Il ruolo degli amministratori, dei sindaci e degli istituti di credito in un sistema di imprese in crisi

14 Maggio 2015

Il contributo vuole esaminare il ruolo che assumono gli attori dell'impresa quando questa entra in crisi, con una attenzione particolare ai profili di responsabilità penale in cui questi possono incorrere. Alla luce dell'ultima riforma di diritto societario e delle recenti modifiche in materia fallimentare l'Autore si concentra sulle figure degli amministratori, dei sindaci e degli istituti di credito.
Crisi d'impresa e ruolo degli amministratori

La presenza di un civilista, in un convegno dedicato agli obblighi tributari e alla responsabilità penale, potrebbe apparire, prima facie, difficilmente comprensibile; di modo che si impone immediatamente un chiarimento. Il tema che mi propongo di trattare non è legato al titolo del convegno, bensì al sottotitolo, ove v'è un esplicito richiamo al ruolo degli amministratori, dei sindaci e dei curatori fallimentari ai tempi della crisi economica.

La riflessione può muovere dalla seguente premessa: i poteri e gli obblighi che incombono sugli amministratori nell'esercizio delle loro funzioni sono delineati nell'àmbito di norme aventi chiara matrice civilistica; attraverso un'attenta selezione, il legislatore ha individuato poi quei comportamenti che, caratterizzandosi per un maggior disvalore, assumono rilevanza penale.

È ben noto come la riforma del diritto societario abbia significativamente innovato la disciplina concernente ruolo e prerogative degli amministratori, introducendo peraltro plurime clausole generali (si v. i puntuali rilievi di Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 179 ss.). Il principio di corretta amministrazione, alla cui stregua gli amministratori sono obbligati ad adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto «con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze» (

art. 2392, comma 1, c.c.

), impone di individuare gli obblighi comportamentali da osservare non solo sulla base delle regole aventi matrice giuridica, ma anche sulla scorta delle regole tecniche elaborate nell'àmbito delle prassi e delle scienze aziendalistiche (Montalenti, Amministrazione e controllo nelle società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di sistema, in Riv. soc., 2013, 47), così come si evince dal fatto che l'organo di controllo è chiamato ad esercitare la funzione di vigilanza, oltre che sull'osservanza della legge e dello statuto, anche sul rispetto dei principi di corretta amministrazione (

art. 2403 c.c.

) (Montalenti, I controlli societari: recenti riforme, antichi problemi, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, 537).

Su questo specifico punto ritengo necessario riflettere in merito al fatto che nel sistema imprenditoriale italiano, a forte matrice familiare, sovente il socio, considerando la società (rectius: le partecipazioni societarie) alla stregua di un qualunque altro bene di cui si può essere titolari, è portato a ritenere di poter esercitare con assoluta discrezionalità ogni prerogativa discendente dall'anzidetta titolarità, anche e soprattutto a livello di governance. Stenta così a maturare l'idea in virtù della quale, se l'impresa presenta un elevato grado di specializzazione tecnica e di complessità organizzativa, occorrono specifiche competenze manageriali che, il più delle volte, non possono essere rinvenute all'interno della famiglia. Di talché, tenuto conto dalla forte pregnanza assunta dalle clausole generali, ben potrebbe profilarsi un illecito in tutti quei casi in cui, pur richiedendo l'espletamento della specifica funzione gestoria il possesso di un'adeguata

preparazione sotto il profilo tecnico, ci si induca all'assunzione dell'incarico pur essendo privi del necessario bagaglio e corredo di competenze (Galgano e Genghini, Il nuovo diritto societario,

in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia

, diretto da Galgano, I, Padova, 2006, 479-480).

Tanto osservato in termini generali, particolarmente delicato si rivela il ruolo degli amministratori al cospetto della crisi dell'attività di impresa. V'è stato in precedenza il riferimento alla cosiddetta procédure d'alerte, nella convinzione che vi sia un'esigenza di tempestiva emersione della crisi di cui gli amministratori non possono non darsi carico. Due lustri or sono, proprio al dichiarato scopo di assicurare l'immediata «venuta allo scoperto» della crisi d'impresa e l'attivazione delle iniziative volte a porvi rimedio,

si era tentato di introdurre nel nostro ordinamento una normativa specifica (

si v.

Panzani, La riforma della legge fallimentare

, in Fall., 2004, 604; Lamanna, Intervento, in Fall., 2004, 55-56; Sacchi, Procedura di crisi, in Fall., 2004, 7-8; de Ferra, La riforma societaria e gli istituti di allerta e prevenzione nella riforma delle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2005, 470 ss.; Boccuzzi, I meccanismi di allerta e di prevenzione e le procedure stragiudiziali, in Dir. fall., 2005, 626 ss.; Giorgetti, Critica alla

legge fallimentare riformata: la legittimazione dei terzi a proporre la domanda di concordato preventivo quale ipotesi di soluzione alternativa

, in ilFallimentarista.it), sulla scorta delle esperienze maturate in altri Paesi, nei quali i meccanismi di allerta sono da tempo operativi. Può ricordarsi la normativa che, all'interno del Code de Commerce, disciplina la procédured'alerte, prevedendo anche il coinvolgimento del Presidente del Tribunale di Commercio, al quale, ove abbia notizia di problematiche finanziarie gestionali, è attribuito il potere di richiamare, ascoltare, suggerire ed, eventualmente, adottare i provvedimenti che appaiano all'uopo necessari.

Ciò detto, e preso atto della perdurante assenza nel nostro ordinamento di una disciplina specificamente dedicata all'emersione per tempo delle difficoltà finanziarie dell'impresa, avvertita da autorevoli studiosi come una lacuna di significativa rilevanza (Lamanna, Il decreto del “fare” e le nuove misure di controllo contro l'abuso del preconcordato, in ilFallimentarista.it), occorre osservare come, fino ad un passato non lontano, il ruolo degli amministratori in occasione della crisi, alla luce delle previsioni contenute nelle norme dedicate alla riduzione del capitale sociale, potesse essere definito con un certo nitore. In caso di riduzione del capitale sociale, viene in considerazione un obbligo di conservazione, finalizzato a scongiurare pericoli di deterioramento dello stesso. Più in particolare, ove risulti una diminuzione del capitale sociale di oltre un terzo in conseguenza di perdite, l'art. 2446, comma 1, in relazione alle società per azioni e l'

art. 2482-

bis

, comma 1, c.c.

, per quel che riguarda le società a responsabilità limitata, sanciscono l'obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l'assemblea per l'adozione degli opportuni provvedimenti. Qualora, entro l'esercizio successivo, la perdita non risulti diminuita a meno di un terzo, è ulteriormente previsto:

1) relativamente alle s.p.a., l'obbligo per l'assemblea, convocata per l'approvazione del bilancio di tale esercizio, di ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate, in guisa che, in caso di violazione, gli amministratori e i sindaci sono tenuti a chiedere al tribunale di disporre la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti in bilancio (

art. 2446, comma 2, c.c.

);

2) in relazione alle s.r.l., l'obbligo per gli amministratori di convocare l'assemblea per l'approvazione del bilancio e per la riduzione del capitale in proporzione alle perdite accertate (

art. 2482-

bis

, comma 4, c.c.

).

Allorquando in ragione di perdite per oltre un terzo il capitale sociale si sia ridotto al di sotto del limite previsto dalla legge, l'obbligo gravante sugli amministratori, compendiato nell'

art. 2447 c.c.

per la s.p.a. e nell'

art. 2482-

ter

c.c.

per la s.r.l., ha ad oggetto la convocazione senza indugio dell'assemblea, affinché venga deliberata la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo, ovvero, in alternativa, la trasformazione della società; salvo quanto disposto dai richiamati

artt. 2447

e

2482-

ter

c.c.

, la riduzione del capitale legale al di sotto del minimo legale, secondo quanto previsto dall'

art. 2484, comma 1, n. 4), c.c.

, è causa di scioglimento della società.

Si tratta di una normativa di cui si è posta in luce l'insufficienza nella prospettiva della salvaguardia degli interessi ad essa sottostanti (Galletti, L'insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, in ilFallimentarista.it). Se ne può inoltre sottolineare una sorta di ineffettività nella misura in cui non di rado nelle pieghe del bilancio si annidano artifizi contabili in grado di celare, almeno ad un esame non approfondito, la maturazione delle perdite. In guisa che, l'adozione delle misure codicisticamente contemplate, quando non del tutto omessa, risulta quantomeno tardiva rispetto al momento in cui si verifica concretamente la riduzione del capitale, potendo così dar luogo ad una responsabilità degli amministratori per aver continuato a gestire un'attività di impresa in una situazione che avrebbe postulato la messa in liquidazione della società e la prosecuzione della gestione in un'ottica esclusivamente conservativa (Trib. Milano, 18 gennaio 2011).

Nell'ipotesi in cui la società interessata dalla crisi si trovi in stato di insolvenza, la Corte di Cassazione ha fatto riferimento qualche lustro or sono alla sussistenza di un ulteriore dovere degli amministratori, avente ad oggetto il deposito dell'istanza di fallimento (

Cass., 27 febbraio 2002, n. 2906

); tale obbligo si evince dalla fattispecie penale di bancarotta semplice di cui all'

art. 217, comma 1, n. 4), l. fall

., che punisce l'imprenditore che abbia aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento; sanzione, che, alla stregua di quanto previsto dall'

art. 224, comma 1, n. 1), l. fall

., si estende anche agli amministratori della società fallita.

E tuttavia, nell'odierno contesto ordinamentale, mutato a seguito delle significative riforme che hanno investito il diritto fallimentare, ci si può domandare se, a fronte dell'insolvenza della società, gli amministratori siano tenuti soltanto a depositare l'istanza di fallimento, o non siano piuttosto chiamati ad effettuare una valutazione più complessa, tenuto conto della preferenza – o, comunque, dell'apertura – chiaramente manifesta dal riformatore per le soluzioni concordate della crisi.

In altre parole, se la logica che ha ispirato le originarie disposizioni della

legge fallimentare

muoveva dal presupposto che l'impresa insolvente fosse un soggetto da estromettere dal mercato, le disposizioni oggi vigenti prendono invece le mosse dall'idea, affrancatasi da ogni finalità sanzionatoria, che l'impresa insolvente possa permanere all'interno del mercato, purché vengano adottate strategie o accorgimenti efficienti vòlti a porre rimedio alla situazione di dissesto in cui essa si trova.

Diviene maggiormente complesso, alla luce di quanto sopra osservato, il ruolo che gli amministratori sono chiamati a incarnare, essendo tenuti innanzitutto a valutare la crisi in relazione alla portata e alle implicazioni della stessa, avuto riguardo alla particolare attività d'impresa esercitata dalla società. La crisi invero può trarre origine da molteplici fattori e, pertanto, l'individuazione e la valutazione delle cause che l'hanno provocata assume rilievo determinante: solo all'esito di una siffatta valutazione, diviene infatti possibile, in una prospettiva destinata necessariamente ad abbracciare il futuro, approntare strumenti organizzativi di tipo rimediale.

La scelta degli amministratori di instare per la dichiarazione di fallimento non preceduta dalla anzidetta analisi può essere criticabile (Galletti, L'insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario, cit., 18-19).

Il perseguimento a tutti i costi di una soluzione di ristrutturazione al fine di pervenire al superamento della crisi può essere, d'altro canto, fonte di responsabilità. Ragion per cui diviene necessario che gli amministratori, dopo aver individuato le cause della crisi, conducano una verifica sulle modalità attraverso le quale essi intendono affrontarla e programmarne il superamento, con la conseguenza che, a fronte dell'elaborazione di soluzioni irrazionali, inidonee a trovare accoglimento presso il ceto creditorio, ovvero presso quella rilevante categoria di creditori rappresentata dalle banche, potrebbe

profilarsi la configurabilità di una responsabilità. In particolare, ancorché nessuna disposizione lo preveda espressamente, essi hanno il dovere di valutare le passività complessive e il fabbisogno finanziario, ciò anche in ragione della sussistenza di una regola, avente portata generale, giusta la quale grava sugli amministratori l'obbligo di approntare un assetto organizzativo, amministrativo e contabile efficiente (v.

art. 2403 c.c.

nonché

art. 2381, comma 5 c.c.

).

Alla luce di tutto quanto si è osservato, seppur in via di sintesi, circa il ruolo che gli amministratori di una società in dissesto devono rivestire, è evidente come il punto cruciale risieda nel valutare, sulla base delle previsioni dell'

art. 217, comma 1, n. 4), l. fall

., in quale momento venga in considerazione il dovere di instare affinché venga dichiarato il fallimento.

E tuttavia, alla stregua del segnalato mutamento di prospettiva che ha ispirato la riforma del diritto fallimentare, tale momento non è più individuabile con sicuro nitore, ma richiede un'attenta valutazione di quella che è la specifica situazione aziendale all'interno della quale la crisi si è verificata; valutazione che, ove condotta con la necessaria ponderatezza, dovrebbe condurre gli amministratori all'adozione di soluzioni di natura concordataria ogni volta in cui appaia ancora possibile concepire idonee misure vòlte a porre rimedio alla situazione di dissesto, rinunciandovi invece allorquando le analisi effettuate al riguardo abbiano evidenziato l'obiettiva assenza di prospettive di recupero: in caso contrario, infatti, potrebbe palesarsi, ad esempio, un abuso dello strumento concordatario (tra gli altri Lo Cascio, Percorsi virtuosi ed abusi nel concordato preventivo, in Fall.,

2012, 891 ss.; D'Attorre, L'abuso del concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, II, 1059 ss.; Lamanna, Profili di abuso e limiti nella reiterazione di domande di preconcordato, di concordato e di omologa di accordi, in ilFallimentarista.it; Penta, L'abuso dello strumento concordatario, in Dir. fall., 2014, 116 ss.; F. Pasquariello, Contro il sindacato sul c.d. abuso del diritto nel concordato preventivo, in ilFallimentarista.it).

Nel predetto contesto, gli amministratori devono allora porre in essere modalità di azione, nonché ogni strategia, al fine di acquisire piena consapevolezza circa la possibilità o meno che l'insolvenza possa trovare rimedio attraverso un adeguato piano concordatario.

Segue: i sindaci

Più delicata appare la posizione dei sindaci. Essi, a differenza degli amministratori, non sono legittimati al deposito dell'istanza di fallimento della società: non può quindi certo configurarsi a loro carico un dovere correlato a questa attività.

Ciò detto, non si può tuttavia omettere di considerare che, per quanto concerne le fattispecie di bancarotta semplice contemplate nell'ambito dell'

art. 217 l. fall

., ivi compresa quella già ricordata di cui al comma 1, n. 4), il successivo

art. 224 l. fall

. espressamente equipari i sindaci agli amministratori, oltre che ai liquidatori e ai direttori generali.

Si tratta di una norma sulla quale si sono appuntate le critiche degli interpreti, che ne hanno denunciato la tecnica redazionale, nella misura in cui essa pone sullo stesso piano posizioni che non sono tra loro ontologicamente assimilabili: al riguardo si è in particolare osservato che, mentre l'

art. 217 l. fall

. punisce l'imprenditore individuale in relazione ad un'attività di gestione del proprio patrimonio, l'

art. 224 l. fall

. assimila a quest'ultimo gli amministratori e i sindaci, i quali tuttavia esercitano un'attività di gestione o di controllo su un patrimonio altrui, in ragione dello schermo della personalità giuridica (Conti, Diritto penale commerciale. I reati fallimentari, 2a ed., Torino, 1991, 284; La Monica, I reati fallimentari, Milano 1999, 495; Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, a cura di Grosso, 2014, 181 e 200; Soana, I reati fallimentari, Milano, 2014, 284 e 331; Brichetti –

Pastorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari. Dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011, 247 ss).

Con particolare riguardo alla fattispecie criminosa di cui all'

art. 217, comma 1, n. 4), l. fall

., si è poi sostenuto che essa non potrebbe venire in considerazione con riguardo ai sindaci, dal momento che, come detto, in capo a questi ultimi difetta la legittimazione a depositare l'istanza per la dichiarazione di fallimento (La Monica, I reati fallimentari, cit., 497; Conti, Diritto penale commerciale, cit., 286; Aprile – Bellé, in La

legge fallimentare. Comm. teor. prat.

, a cura di Ferro, Padova, 2014, 2974). Non senza reputare che, tenuto conto della possibilità accordata ai sindaci di richiedere l'intervento del pubblico ministero, la relativa omissione, pur non rilevando come omessa richiesta di fallimento, potrebbe integrare «grave colpa» ai sensi del medesimo art. 217, comma 1, n. 4) (Pedrazzi, in Pedrazzi e Sgubbi, Reati commessi dal fallito, reati commessi da persone diverse dal fallito.Art. 216-227, in Commentario al codice civile Scialoja-Branca.

Legge fallimentare

, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1995, 329-330).

Sotto il versante più marcatamente civilistico, viene in considerazione l'

art. 2407, comma 2, c.c.

, ai sensi del quale i sindaci sono responsabili solidamente con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità agli obblighi connessi alla loro carica. Ne deriva pertanto la responsabilità dei sindaci in relazione a tutte quelle attività od omissioni degli amministratori che l'organo di controllo avrebbe dovuto stigmatizzare – se del caso ponendo in essere quei poteri di iniziativa loro riconosciuti –

in quanto poste in essere senza l'osservanza di quelle cautele e conoscenze che i principi di corretta amministrazione impongono. È noto infatti che, in virtù della cosiddetta “business judgement rule”, gli amministratori non possono essere chiamati a rispondere circa l'opportunità e la convenienza delle scelte gestionali da essi assunte che a posteriori si siano rivelate errate e dannose, potendo venire in considerazione in ipotesi di questo genere una responsabilità a loro carico solo nelle ipotesi in cui emerga che gli amministratori medesimi le abbiano adottate senza avere diligentemente valutato in via preventiva – se necessario, con adeguata istruttoria – i relativi margini di rischio, così da non esporre l'impresa a perdite altrimenti prevenibili (

Cass., 12 agosto 2009, n. 18231

;

Cass., 24 agosto 2004, n. 16707

;

Cass., 28 aprile 1997, n. 3652

. In dottrina v. Montalenti, Sistemi di controllo interno e corporate governance: dalla tutela delle minoranze alla tutela della correttezza gestoria, in Riv. dir. comm., 2012, I, 243 ss.; Zanardo, Delega di funzioni e diligenza degli amministratori nella società per azioni, Padova, 2010, 219 ss.).

Segue: gli istituti di credito

Un ulteriore profilo, a mio avviso interessante da analizzare, è quello concernente il ruolo svolto dagli enti creditizi. Sotto il profilo penale, occorre osservare che, in alcuni casi, senza il concorso degli istituti di credito, la commissione dei reati fallimentari da parte degli amministratori non sarebbe possibile.

Sotto il profilo civilistico, è noto il problema che si agita allorquando il curatore si avvede del fatto che il passivo è stato aggravato da una concessione di credito da parte di una banca in una situazione in cui ci si sarebbe dovuti astenere dal finanziare l'attività d'impresa. A tal proposito è necessario porre in luce, in via preliminare, come il fenomeno della concessione di credito non possa essere analizzato in un'ottica atomistica, avendo cioè esclusivo riguardo al contratto tra l'ente finanziatore e il finanziato, bensì in una prospettiva che tenga conto dell'esistenza di plurime posizioni che proprio da quel finanziamento rischiano di essere pregiudicate (Balestra, Crisi dell'impresa e concessione abusiva del credito, in Giur.comm., 2013, I, 109 ss.); il che si evince anche dal

Testo unico bancario

(

D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385

), laddove prevede che

l'attività di vigilanza delle autorità creditizie venga svolta, tra l'altro, avuto riguardo «alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati» (art. 5), in una prospettiva tesa anche «al contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni» (art. 53, comma 1, lett. b)

.

In Italia, il dibattito sulla c.d. concessione abusiva del credito ha preso piede negli anni Settanta del secolo scorso, sulla scorta di sollecitazioni provenienti dagli ordinamenti francese e belga, interessati, in quegli anni, da specifiche pronunce delle rispettive Corti di Cassazione (Nigro, La responsabilità della banca per concessione «abusiva» di credito, in Giur.comm., 1978, I, 219 ss.).

La banca, nelle sua veste di professionista qualificato, è in possesso dell'organizzazione e delle competenze necessarie per comprendere se sussiste una situazione di crisi e se il finanziamento richiesto sia in grado di apportare effetti benefici o, all'opposto, possa addirittura sortire l'effetto di aggravare la crisi già manifestatasi. Non bisogna infatti pensare ingenuamente che la concessione di un credito sia sempre e in ogni caso vantaggiosa per l'imprenditore, in ragione del fatto che quest'ultimo, grazie al finanziamento ottenuto, può disporre di nuova liquidità: il finanziamento, invero, è fonte di costi, che si ricollegano alla necessità di restituire le somme ricevute e di corrispondere gli interessi sulle medesime (

Inzitari

,

L'abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito

, in Soc., 2007, 463 ss.

). Un finanziamento che si inserisca in un quadro imprenditoriale oramai irreversibilmente frustrato dalla situazione di insolvenza, rischia quindi di produrre danni cospicui, anche in relazione al fatto che può dar vita a nuove operazioni da cui si generano ulteriori posizioni debitorie (Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, 435 s.).

È constatazione sin troppo evidente che l'imprenditore non di rado, in virtù dell'intensità del legame con l'azienda, è privo della lucidità necessaria per affrontare in maniera obiettiva la crisi, di modo che la banca viene ad assumere un ruolo assai significativo. La delicatezza delle valutazioni che l'istituto di credito è chiamato ad effettuare – tanto è vero che in dottrina si è parlato di «dilemma del banchiere» (Nigro, La responsabilità della banca nell'erogazione del credito, in Soc.,

2007, 437) – in relazione ai comportamenti da assumere nei confronti di un'impresa in crisi, emerge con chiarezza alla luce del fatto che esso può andare incontro a responsabilità – così come affermato dalla Suprema Corte (

Cass., 14 luglio 2000, n. 9321

) – nell'ipotesi in cui receda anticipatamente dall'apertura di credito senza giusta causa; nonché alla luce dell'ulteriore fatto che, all'esito delle riforme più recenti del diritto fallimentare (il riferimento è, in particolare, a quelle operate con il

d.l. 31 maggio 2010, n. 78

, convertito con modificazioni in

l. 30 luglio 2010, n. 122

e con il

d.l. 22 giugno 2012, n. 83

, convertito con modificazioni in

l. 7 agosto 2012, n. 134

), l'impresa in crisi può contare su una disciplina dedicata ai finanziamenti, nell'àmbito della quale, con riguardo ai finanziamenti effettuati dai soci, si assiste addirittura ad una radicale inversione di rotta rispetto alla logica posta alla base delle norme contenute nel

codice civile: mentre gli artt. 2467

e

2497-

quinquies

prevedono la postergazione, l'

art. 182-

quater

, comma 3, l. fall

., in espressa deroga a queste disposizioni, accorda la prededuzione fino alla concorrenza dell'ottanta per cento dell'ammontare dei predetti finanziamenti (Balestra, I finanziamenti all'impresa in crisi nel c.d. Decreto sviluppo, in Fall., 2012, 1401 ss.).

Tornando alla questione dell'aggravamento del passivo derivato da un'abusiva concessione di credito di cui il curatore fallimentare si sia avveduto, occorre ricordare la granitica affermazione della Cassazione, giusta la quale il curatore non è legittimato a far valere la responsabilità della banca, trattandosi non di un'azione di massa, ma di un'azione facente capo soltanto ai singoli creditori

(

Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7029

;

Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7030

;

Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7031

;

Cass., 19 settembre 2003, n. 13934

;

Cass., 25 settembre 2003, n. 14234

).

I Giudici di legittimità, nondimeno, in un'occasione, in considerazione dell'avvenuta condanna in sede penale, per concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito, sia dell'amministratore della società fallita, sia del direttore della filiale della banca, hanno affermato, sia pure in via di obiter dictum, che la condotta valesse ad integrare gli estremi della responsabilità dell'amministratore

ex

art. 2393 c.c.

nei confronti della società e di concorso nell'illecito della banca alla luce del comportamento del proprio funzionario, con conseguente legittimazione del curatore, in virtù delle norme che disciplinano l'obbligazione solidale, a far valere la pretesa fondata sull'illecito

ex

art. 146 l. fall

. nei confronti direttamente della banca, senza esser peraltro tenuto ad agire anche contro l'amministratore (

Cass., 23 luglio 2010, n. 17284

, in Fall., 2010, 305, con nota di Marcinkiewitz;

Cass., 1 giugno 2010, n. 13413

, ivi, 306, nonché in Giur. it., 2011, 109, con nota di Spiotta).

Nel caso sopra indicato si è quindi ritenuto che fosse configurabile una fattispecie di illecito, riconducibile all'amministratore in concorso con la banca, con conseguente legittimazione attiva del curatore fallimentare; dovendosi al riguardo tener conto anche del fatto che il giudice civile non è necessariamente obbligato ad attendere la sentenza penale di condanna, potendo, ai limitati fini dell'accertamento della singola vicenda della cui cognizione è stato investito, valutare la rilevanza penalistica della vicenda sottoposta alla sua attenzione.

In conclusione, in un sistema di diritto fallimentare in cui le azioni revocatorie – «istituzionalmente» deputate a recuperare attivo alle masse – sono state significativamente depotenziate, sempre più frequentemente l'attenzione dei curatori si concentra sulla condotta degli amministratori, eventualmente in concorso con altri soggetti. Iniziative volte

a far emergere profili di responsabilità vanno peraltro sempre e comunque adeguatamente soppesate, trattandosi di azioni assai complesse, in ragione sia della non semplice dimostrazione degli elementi costitutivi dell'illecito, sia della quantificazione del danno. Senza nascondere che, preliminarmente rispetto ad ogni valutazione di natura giuridica, si pone la necessità di valutare le capacità patrimoniali degli amministratori, posto che non avrebbe senso intentare un'azione di responsabilità in difetto di un patrimonio che, all'esito vittorioso della causa, possa essere fruttuosamente aggredito; al contrario, potrebbe rivelarsi un boomerang per la curatela in ragione dei molteplici costi da sostenere.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario