel verificare e quindi nel certificare che il medesimo possa essere realizzato in un'ottica di verosimile fattibilità e quindi in un'ottica di una verosimile riuscita”.
E quanto alla fattibilità, il suddetto documento precisa che “Attraverso la certificazione della veridicità dei dati aziendali il legislatore della riforma non si è limitato a richiedere al professionista solamente un parere in relazione alle cosiddette dinamiche passate o meglio alla conduzione storica dell'azienda ed ai risultati rilevati sino alla data di presentazione del concordato, ma anche e soprattutto un giudizio tecnico in merito alla gestione prospettica dell'azienda medesima, vale a dire in ordine alla fattibilità del piano. La relazione di cui all'art. 161, terzo comma, l. fall., si conclude, infatti, con un giudizio finale del professionista in ordine all'idoneità giuridica ed economica delle soluzioni prospettate dall'imprenditore nella proposta di concordato a raggiungere gli scopi ivi previsti. Al professionista è, pertanto, richiesto di pronunciarsi con criticità sulla corretta valutazione, in un'ottica prospettica, dei dati aziendali contenuti nel piano concordatario, nonché sul valore di stima delle attività di cui alla lett. b) dell'art. 161, secondo comma, l. fall., affrontando pertanto le problematiche e gli aspetti di attuazione pratica del piano.... La relazione in esame dovrà pertanto concludersi con un giudizio finale, il quale potrà spaziare da una considerazione conclusiva sintetizzata in una breve formula a giudizi più complessi ed articolati che, in base alla esperienza ed alla competenza tecnica del professionista, conducono l'estensore ad individuare in modo compiuto diversi scenari in corrispondenza del verificarsi di differenti variabili. Peraltro, affinché possa ritenersi integrato il requisito richiesto dalla legge in ordine al giudizio di fattibilità del piano, occorre che l'estensore non si limiti ad una semplice indicazione di fattibilità «solo apoditticamente affermata», senza alcuna minima illustrazione delle considerazioni a supporto di tale conclusione, dovendo, al contrario, motivare in modo chiaro ed approfondito le ragioni che lo hanno indotto ad esprimere un giudizio positivo in relazione alla probabile riuscita del piano, non potendo del pari ricorrere a formule esclusivamente di stile; motivazione dell'attestazione che dovrà pertanto essere sostanziale ed oggettiva. Il giudizio di fattibilità è, infatti, una valutazione di carattere tecnico, fondata su dati analiticamente individuati nella relazione che pur rivestendo carattere prognostico deve comunque essere supportato da idonee motivazioni. …In particolar modo, il professionista deve concludere per l'attuabilità del piano allorquando il progetto di ristrutturazione del debito e soddisfacimento dei creditori è “credibile”, nel senso che gli obiettivi che il medesimo si prefigge «possono concretamente realizzarsi non in termini di mera possibilità, ma di probabilità di successo».
Conformi a tali impostazioni sono anche le più recenti Linee-Guida diramate dal CNDEC, nell'ambito del documento del febbraio 2010, le quali hanno anche cura di precisare che l'attestazione non può essere emessa in modo condizionato, a meno che l'evento dedotto in condizione non sia un fatto estremamente semplice, destinato a verificarsi entro un breve lasso di tempo (come la sottoscrizione da parte di un soggetto di un documento).
Le Linee-Guida del 2010 codificano alcune Massime “auree”, valevoli in realtà per qualsiasi attestazione, tanto strumentale all'asseverazione di un piano ex art. 67 l. fall., quanto di un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., o di un piano concordatario ex art. 161 l. fall..
La recente omogeneizzazione dei requisiti necessari per attestare tali situazioni nell'ambito del c.d. decreto sviluppo conferma la validità di tale prospettiva.
Raccomandazione n. 10 (Struttura dell'attestazione). L'attestazione ha la struttura di una relazione di verifica effettuata su un piano di risanamento già fatto, e non quella di un piano. L'attestazione non deve ripetere i contenuti del piano.
«Con l'attestazione, il professionista attesta che il piano è ragionevole e idoneo a consentire il superamento della crisi (o, nell'accordo ex art. 182-bis, a garantire l'integrale pagamento dei creditori estranei). In linea di principio, si tratta quindi di un'analisi svolta su un piano già predisposto da terzi.
L'attestazione formulata in forma di relazione su un piano già redatto consente ai terzi interessati di verificare con immediatezza l'iter logico-giuridico del piano, oltre che le sue basi fattuali, seguendo lo schema di verifica predisposto dall'attestatore. Di conseguenza, sia in considerazione della sua funzione, sia per non appesantire inutilmente il documento, è opportuno che l'attestazione non ripeta i contenuti del piano, che può essere richiamato nelle sue linee essenziali e allegato alla relazione di attestazione.
L'attestazione deve quindi presentarsi come una sorta di discussione e commento del piano, che dia conto al lettore dell'iter logico (esplicitando anche, se del caso, le cifre considerate e i calcoli fatti) seguito dal professionista per giungere alla conclusione positiva circa il rilascio dell'attestazione. L'attestazione, in altri termini, non deve duplicare il piano né, all'opposto, limitarsi a una mera enunciazione della sua “ragionevolezza e idoneità”, ma deve esporre chiaramente la motivazione del giudizio positivo espresso dall'attestatore».
Raccomandazione n. 11 (Motivazione dell'attestazione). La dichiarazione di attestazione deve indicare le metodologie utilizzate e le attività svolte dal professionista per giudicare l'idoneità e la ragionevolezza del piano, e deve contenere un'adeguata motivazione della conclusione raggiunta.
«Grazie a una accurata e dettagliata motivazione, gli interessati possono valutare, anche ex post, il livello dell'indagine svolta dall'attestatore per appurare la veridicità delle premesse e la ragionevolezza delle ipotesi su cui si poggia il piano nonché la correttezza delle metodologie utilizzate per i calcoli. Un'attestazione priva di adeguata motivazione, o con motivazione stereotipata, sarebbe inidonea a fondare l'esenzione e, nel caso della relazione che accompagna l'accordo di ristrutturazione, potrebbe essere causa di diniego dell'omologazione; potrebbe persino costituire indizio di negligenza nell'attività di verifica richiesta al professionista.
Il professionista dovrebbe dichiarare le attività svolte: (a) per verificare “l'attendibilità” delle fonti informative utilizzate nel piano per costruire le ipotesi di partenza e le previsioni economico-finanziarie; (b) per affermare la “ragionevolezza” delle ipotesi poste alla base dell'elaborato e la “correttezza” (teorica ed applicativa) delle metodologie adottate per effettuare i calcoli e le previsioni economico- finanziarie.
Per formare il suo convincimento il professionista, per aspetti del piano che richiedono competenze specialistiche, può fondarsi su perizie di consulenti nominati ad hoc».
Raccomandazione n. 12 (Indicazioni cautelative, oggetto dell'attestazione e condizioni sospensive dell'attestazione). La dichiarazione di attestazione non può essere sottoposta a riserve o indicazioni cautelative che ne limitino la portata. Essa può invece essere condizionata a un evento iniziale, che deve verificarsi in tempi prossimi e che, se si verifica, rende il piano ragionevole.
«L'attestatore compie una prognosi ex ante sulla idoneità del piano a risanare l'impresa e sulla ragionevolezza del piano stesso. L'indagine è compiuta nel momento in cui è resa l'attestazione, il cui oggetto si proietta nel futuro. Questo apre tre distinti problemi:
(a) i limiti di ammissibilità di riserve e/o indicazioni cautelative;
(b) l'orizzonte prospettico della valutazione del professionista;
(c) la possibilità di sottoporre a condizioni sospensive iniziali l'efficacia dell'attestazione.
Con riguardo al primo profilo, si deve rilevare che l'esenzione da revocatoria è concessa dalla legge sul presupposto che gli atti siano meritevoli di tutela in quanto compiuti sulla base di un piano che un professionista abbia valutato come ragionevole. È nel momento dell'attestazione che il piano è, o non è, ragionevole.
Deve conseguentemente escludersi la possibilità di sottoporre la dichiarazione di attestazione a condizioni o precisazioni che ne svuotino o indeboliscano il significato.
Delle due l'una: o il professionista ritiene che il piano sia ragionevole, e allora egli si assume la responsabilità della dichiarazione e gli atti che vengono compiuti in esecuzione del piano sono coperti dalla sua valutazione, o egli non ritiene che il piano sia ragionevole, e allora non vi è, per il piano e per gli atti da compiersi in sua esecuzione, alcuna copertura.
Un'attestazione sottoposta a indicazioni cautelative (quali ad esempio l'indicazione di rilevanti fattori di incertezza che potrebbero minare il successo del tentativo di risanamento) può inoltre cagionare gravi problemi sia durante il processo di ristrutturazione, sia in caso di fallimento dell'impresa. Nel primo caso, può accadere che fra il debitore e i creditori vi sia un accordo di massima la cui efficacia è subordinata all'intervento dell'attestazione sul piano: un'attestazione sottoposta a indicazioni cautelative potrebbe aprire un contenzioso sul fatto se la condizione sospensiva (l'attestazione) si sia verificata o meno. Allo stesso modo, in caso di fallimento, un'attestazione con indicazioni che ne limitino il significato potrebbe ingenerare incertezza in ordine alla sua effettiva efficacia protettiva, con conseguenze negative sia per il terzo che su di essa abbia fatto affidamento, sia sullo stesso professionista che potrebbe essere chiamato a rispondere dal terzo che sia risultato non protetto.
Con riguardo al secondo profilo, è evidente che il giudizio di ragionevolezza deve essere espresso in relazione al piano relativamente a tutta la sua durata.
L'attestazione non è tuttavia inficiata dalla descrizione di fattori di rischio riferiti ad eventi che potrebbero verificarsi solo in tempi lontani. In quest'ottica, deve ritenersi ammissibile un'attestazione che, dopo aver (necessariamente) escluso ogni pericolo prossimo di insolvenza, individui tuttavia fattori di rischio riferiti ad eventi da collocare a notevole distanza temporale dall'attestazione. Resta peraltro fermo che:
(a) pur in presenza dei citati fattori di rischio, l'attestatore deve indicare lo scenario del risanamento come quello più probabile (vedi paragrafo precedente);
(b) l'attestatore deve prestare attenzione all'arco temporale entro il quale il riequilibrio deve essere conseguito (vedi “Raccomandazione” n. 5) e alla presenza, come elementi che rafforzano la qualità del piano, di eventuali “ammortizzatori” (riserve di liquidità e/o patrimoniali, nonché meccanismi automatici di aggiustamento) idonei a neutralizzare o attenuare gli eventuali scostamenti negativi che potrebbero verificarsi rispetto alle previsioni (vedi “Raccomandazione” n. 7 e “Raccomandazione” n. 14).
Con riguardo all'ultimo profilo, l'inammissibilità di indicazioni cautelative non impedisce che il professionista condizioni la valutazione di ragionevolezza ad un evento iniziale, che deve verificarsi in tempi prossimi da lui stesso indicati e che, se si verifica, rende ragionevole il piano. Ne consegue che è legittimo e corretto, ad esempio, rilasciare l'attestazione alla condizione che entro n settimane venga stipulata una convenzione bancaria che ristrutturi l'indebitamento in termini sostenibili (descritti dal piano). In tal caso il professionista non si assume la responsabilità di dichiarare se la sottoscrizione della convenzione sia ragionevolmente realizzabile, ma si limita a dichiarare che, se essa verrà sottoscritta entro un determinato termine massimo, allora il piano diverrà ragionevole. Nel caso dell'accordo di ristrutturazione, poiché non sembra possibile un'omologazione condizionata, la convenzione bancaria dovrà essere già stipulata nel momento in cui interviene il decreto (pur potendo essere, naturalmente, condizionata nella sua efficacia all'intervenuta omologazione).
Resta fermo che, se invece questi eventi siano assunti come condizioni di efficacia dell'attestazione, è necessario che il professionista faccia una valutazione prognostica della loro alta probabilità di verificazione, in difetto dovendo negare l'attestazione.
Fino al verificarsi dell'evento condizionante, ovviamente, gli eventuali atti in esecuzione del piano non sono assistiti da alcuna copertura (la cosa è ovvia per gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis, nei quali la conclusione dell'accordo con i creditori non è solo la condizione di efficacia, ma è l'oggetto dell'istituto).
In sostanza, vi sono solo due alternative: a) l'esperto ritiene che il verificarsi di un evento determinante per il successo del piano sia ragionevole, e allora l'attuazione del piano può iniziare immediatamente; b) l'esperto non si assume alcuna responsabilità in merito alla ragionevolezza del verificarsi di tale evento, e allora fino a che l'evento non si verifichi effettivamente gli effetti protettivi dell'attestazione non hanno inizio (in quanto non è chiaro che il piano sia “ragionevole”)».

Osservazioni

Per il concordato preventivo riformato non sembra che il debole appiglio testuale offerto dal riferimento, nell'art. 160, lett. b), l. fall., alle “imprese” interessate, possa legittimare la presentazione di un ricorso unitario, con piano unico (l'affermazione merita una precisazione: l'inerenza a ciascuna proposta di concordato di un “piano” risiede nella Legge; questo non toglie ovviamente che più debitori possano presentare più ricorsi, od anche un ricorso unico, che veicoli un medesimo assetto complessivo definito “piano”, nel senso che gli obiettivi delle varie proposte saranno condizionati gli uni a quelli dell'altra; ciò non elimina tuttavia la constatazione oggettiva che vi saranno comunque più “piani”, sebbene formalmente aventi sede nel medesimo contesto; per una enfatizzazione della distinzione fra “piano” e “proposta” v. Vitiello, Il concordato preventivo “di gruppo”, in ilfallimentarista.it), e soprattutto con libertà di “usare” gli assets delle diverse società al fine di realizzare una commistione di masse, attive e/o passive.
Non sembra consentito, ad es., determinare un trattamento per i creditori differente da quello che si potrebbe ottenere mediante la realizzazione della responsabilità patrimoniale di ogni singola società.
O meglio, non sembra preclusa la possibilità di sfruttare e/o sviluppare le sinergie economiche ed industriali, anche potenziali, esistenti fra i diversi assets, al fine di conseguire un miglior trattamento per tutti i creditori implicati; ma non parrebbe consentito l'utilizzo dei distinti patrimoni in modo tale da pregiudicare il trattamento che potrebbe essere conseguito dai creditori di una società in un separato concordato.
La questione è assai complessa, e di notevole importanza, attese le implicazioni operative.
Se il trattamento complessivo erogato alla massa dei creditori di una società non è inferiore a quello che si potrebbe ottenere in un concordato separato, sarà possibile, ricorrendo all'istituto delle classi, assegnare ad alcuni un trattamento deteriore, al fine di aumentare la percentuale di altri meno incentivati ad accettare la proposta; questa è in fondo la stessa ratio dell'istituto delle classi.
Ma non si potrebbe (come invece sarebbe avvenuto nel caso deciso da Trib. Terni, 19 maggio 1997, cit., e come si intendeva fare nel caso “Jam Session”, deciso dal Trib. Parma, con provvedimenti del 10 luglio 2008, inediti) ad es. assegnare a tutti i creditori chirografari la medesima percentuale, aumentando quella che potrebbero ottenere i creditori della società “A” mediante l'utilizzo di parte del ricavato degli assets della società “B”.
In questo caso infatti si dà luogo in realtà ad una palese violazione dell'art. 2740 c.c., non supportata da alcuna norma, e nemmeno parzialmente rimediabile attraverso il meccanismo del voto: infatti la maggioranza potrebbe così disporre di una norma imperativa e di sistema, estranea alla dialettica concordataria (e quindi in carenza di “legittimazione” a disporre della sfera giuridica della minoranza), e nemmeno il sindacato del Tribunale col cram down potrebbe restaurare l'equità dei rapporti, atteso che il funzionamento dell'istituto delle classi qui sarebbe inutile.
Il nuovo concordato preventivo consente a mio avviso ai redattori di derogare in parte ad un importante principio della responsabilità patrimoniale: quello del pari diritto di ciascun creditore di pari categoria ad essere soddisfatto in egual misura (la nostra par condicio creditorum, pari passu per gli anglosassoni: la deroga si desume con certezza dalla stessa strutturazione dell'istituto delle classi), contenuto nell'art. 2741 c.c.; non quello della soggezione di tutti i beni del debitore, presenti e futuri, alla responsabilità per le obbligazioni (art. 2740 c.c.) (cfr. Ant. Rossi, Scelte strategiche in tema di formazione delle classi di creditori, in eutekne.info).
Anche in un altro precedente capitolino (Trib. Roma, 3 marzo 2011, in unijuris.it), del resto, il Tribunale aveva avuto cura di mantenere distinte le masse e le votazioni, restando quindi, a mio avviso, nel solco di una trattazione unitaria delle distinte procedure concordatarie, giustificata da motivi di connessione.
Tutt'al più si potrà assoggettare a vendita congiunta beni di società diverse, al fine di realizzare il surplus di valore dell'aggregato; tale surplus potrà poi esser sì liberamente distribuito all'interno dei vari concordati; ciononostante a nessuno dei creditori di una società potrà essere distribuito, di quel ricavato, meno del valore dell'asset che faceva parte del patrimonio della “loro” società.
Dunque il valore dei componenti dell'aggregato in vendita dovrà essere stimato, ed oggetto di separata indicazione; non diversamente, del resto, da quanto avviene nei fallimenti quando si mette in vendita un aggregato di beni, e su alcuni soltanto di essi insiste una causa di prelazione.
E' evidente che le finalità di un concordato “di gruppo” potrebbero essere raggiunte anche attraverso una fusione delle varie società prima di accedere al concordato; non sempre tuttavia le condizioni patrimoniali delle stesse lo consentono, poiché la somma algebrica dei patrimoni netti potrebbe non consentire il raggiungimento del minimo di capitale imposto dal modello adottato.
E la decisione di fondere società insolventi, così modificandone la situazione patrimoniale, deprimendo prevedibilmente le ragioni di una o più masse creditorie rispetto alle altre, potrebbe anche essere foriera di conseguenze di carattere penalistico, non elise dal potere di opposizione dei creditori.
Potere di opposizione che spetterebbe a mio avviso ai creditori anche se la fusione costituisse un patto espresso concordatario, appunto perché la deroga all'art. 2740 c.c. non può costituire oggetto del potere della maggioranza di vincolare la minoranza; e rimedio non sovrapponibile a quello costituito dalla facoltà di opporsi all'omologazione al concordato, poiché avente un oggetto differente (v. nel senso dell'ammissibilità della fusione post-ammissione al concordato, pur senza prendere posizione sulla inerenza dell'opposizione alle facoltà del creditore, in un caso in cui appariva decisivo l'apporto di nuova finanza da parte dei soci, e la fusione serviva anche a revocare l'efficacia di precedenti operazioni straordinarie, Trib. Monza, 24 aprile 2012, in ilfallimentarista.it, con nota di Bersani).
Pertanto la fattibilità di un concordato preventivo “di gruppo” che preveda una fusione sarebbe condizionata dalle probabilità di proposizione e di accoglimento del giudizio di opposizione ex art. 2503 c.c., probabilità che dovrebbero pur essere scrutinate preventivamente dall'attestatore.
D'altro canto, il pur frequente riferimento a nozioni del diritto societario, ora superate, come l'“interesse di gruppo”, ora rinnovate, come i “vantaggi compensativi”, sembra ultroneo ed inconferente: l'art. 2497 c.c. infatti detta una regola di responsabilità civile, e non di realizzo della responsabilità patrimoniale.
La dinamica dei vantaggi compensativi asseconda la ritrazione dell'ordinamento nel sanzionare i comportamenti manageriali, inevitabilmente insindacabili nel loro merito e nell'opportunità (c.d. business judgement rule). Perciò si concede la legittimità di quelle operazioni che non manifestino una corrispettività immediata, ma che possano tuttavia ritrovarla all'interno di uno scenario pianificatorio più ampio, e che non appaia irragionevole.
Non è detto pertanto che le elaborazioni teoriche dettate per le operazioni infragruppo, dettate per quando le imprese sono in bonis ed operative, valgano altresì nei casi in cui subentra una procedura concorsuale, e si procede ad attuare la responsabilità patrimoniale.
Quando si attua la responsabilità patrimoniale del debitore il contesto è differente, e quello che si ricerca in questi casi è proprio l'opposto di quanto si andava dicendo supra: in queste tipologie di concordato non si vede infatti quale sia il “vantaggio compensativo” che riceve la società il cui patrimonio viene in prospettiva “cannibalizzato” dalle altre.
Anche tutte le nozioni di “interesse di gruppo”, o di interesse “nel gruppo” sono inconferenti, perché in realtà focalizzano l'interesse delle società, e non quello dei loro creditori.
D'altro canto, anche il vantaggio compensativo costituito dalla rinunzia dei creditori della società beneficiata agli effetti di possibili azioni revocatorie andrebbe attentamente scrutinato, in ordine alla individuazione ed alla probabilità concreta di accoglimento delle relative domande.
Sul punto non si ritiene peraltro di poter condividere la radicale valutazione negativa circa la proponibilità di azioni revocatorie fallimentari spiegate da una curatela verso un'altra, benché la tesi sia stata recentemente sposata dal S.C. (Cass., 12 maggio 2011, n. 10486), poiché la cristallizzazione del patrimonio del debitore non può resistere all'utilizzo di strumenti che esistono proprio al fine di sottrarre alla responsabilità patrimoniale del cessionario beni che sono stati trasferiti nel patrimonio di quest'ultimo in frode ai creditori, e che possono essere pertanto recuperati da questi ultimi attraverso l'esperimento di rimedi che non hanno natura meramente obbligatoria, ma condividono i caratteri delle azioni “reali”. Ci sarà da domandarsi piuttosto se ciò possa avvenire con le forme del giudizi ordinario, oppure se richieda quelle dell'accertamento del passivo.
Insufficiente sarebbe pertanto a mio avviso la “conversione” delle ragioni recuperatorie della Massa pregiudicata in una pretesa concorsuale da insinuare allo stato passivo, pari al valore del bene sottratto alla garanzia.
Una possibilità operativa differente potrebbe essere costituita dalla ricostruzione di una responsabilità risarcitoria della capogruppo, e della differente società del gruppo che abbia “preso parte al fatto lesivo”, ai sensi dell'art. 2497 c.c., nei confronti della diversa cellula del gruppo la quale sia stata pregiudicata; tale responsabilità costituirebbe oggetto di un credito che consentirebbe alla danneggiata di esercitare una pretesa di natura concorsuale verso la danneggiante in concordato.
L'esistenza di tale obbligazione, peraltro da ricostruire in modo puntuale, facendo piena disclosure nell'ambito della Procedura sui comportamenti gestionali preconcordatari, potrebbe fondare una destinazione del risultato della liquidazione degli assets della società danneggiante in favore della danneggiata, e dunque solo indirettamente dei suoi creditori.
In ogni caso non si perverrebbe mai ad una diretta destinazione di parte del ricavato della vendita ai creditori della società creditrice, ma semplicemente si terrebbe conto nel piano dell'esistenza di una sfera creditoria in più, eventualmente classandola in modo specifico e partito.
Non mi pare invece radicalmente preclusa la possibilità di cedere solo parzialmente i beni del debitore, lasciando allo stesso qualche assets da reimpiegare in altre attività economiche: l'ipotesi può non essere irrealistica, soprattutto per partecipazioni prive di valore, che richiedano una reimmissione di denaro al fine di riequilibrare la situazione patrimoniale delle partecipate, oppure più in generale per beni il cui collocamento sul mercato sia praticamente impossibile nel breve e medio periodo, e che richiedano notevoli sforzi economici al fine di conservarli.
I creditori possono infatti stimare che convenga loro provvedere ad una liquidazione “a stralcio” delle loro posizioni, liberando questi assets della responsabilità patrimoniale, così che il debitore od eventuali soggetti terzi possano concentrare i loro sforzi al fine di valorizzare la massa attiva facente parte della promessa.
In tal modo non si pone in essere una deroga all'art. 2740 c.c.: in caso di risoluzione od annullamento del concordato quei beni resteranno soggetti alla pretesa esecutiva dei creditori concorsuali; semplicemente il piano non prevede flussi di cassa provenienti da quegli assets, conseguendo i propri obiettivi mediante gli altri cespiti del concordato.
E' evidente però che se l'esistenza di tali beni fosse omessa nella proposta, oppure se ivi fosse artificiosamente e fraudolentemente dedotta la carenza di prospettive concrete attuali di realizzo, la circostanza costituirebbe materia per una istanza di revoca del concordato ex art. 173 l. fall..
Sarà consentito anche ricomprendere (col consenso espresso dei titolari) nel piano l'utilizzo ai fini delle cessioni dei beni dei soci (da indicare ora nella domanda - art. 161, lett. d - insieme con i creditori particolari), se a responsabilità illimitata; non sembra però precluso l'utilizzo dei beni anche di soci a responsabilità limitata e di terzi, pur se in tali casi la valutazione da parte dell'esperto della “fattibilità” del piano sarà più difficile; né può pensarsi che l'esperto possa disinteressarsi di tali aspetti soltanto perché gli stessi non si rispecchiano nei “dati aziendali” dei quali egli deve attestare la “veridicità”.
In questi casi, non è da sottovalutare l'opportunità di ricorrere ad un trust (oppure ad un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.), al fine di “segregare” gli assets “conferiti” da soci o terzi all'esecuzione del piano concordatario (cfr. Rovelli, Il ruolo del trust nella composizione negoziale dell'insolvenza di cui all'art. 182-bis l. fall., in Fall., 2007, 595 ss.; Liccardo, Il trust nelle procedure concorsuali, 13 ss. del dattiloscritto, che ho potuto esaminare per la cortesia dell'A.; e v. anche, se si crede, il mio Il trust e le procedure concorsuali: una convivenza subito difficile, in corso di pubblicazione su Giur. comm.), sì da proteggerli, nei limiti in cui l'ordinamento lo consente (l'esperibilità dell'azione revocatoria ordinaria non sembra derogabile), all'aggressione dei creditori “particolari” dei titolari dei beni.
L'ipotesi non è da confondere, ma è limitrofa, con quella in cui venga apportata la c.d. nuova finanza, ovvero quando un terzo metta a disposizione delle risorse monetarie da impiegare al fine di soddisfare in modo specifico una classe individuata di creditori, i quali mediante l'applicazione rigorosa del principio dell'ordine delle cause legittime di prelazione (art. 160, comma 2, l. fall.) dovrebbero ricevere un riparto inferiore (oppure nessun riparto). In questi casi infatti il credit enhancement avviene per lo più mediante la prestazione di impegni obbligatori a somministrare fondi in caso di necessità, preferibilmente assistiti da garanzie bancarie al fine di dimostrare la fattibilità.
Tali beni e diritti non entrano a far parte del patrimonio del debitore concordatario, in caso contrario non potrebbero essere distribuiti in modo da derogare al suddetto principio fondamentale sull'”ordine” nel realizzo della garanzia patrimoniale (in tal senso di recente v. Cass., 9 giugno 2012, n. 9373, la quale precisa altresì correttamente come la “nuova finanza” non possa nemmeno costituire oggetto di un debito, benché postergato, della società debitrice).
L'impegno pertanto, benché “gestito” in fase di liquidazione dalla procedura, è valido ed efficace soltanto nei confronti dei destinatari. Il che ovviamente non vuol dire che gli altri creditori, pur non “beneficiati”, non siano interessati all'adempimento del terzo apportatore di “nuova finanza”, dato che ciò fonda anche la fattibilità del “loro” concordato. Per questo gli organi della Procedura sono legittimati a realizzare l'enforcement.
Tali beni e diritti vengono pertanto “segregati” all'interno del concordato, senza dar vita a masse separate, dato che appunti si tratta di assets non facenti parte del patrimonio del debitore.
Fra il terzo ed i creditori intercorre in sostanza un rapporto negoziale atipico, soltanto in parte assimilabile alla fideiussione (mi pare da escludere tuttavia che, anche in carenza di indicazioni negoziali, quasi sempre presenti, tale impegni possano essere azionati - direttamente dai creditori: Cass., Sez. Un., n. 11396/2009, cit. - anche in caso di mancata omologazione del concordato: non si tratta infatti di “garanzie”, ma di attribuzioni unilaterali gratuite: art. 1333 c.c.).
Problematica potrebbe essere la scelta di trasferire determinati assets a cessionari differenti, scindendo al contempo i creditori fra di loro, in modo da dar vita ad aspettative di soddisfazione diverse. Ad es., un complesso aziendale, di incerta ristrutturabilità, potrebbe essere attribuito ad una società i cui azionisti siano i vecchi soci, titolari di prestiti sociali, laddove gli altri assets potrebbero essere invece liquidati, con destinazione del ricavato ai restanti creditori.
Tale ipotesi, che qui viene esaminata con riguardo esclusivo all'ipotesi di procedere con cessioni separate, e non mediante scissione, non sembra in contrasto radicale con la nuova struttura del concordato: essa dà semplicemente vita ad aspettative di realizzo diversificate, ed impone a mio avviso, per la sua realizzabilità, di organizzare le frazioni di passivo così individuate in classi distinte.
In tal modo la formazione delle classi, pur restando una facoltà, diviene un onere al fine di disporre di alcune modalità operative che possono rivelarsi particolarmente pregiudizievoli per una categoria di creditori.
E' evidente che si instaura in tal modo una deroga all'art. 2741 c.c. (per questo occorre la formazione di una classe), ma non anche all'art. 2740 c.c. atteso che gli assets non vengono realmente “liberati” da responsabilità nei confronti di alcuni creditori, pur continuando a rispondere verso gli altri; come si è già visto a proposito della cessione “parziale” di beni, il fenomeno si risolve in una canalizzazione più complessa da parte del piano dei flussi della gestione concordataria; in caso di risoluzione od annullamento del concordato, tutti i beni potranno essere espropriati da tutti i creditori concorsuali.
Non pare tuttavia che l'ordinamento concorsuale lo vieti, anzi il riferimento implicito alla scissione contenuto nell'art. 160 l. fall. mi sembra fornire un solido appiglio.
Sarà il controllo del Tribunale in sede di valutazione della correttezza nella formazione delle classi, ed eventualmente in fase di omologazione e cram down, a garantire che la proposta del debitore non costituisca un inammissibile abuso ai danni di determinati creditori, in ipotesi anche non sufficientemente incentivati a reagire in sede giudiziaria.
Beninteso, si tratta di una possibilità, e non di una necessità: le cessioni possono infatti essere diverse, in favore di soggetti differenti, senza che si realizzi alcuna “scissione” delle obbligazioni concordatarie; in tal caso sarà il solo piano a “canalizzare” i flussi delle operazioni di vendita verso la soddisfazione di tutti i creditori.
Nella parte finale della motivazione, il provvedimento commentato svolge un richiamo al testo del c.d. decreto sviluppo, recentemente convertito in legge, là dove si consente, pur nei concordati “in continuità” (art. 186-bis l. fall.), che alcuni beni “non funzionali all'esercizio dell'impresa”, siano “liquidati”. Ciò a conferma del fatto che, nella altre tipologie concordatarie, non sarebbe invece possibile destinare una parte del patrimonio del debitore alla prosecuzione dell'impresa, laddove l'altra parte viene liquidata a vantaggio dei creditori.
In realtà, sembra che tanto la situazione del concordato in continuità, quanto quella implicata dal neo-introdotto art. 186-bis l. fall., siano differenti da quella del concordato “di gruppo”, ove parte dell'attivo di una massa sia destinata al soddisfacimento dei creditori di un'altra massa.
Nel concordato in continuità, infatti, i beni non liquidati e destinati alla continuazione dell'impresa non vengono sottratti al patrimonio del debitore, ma soltanto ricevono una “destinazione” funzionale, che non è estranea alla ristrutturazione del debitore. Nulla vieta infatti che proprio dai flussi della gestione caratteristica siano ricavate talune delle risorse necessarie per soddisfare i creditori concorsuali.
Inoltre, anche nel nuovo art. 186-bis l. fall. non è affatto detto che le risorse ricavate dalla liquidazione degli assets non “strategici” debbano essere destinate a finalità diverse rispetto al loro mero reimpiego nell'attività caratteristica che prosegue.
Critica è semmai la situazione ove parte dei beni dell'attivo, ritenuta non “strategica”, sia liquidata, e con il ricavato si pretenda di pagare i creditori concorsuali; dopodiché, per effetto della esdebitazione concordataria (art. 184 l. fall.), l'attività proseguirà “sollevata” dal peso delle obbligazioni concorsuali ormai cancellate.
In tale caso infatti i beni non destinati alla soddisfazione dei creditori concorsuali sono di fatto sottoposti al rischio di impresa, e divengono la garanzia per i nuovi creditori, i quali non subiscono alcuna falcidia.
Persino in tale ipotesi, tuttavia, non si realizza alcuna deroga all'art. 2740 c.c. (in termini molto più scettici peraltro Vitiello, Il concordato preventivo con classi nella prospettiva liquidatoria e nella prospettiva del risanamento, e Il concordato preventivo “di gruppo”, entrambi in ilfallimentarista.it, il quale attribuisce un significato determinante alla presenza o meno di “nuova finanza” proveniente da terzi. A me parrebbe però che se la nuova finanza è destinata per definizione a non entrare mai nel patrimonio del debitore, essa non possa costituire mai un motivo sufficiente, se non in termini “empirici”, per superare ostacoli legati all'art. 2740 c.c.), atteso che se i creditori concorsuali non vengono soddisfatti conformemente al programma concordatario (chi scrive peraltro ritiene, in sintonia con l'indirizzo assunto dalla Magistratura meneghina, che il ricorso all'istituto della cessione dei beni ai creditori non possa esentare il debitore dall'assicurare un determinato livello di soddisfacimento ai creditori; dunque non sarà mai possibile nei casi in considerazione scaricare semplicemente sui creditori concorsuali il rischio dell'incapienza dei beni destinati alla liquidazione, al contempo conseguendo l'esdebitazione e la liberazione di quelli “strategici” dai vincoli assunti col concordato), essi possono esercitare le proprie azioni esecutive anche sugli assets “vocati” alla continuazione dell'esercizio dell'impresa.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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