Dicastero lavoro: recenti posizioni in tema di crisi di impresa

19 Marzo 2015

Si affronta la questione sulla possibilità o meno di applicare le deroghe all'art. 2112 c.c., previste all'art. 47, commi 4 bis e 5 della L. 428/90 anche nei casi in cui l'azienda sia in crisi. L'Autore opera un coordinamento tra la normativa giuslavoristica e quella fallimentare al fine di fornire una soluzione alla problematica, partendo da due recenti interpelli del Ministero del lavoro (32/2014 e 33/2014) sulla Cassa Integrazione Straordinaria per le società sottoposte alle procedure concorsuali e sul tema degli accordi stipulati in deroga all'art. 2112 c.c.
Premessa

In coda all'anno 2014 il Ministero del Lavoro si è dimostrato attivo nel replicare a due interpelli in tema di crisi d'impresa. Il primo verteva sulla possibilità di recuperare le quote di TFR maturate dai lavoratori in pendenza di cassa integrazione straordinaria; il secondo sulla possibilità di applicare l'

art. 47, co

mmi

4-

bis

e 5,

L. 428/1990

, per derogare le tutele ai lavoratori in caso di trasferimento d'azienda contenute nell'

art. 2112

c.c.

, anche nel caso di impresa non assoggettabile a procedura concorsuale per carenza di requisiti.

Oltre a chiarire i dubbi degli istanti, questi interpelli stimolano l'approfondimento di ulteriori questioni inerenti le situazioni di crisi ed insolvenza qualificando ulteriormente l'operatività del Ministero, sempre più attento a regolare gli aspetti critici ed a fornire soluzioni interpretative utili alle impresa in difficoltà.

L'interpello n. 33/2014

Con il primo interpello (

interpello n. 33 del 17 dicembre 2014

), il CNO dei Consulenti del Lavoro chiede chiarimenti circa la possibilità di ottenere dall'INPS il rimborso delle quote di trattamento di fine rapporto maturate durante il periodo di Cassa Integrazione Straordinaria per le società sottoposte alle procedure concorsuali, a prescindere dal rispetto dei termini di decadenza previsti dall'

art

.

5, comma 6, L. n. 223/1991

, nonché dai periodi di eventuale interruzione del flusso di Cassa Integrazione per ripresa dell'attività lavorativa. Tra le righe emerge altresì la richiesta di precisazioni circa la maturazione o meno del TFR

ex

art. 2120 c.c.

in caso di fallimento.

Per trattare la materia con maggiore chiarezza, è opportuno partire da quest'ultimo dubbio, posto che è proprio dalla maturazione o meno dell'istituto che genera la valutazione circa la competenza alla liquidazione.

La questione era già stata trattata da chi scrive (

La gestione dei rapporti di lavoro nelle procedure concorsuali, Euroconference editore, 2012, 34

), ma le interpretazione argomentabili fino al 2012 devono completamente sostituirsi ora con la nuova funzione della cassa integrazione concorsuale, come voluta e modificata rispettivamente dalla Riforma Fornero e successivamente dal Decreto Sviluppo nell'estate del 2012.

Andando per ordine, la condivisibile interpretazione ministeriale riprende i passi di cui all'

art. 2120 c

.

c

.

:

  • in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato i prestatori hanno diritto al trattamento di fine rapporto, ossia a quella quota di retribuzione differita che matura progressivamente nel corso dello svolgimento del rapporto stesso (comma 1);

  • in caso di sospensione della prestazione di lavoro per infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, nonché in caso di sospensione totale o parziale per integrazione salariale, deve essere computato ai fini del TFR l'equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro (comma 3).

A questo punto si può trarre la conclusione che, qualora l'azienda cessi la propria attività, alcun trattamento debba maturare a favore del lavoratore dipendente. Per contro, nel caso di continuazione dell'attività, pur sospesa tramite l'intervento della cassa integrazione ordinaria o straordinaria, il TFR continua a maturare.

Il passo successivo è chiedersi se il fallimento rappresenti o meno una continuazione dell'attività. In linea di massima dopo la sentenza dichiarativa possono verificarsi tanto ipotesi di continuazione, quanto di cessazione dell'attività, con ripercussione in termini di maturazione dell'Istituto.

La particolarità che alimenta il dibattito si verifica però quando, successivamente alla dichiarazione di fallimento, interviene un periodo di cassa integrazione straordinaria

ex

art. 3 L. 223/1991

.

In questo caso si deve accertare se la “cassa” integra una situazione di cessazione aziendale, oppure di continuazione dell'attività come per gli ammortizzatori in genere.

Risulta a tal proposito chiarificatrice la contrapposizione tra il testo dell'

art. 3 L. 223/1991

ante e post riforma Fornero:

testo ante L. 92/2012:

“… qualora la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata …”

;

testo post L. 92/2012:

"… quando sussistano prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione, da valutare in base a parametri oggettivi definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali …".

Pare evidente come prima della Riforma Fornero l'intervento della cassa presupponesse la cessazione o la non continuazione dell'attività come requisito fondamentale. Infatti la cassa integrazione in questo caso veniva considerata da parte della giurisprudenza addirittura un “atto dovuto”, finalizzato all'aumento del periodo di assistenza a favore del soggetto destinato a perdere il lavoro.

Ne deriva che, secondo la tesi ministeriale, questi requisiti giustificavano la mancata maturazione dell'Istituto. Per contro è innegabile che la nuova formulazione, peraltro prossima alla soppressione (prevista per il 2016), indichi una situazione diametralmente opposta alla precedente, richiedendo i requisiti di

continuazione o di ripresa dell'attività.

L'ammortizzatore regolato dal novellato

art. 3 L. 223/1991

sostiene quindi una condizione di continuità aziendale, pienamente coerente con la tesi della maturazione del TFR. Un curatore che oggi dichiara l'impossibilità di continuare l'attività non avrà accesso all'intervento straordinario, dovendosi rifugiare nella procedura di mobilità, evitando quindi di porsi il dubbio circa la maturazione o meno del TFR.

Dal testo dell'interpello si scorge anche un riferimento alla cassa integrazione per cessazione di attività (limitata alle aziende in bonis). Questa, pur sotto osservazione da parte dell'attuale esecutivo, non può comunque limitare la maturazione delle quote di TFR in corso di fruizione, in quanto trattasi di una tipologia di intervento rientrante nella fattispecie di “crisi aziendale” ex

artt. 1

e

2 L. 223/1991

, diversa quindi dalla cassa concorsuale regolata dall'art. 3.

Trattamento di fine rapporto, criteri di competenza

Alla luce di quanto esposto, pare non esservi più dubbio alcuno circa la maturazione dell'Istituto in ogni caso di cassa integrazione.

L'

art. 2, comma 2, della L. 464/1972

dispone: “

Per i lavoratori licenziati al termine del periodo di integrazione salariale,

le aziende possono richiedere il rimborso alla Cassa integrazione guadagni dell'indennità' di anzianità, corrisposta agli interessati, limitatamente alla quota maturata durante il periodo predetto

. La quota di TFR imputabile a carico dell'Istituto in caso di trattamento straordinario, quindi, risulta essere quella derivante dal periodo di sospensione totale a zero ore, fruito ininterrottamente prima della cessazione del rapporto. Peraltro tale quota matura sulla retribuzione contrattualmente definita e non sulle quote integrate dall'ammortizzatore.

Qualora intervenga un evento ad interrompere la continuità cronologica del rapporto, sarà solo l'ultimo periodo antecedente il licenziamento ad essere recuperato presso l'Istituto previdenziale. La ripresa dell'attività genera quindi un passaggio di competenza circa l'erogazione del TFR, che passa a carico dell'azienda per la parte antecedente il rientro al lavoro.

In caso di richiamo al lavoro del dipendente a procedura dichiarata, il carico si palesa notevolmente gravoso, in quanto tale quota di TFR deve considerarsi prededucibile.

La previsione sembra chiara, ma esiste un'ipotesi specifica che mina la possibilità di recuperare tutte le quote.

Il rimborso non può essere effettuato in caso di collocamento in mobilità dei lavoratori tra il 12° mese successivo all'emanazione del decreto di concessione e il 12° mese dal completamento del programma.

Tale limitazione, però, non deve applicarsi ai casi di licenziamenti collettivi intervenuti in aziende sottoposte alle procedure concorsuali, come recita la circolare Inps

n° 103/1995 ed è proprio questa interpretazione che viene ripresa dall'interpello ministeriale.

In tutte le altre ipotesi di cessazione, invece, il superamento del limite temporale ostacola il recupero delle quote ai sensi dell'

art. 5, co

mma

6, L. 223/1991

, compresa la proroga per il secondo anno di cassa integrazione per crisi legata alla cessazione di attività, recentemente rifinanziata dalla Legge di Stabilità per il 2015 (circ. 1/2015 Min Lav).

Il secondo interpello: crisi ed accordi in deroga

Con il secondo interpello (

interpello n. 32 del 17 dicembre 2014

), sempre innescato dal CNO dei Consulenti del Lavoro, si affronta il tema degli accordi stipulanti in deroga all'

art. 2112 c.c.

Tale fonte tutela i passaggi dei dipendenti trasferiti da un'azienda ad un'altra per effetto di un'operazione che muta la titolarità dell'azienda. Le garanzie contenute nell'articolo riguardano la continuazione del

rapporto di lavoro e dei diritti che ne derivano, oltre alla responsabilità solidale tra cedente e cessionario per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento.

Pare evidente come in caso di azienda in difficoltà risulti assai complicato rendere appetibile l'avviamento ad un eventuale imprenditore subentrante, posto che alle difficoltà che hanno portato alla crisi si aggiunge un peso specifico legato all'oneroso costo del lavoro. La possibilità di intervenire su tutti i diritti quesiti dei lavoratori rende più agile il possibile trasferimento dell'azienda o di un ramo di questa.

Sia chiaro che l'analisi concerne i casi in cui la crisi non limita totalmente la continuazione dell'attività, salvaguardando almeno parzialmente i livelli occupazionali.

La neutralizzazione o almeno la limitazione degli effetti conservativi è possibile tramite l'intervento degli accordi:

  • Individuali:

    sempre possibili, da definire e far sottoscrivere ad ogni lavoratore per mezzo delle procedure assistite ex

    artt. 410

    e

    411

    c.p.c

    .

    Il vantaggio è dato dall'immediato effetto pregnante dell'accordo.

    Il rischio più evidente è dato proprio dal fatto che, essendo accordi individuali, l'animus conciliandi potrebbe non essere condiviso da tutta la popolazione aziendale, tanto da vanificare l'obiettivo del cessionario teso ad alleggerire gli impegni nei confronti dei dipendenti;
  • Collettivi:

    possibili nel rispetto di quanto previsto per le aziende in condizioni di crisi ex art. 47, commi 4-bis e 5. Il vantaggio è la tempistica di una trattativa che viene condivisa con un unico interlocutore (sindacato), pur vincolando tutti (trasferiti e non). I rischi sono legati all'efficacia

    tanto soggettiva dell'accordo, che potrebbe essere contestato da qualche lavoratore che ne rilevi l'assenza di efficacia erga omnes, quanto oggettiva nei confronti della forza derogatrice delle Legge.
Campo di applicazione degli accordi collettivi ex art. 47, comma 4-bis e 5, l. 428/1990

La fonte citata incorpora due commi simili, ma non sovrapponibili, creati ad hoc tramite una tecnica legislative gattopardesca per sfuggire alle censure della Corte di Giustizia Europea.

Per comprenderne l'insensibile diversità, ed acquisirne il campo di applicazione, è bene schematizzare i due commi:

comma 4-bis:

La limitazione all'applicazione dell'

art. 2112

c.c.

richiede la soddisfazione delle seguenti condizioni:

  • accertamento dello stato di crisi, dichiarazione di apertura del concordato preventivo, omologazione della ristrutturazione dei debiti o amministrazione straordinaria in continuazione o mancata cessazione;

  • stipula di un accordo sindacale relativamente al mantenimento anche parziale dell'occupazione.

Qualora le condizioni risultino

soddisfatte congiuntamente al momento in cui il trasferimento risulta effettivo, l

'

art. 2112

c.c.

troverà applicazione con le limitazioni individuate nell'accordo.

comma 5:

La disapplicazione dell'

art. 2112

c.c

.

richiede invece la soddisfazione delle seguenti condizioni:

  • dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta e amministrativa o amministrazione straordinaria;

  • cessazione dell'attività, o mancata disposizione di continuazione della stessa;

  • stipula di un accordo sindacale relativamente al mantenimento anche parziale dell'occupazione;

Le condizioni devono essere soddisfatte congiuntamente al momento in cui il trasferimento risulta effettivo così da poter disapplicare completamente l'

art. 2112 c.c.

,

tanto che il lavoratore trasferito instaurerà un nuovo rapporto di lavoro.

Querelle sull'efficacia degli accordi.

Trattandosi di accordi sindacali, la questione spinosa riguarda gli effetti vincolanti che questi possono esprimere nei confronti dei lavoratori non rappresentati dal sindacato stipulante, o comunque dissenzienti.

Si deve ricordare che la giurisprudenza riconosce questi come accordi di tipo gestionale, o anche “accordi in perdita”, i quali realizzano la particolare condizione di validità erga omnes senza intaccare il principio costituzionale di libertà sindacale battezzato dall'

art. 39 della Cost.

Tra tutte, la Cassazione Sezione Lavoro, con la pronuncia 21214 del 14 ottobre 2010, ha confermato la validità degli accordi limitativi dell'applicazione del 2112, conferendo loro efficacia generalizzata.

Alla luce di questo chiarimento, cedente e cessionario sembrano più liberi di operare, realizzando così la possibile continuità delle aziende in crisi.

Fruibilità della deroga per le aziende sottodimensionate.

L'

art. 47 della L. 428 del 1990

illustra la procedura obbligatoria che le aziende coinvolte in un trasferimento d'azienda, tutelato negli effetti dall'

art. 2112 c.c.

, devono seguire qualora la cedente occupi più di 15 lavoratori.

Posta la doverosa premessa, ci si chiede se i commi 4-bis e 5 del medesimo articolo, possano invece applicarsi anche ai trasferimenti che coinvolgono aziende numericamente meno dotate. Chi scrive sostiene la tesi assolutamente possibilista, i commi in questione infatti si limitano a regolare ipotesi precise senza alcun accenno a requisiti numerici minimi, come invece avviene nel comma 1.

Inoltre l'

art. 2112

c.c

.

, che con questi commi si intende aggirare o limitare negli effetti, si applica senza dubbio alcuno ai passaggi di lavoratori indipendentemente dal requisito occupazionale soddisfatto dall'azienda.

Applicabilità della deroga alle aziende escluse dal fallimento per carenza di requisiti

La nuova

Legge Fallimentare

pone specifici requisiti dimensionali la cui presenza congiunta consente ad un imprenditore, pur commerciale, di sottrarsi alla dichiarazione di fallimento:

  • l'impresa ha avuto, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se inferiore), un attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a euro 300.000;

  • l'impresa ha realizzato, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se inferiore), ricavi lordi complessivi annui non superiori a euro 200.000;

  • l'impresa ha un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a euro 500.000.

Il campo di applicazione dell'art. 47, commi 4-bis e 5, però, non si limita al fallimento.

Infatti, tra le righe delle condizioni utili alla realizzazione della deroga emerge la dichiarazione di crisi ai sensi dell'

art. 2, comma 5, lett c), della L. n. 675/1977

, espressamente richiamata al comma 4-bis.

Ne deriva che non dovrebbe emergere dubbio alcuno circa l'applicabilità della deroga anche alle aziende in crisi, a patto che lo stato di crisi non risulti autodeterminato bensì certificato da un ente terzo come nel caso portato all'attenzione del Ministero, ove la condizione di insolvenza era stata dichiarata dal MEF e dalla sezione fallimentare del Tribunale.

La risposta all'interpello non può che confermare questa tesi: nel caso quindi di conservazione almeno parziale dei livelli occupazionali, ove l'azienda cedente versi in uno stato di crisi certificata, dichiarata da un'autorità pubblica e terza, risulta applicabile la deroga di cui all'

art. 2112

c.c

.

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