Sull'ancor poco esplorata applicabilità, al concordato preventivo, dell'estensione della prelazione ai frutti del bene ipotecato

27 Novembre 2015

L'estensione del privilegio della prelazione ai frutti del bene ipotecato è una tematica che acquisisce sempre più rilievo pratico e che sempre più spesso anima i dibattiti giurisprudenziali, ma che non ha ancora trovato soluzioni ermeneutiche consolidate. La questione a cui gli Autori dedicano il proprio approfondimento riguarda, in particolare, la possibilità di attribuire carattere di specificità alla procedura concordataria, nonché l'affermazione circa la natura concorsuale (o meno) del concordato, ai fini dell'applicazione della disciplina sull'esecuzione individuale.
Premessa

L'applicabilità, al fallimento ed al concordato preventivo, dell'estensione della prelazione ai frutti del bene ipotecato costituisce tema che, da un lato, sta acquisendo crescente rilievo nella pratica e, dall'altro, è stato oggetto di recenti evoluzioni giurisprudenziali.

In termini semplicistici, la questione appare così riassumibile: (i) se si deve riconoscere una propria specificità alla procedura concordataria, escludendo l'applicazione delle norme – compresa, quindi, quella dell'estensione della prelazione ai frutti del bene ipotecato – previste per l'esecuzione individuale; ovvero, (ii) se si deve affermare la natura esecutiva della procedura concordataria con conseguente applicazione anche della previsione sull'estensione della predetta prelazione.

A nostro avviso, come avremo modo di illustrare, pur a fronte di un quadro giurisprudenziale e dottrinale che, con riferimento all'ambito fallimentare, risulta non del tutto omogeneo, sussistono invece chiari ed importanti elementi di natura tanto sistematica quanto settoriale per abbracciare la prima delle tesi sopra enucleate, con riferimento al diverso ambito del concordato preventivo.

Sull'estensibilità (o meno) della prelazione ai frutti del bene ipotecato nel fallimento

Nel procedere all'analisi, reputiamo opportuno muovere da un preliminare inquadramento sull'applicabilità (o meno) al fallimento dell'estensione della prelazione ai frutti del bene ipotecato.

A tal proposito, merita indugiare su alcune disposizioni contenute nella legge 267/1942 e innanzitutto sull'art. 54, il quale disciplina il diritto dei creditori privilegiati nella ripartizione dell'attivo nell'ambito del fallimento.

E' appena il caso di notare che tale norma, unitamente ad altre quali l'art. 55 ed il 111-quater, contiene la disciplina, nel fallimento, dei crediti assistiti da cause legittime di prelazione (privilegio, pegno, ipoteca); vale a dire, assistiti da specifici mezzi di tutela del credito, ulteriori rispetto alla generale responsabilità patrimoniale del debitore

ex art. 2470

c.c.

, che accordano un titolo preferenziale nell'ambito del processo di esecuzione ed una maggiore intensità dell'azione esecutiva (cfr.

F. Lamanna, Commentoall'art. 54 e Commentoall'art. 55, in AA.VV., IL Nuovo Diritto Fallimentare, Commentario diretto da Alberto Jorio, Bologna, 2006, I, 798 ss.; R. Vivaldi, Commento sub

art.

54

l. fall

., in Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, Milano, 2013, 616 ss.; G. Minutoli, Commento sub art. 54, in Ferro (a cura di), La

legge fallimentare

, Padova, 2014,

744

ss.; L. Mandrioli, Commento sub

art. 54 l. fall.

, in Maffei Alberti, Commentario breve alla

legge fallimentare

, Padova, 2013, 339 ss

).

In specie, i primi due commi dell'art. 54 contengono le regole mediante le quali si attua il trattamento preferenziale dei suddetti crediti (principalmente, nel senso che la prelazione si esercita sul prezzo dei beni oggetto di garanzia) e debbono essere letti in correlazione all'art. 111-quater.

L'art. 54, inoltre, chiarisce che:

  • se i creditori prelatizi non vengono soddisfatti integralmente per capitale, interessi e spese sul ricavato della vendita dei beni sui quali opera la causa legittima di prelazione, concorrono con i creditori chirografari nelle ripartizioni del resto dell'attivo, nella percentuale a questi ultimi riconosciuta e con le regole valevoli per gli stessi chirografari (compresa quella inerente la sospensione del corso degli interessi ex art. 55, la cui deroga vale, appunto, solo per la parte del credito soddisfatta con prelazione);

  • i creditori prelatizi hanno diritto di concorrere anche nelle ripartizioni anteriori alla distribuzione del prezzo dei beni vincolati a loro garanzia per essere tutelati in caso di insufficiente realizzo dei beni stessi.

Infine – e addentrandoci più nel dettaglio – si può rilevare che:

  1. l'art. 54, comma 1, estende la prelazione anche agli interessi, sia per i creditori ipotecari, sia per quelli pignoratizi e i privilegiati;

  2. l'art. 54, comma 3, anche a seguito di varie pronunce della Corte costituzionale oltre che delle novellazioni apportate dall'

    art. 50,

    d.l

    gs. 5/2006

    , dispone ora che l'estensione del diritto di prelazione agli interessi è regolata dagli artt. 2749, 2788 e 2855. Queste previsioni (

    nel dettaglio: art. 2749, estensione del privilegio; riferimento introdotta dal

    d. l

    gs. 5/2006

    , 2788 n materia di pegno, e 2855, commi 2 e 3 in materia di ipoteca)

    , quindi, tendono ad equiparare la dichiarazione di fallimento all'atto di pignoramento.

Alla luce delle predette disposizioni, è dirimente stabilire se, nell'ambito fallimentare, in difetto di una espressa contraria previsione (quindi, non esiste nessuna norma positiva in tal senso), la prelazione del creditore ipotecario si estenda automaticamente ai frutti civili prodotti dall'immobile ipotecato dopo la dichiarazione di fallimento, oltre che agli interessi eventualmente maturati, come espressamente previsto in materia di esecuzione individuale successivamente al pignoramento (

art. 2865 c.c

.

).

Devesi registrare come, secondo un primo orientamento (affacciatosi anche nella giurisprudenza di merito) (

T

rib. Viterbo, 11/07/2006

, poi riformato da

Cass. 11025/2013

), la predetta estensione non sia accoglibile, stanti le specificità della normativa fallimentare.

In specie, tale orientamento afferma come nella formulazione letterale dell'

art. 54,

l. fall

. – che come detto in materia è la norma fondamentale – tanto al c. 1, quanto al c. 3, non sia posto alcun riferimento ai “canoni” od ai “frutti” latamente intesi: infatti, le predette norme circoscrivono esclusivamente agli interessi l'estensione della prelazione.

Insomma, postulando un legislatore razionale, ben conscio del significato da attribuire agli specifici termini impiegati nella formulazione delle norme, si dovrebbe concludere che altro è porre riferimento agli “interessi”, altro ai “canoni”.

Del resto, se da un lato le due fattispecie sono latamente riconducibili alla categoria dei “frutti civili”, dall'altro è lo stesso codice civile a separarle, dal momento che gli interessi costituiscono il prezzo dovuto per la disponibilità del danaro resa da una parte contrattuale all'altra, mentre i canoni sono il corrispettivo dovuto dall'enfiteuta al concedente del fondo (

art. 960

c.c.

e ss.;

art. 2763

c.c.

), nonché – ed è quanto qui rileva – dall'affittuario al locatore (

art. 1639

c.c.

). Del pari, diversa è la disciplina sostanziale e procedimentale (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla determinazione quantitativa, alla regolazione tra le parti dei profili conflittuali, ecc.), specificamente ritagliata dal legislatore tra gli “interessi” e i “canoni”.

L'estensibilità de qua sarebbe quindi ripudiata in base ad un'interpretazione curvata sul profilo letterale.

Tuttavia, risulta oggi prevalente il diverso orientamento, da ultimo dettagliatamente sviluppato dalla

Cassazione nella

sent. n. 11025/2013

, che riscontra ed approfondisce ulteriori precedenti pronunce della Suprema Corte stessa.

Secondo il giudice di legittimità, l'estensione della prelazione ai frutti civili anche nella procedura fallimentare troverebbe la propria fonte in un principio di carattere generale: "si deve ritenere che, in mancanza di disposizioni contrarie ovvero in mancanza di una disciplina incompatibile, nulla osta a che le norme in tema di esecuzione singolare possano trovare applicazione nella procedura fallimentare; "la quale, come è noto, non è che una complessa forma di esecuzione, regolata da norme che costituiscono bensì un sistema autonomo e tendenzialmente completo ed autosufficiente, ma tuttavia non tale da potersi isolare rispetto al resto dell'ordinamento e da non poter mutuare da questo norme e principi che non contrastino con la natura dell'esecuzione collettiva".

Ad avviso della Suprema Corte, poi, tale assunto troverebbe un addentellato normativo a) nella disposizione di cui all'

art. 107 l

.

fall

., che prevede la destinazione anche dei frutti dei beni ipotecati in appositi conti da parte del curatore (così, in altre parole, ammettendo la distribuzione anche dei frutti), nonché b) negli

artt. 2788

e

2885 c.c.

(richiamati espressamente dall'

art. 54

l. fall

.), interpretati secondo criteri logico - sistematici.

Si deve osservare che la lettura data dal Giudice di legittimità è tuttora attuale a seguito delle molteplici modifiche che hanno interessato la

legge fallimentare

negli ultimi anni, in quanto la struttura del fallimento come esecuzione collettiva è stata assolutamente mantenuta.

D'altra parte, per quanto attiene al dettato normativo, l'art. 54 non è stato sostanzialmente modificato, mentre l'art. 107, a seguito della riforma del 2006, è oggi confluito nell'art. 111-ter, u. c.

Se, da un lato, è vero che nell'odierno art. 111-ter, u.c., il riferimento ai “frutti” è stato espunto, dall'altro va comunque evidenziato che sempre lo stesso art. 111-ter, segnatamente al c. 1, così dispone: “La massa liquida attiva immobiliare è costituita dalle somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come definiti dall'

articolo 812 del codice civile, e dei loro frutti e pertinenze …

”. Il riferimento espresso ai “frutti” sembra in questo caso deporre verso l'inclusione anche dei frutti al ricavato complessivamente ottenuto dal bene immobile e destinabile in via preferenziale al creditore che vanta la garanzia sul medesimo.

In definitiva, pare che, anche alla luce di quanto recentemente affermato dalla Cassazione, la prelazione possa estendersi ai frutti del bene ipotecato nel caso del fallimento, data la riconducibilità di tale procedura al novero di quelle esecutive.

Sulla non estensibilità della prelazione ai frutti del bene ipotecato, nel concordato preventivo: ragioni sistematiche e specifiche

Chiarito quanto precede con riferimento al fallimento, la tenuta delle conclusioni appena evidenziate va ora saggiata sul terreno del concordato preventivo.

A tal proposito, va per cominciare rilevato che, da un punto di vista sistematico, il concordato preventivo non è assolutamente riconducibile al novero delle procedure esecutive.

Se, da un lato, può anche ammettersi l'equivalenza al pignoramento del fallimento, stante il vincolo che quest'ultimo costituisce sull'intero patrimonio del creditore (come, del resto, sembra confermare la recente evoluzione giurisprudenziale); dall'altro, è incontestabile che l'assoggettamento al concordato preventivo non priva l'imprenditore dell'esercizio dell'impresa e dell'amministrazione del suo patrimonio.

Invero, sul piano sia sostanziale sia procedimentale, la procedura di concordato preventivo (sia quello in continuità, sia quello liquidatorio, pur con diverse sfumature (

cfr. R. Bogoni – E. Artuso, Sul problematico coordinamento del liquidatore giudiziario con gli altri organi della procedura e con quelli sociali, tra insufficienza normativa e supplenza giurisprudenziale, in ilFallimentarista.it

)) è plasmata sul seguente pilastro: l'imprenditore ammesso alla procedura di concordato preventivo non perde la libera disponibilità della propria impresa, né, tantomeno, la capacità di disporre dei relativi diritti, in quanto non si verifica, in tale tipo di procedura concorsuale, un fenomeno di spossessamento analogo a quello previsto per il fallimento dagli

artt. 42,

43

e

44 l

.

fall

.

La predetta capacità risulta solo parzialmente limitata, nella fase anteriore all'omologazione, dalla necessità di chiedere l'autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione (

art. 167, c

omma

2,

l. fall

. e, oggi, anche, ad es.,

art. 161, c

omma

7,

l. fall

.), ma non, invece, dalla presenza del commissario giudiziale in se stesso considerato (invero, la funzione di quest'ultimo è quella di vigilare sulla gestione d'impresa a tutela del ceto creditorio, non certo quella di sostituirsi al debitore nelle prerogative imprenditoriali). Il suddetto rilievo vale, a maggior ragione, per quanto riguarda la fase successiva all'omologa e, dunque, alla chiusura della procedura concordataria

ex

art. 181

l. fall

., posto che, in essa, l'imprenditore riacquisisce la piena capacità, mentre il ruolo del commissario giudiziale resta limitato esclusivamente alla sorveglianza dell'adempimento della proposta concordataria.

Discorso analogo, seppur con sfumature e gradazioni diverse, riguarda anche la figura del liquidatore giudiziale, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto quello processuale, secondo l'orientamento della Cassazione ormai consolidato, osservato anche che lo stesso è incaricato di eseguire il piano tratteggiato dall'imprenditore.

Peraltro, devesi aggiungere che, se da un lato la recente “riforma estiva” operata dal

d.l.

83/2015

(convertito dalla

l.

132/2015

) ha senza dubbio significativamente avvicinato la procedura concordataria a quella fallimentare (si pensi ad esempio alle modifiche recate al sistema delle cessioni, ai requisiti del liquidatore nel concordato con cessio bonorum, ecc.) (

R. Bogoni, La Nuova Riforma del Diritto Concorsuale. Commento Operativo sul

D.l. N. 83/2015 Conv

. In

L. N. 132/2015

, Torino, 2015

), dall'altro è pur vero che i rinvii de quibus si applicano “in quanto compatibili”, ed è fuor dubbio che la connotazione di maggior pregnanza del concordato preventivo consta (ancora) nel ruolo centrale giuocato dall'imprenditore, che in generale conserva i propri diritti.

Insomma, a nostro avviso si può fondatamente affermare che ancor oggi nel concordato preventivo le limitazioni ai poteri dispositivi dell'imprenditore non siano tali da generare una segregazione od espropriazione latamente intesa, analoga a quella propria della procedura fallimentare.

Sulla conservazione, da parte dell'imprenditore, dei propri diritti patrimoniali e personali nel concordato preventivo e, ancor più in particolare, sulla non equiparabilità del concordato preventivo al pignoramento, la giurisprudenza e la dottrina si sono da tempo espresse, dando corpo ad un orientamento pacifico. Ex pluribus, si consideri il principio giuridico fissato da

Cass., n. 9650/1990

: “nel concordato preventivo i terzi non si trovano di fronte ad un patrimonio destinato esclusivamente alla liquidazione coattiva e, quindi, insensibile a qualunque atto che ne alteri la consistenza; e ciò comporta, sul piano normativo, che le limitazioni relative all'opponibilità dei loro atti debbono risultare positivamente, non potendosi desumere dalla mera apertura del procedimento o addirittura dalla sola presentazione della domanda”.

Ed ancora “Come osservato in dottrina, infatti, nel concordato preventivo non vi è sostituzione integrale del curatore all'imprenditore, il quale conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa, sia pure con i vincoli di cui all'

art. 167 legge fallimentare, per cui i terzi non si trovano di fronte ad un patrimonio completamente assicurato alla liquidazione coattiva, e, quindi, insensibile a qualunque atto che ne alteri la consistenza: viceversa, essi hanno a che fare con un imprenditore soltanto parzialmente limitato nella sua legittimazione a negoziare, per cui i vincoli all'opponibilità dei loro atti devono risultare espressamente, o almeno implicitamente, ma non si possono aprioristicamente desumere dall'apertura del procedimento di concordato preventivo o addirittura dalla semplice presentazione della proposta relativa”

(così

Cass. n. 10434/1993

).

Tali principi giuridici sono stati poi recepiti anche da pronunce successive, tra cui la chiara

Cass. n. 5511/2000

: “le disposizioni dell'art. 52 e 54 non si applicano alla procedura di concordato preventivo, non essendo richiamate dall'

art. 169 della legge fallimentare, che richiama invece altre disposizioni relative al fallimento. Inoltre, questa Corte ha più volte affermato che il concordato preventivo, a differenza del fallimento, non è equiparabile al pignoramento (cfr. Cass. n. 9650/90; Cass. n. 10434/93; Cass. n. 5396/99)

”.

Quanto appena affermato sul piano sistematico sembra già dirimente al fine di escludere la natura di procedura esecutiva del concordato preventivo e la conseguente applicabilità dei principi espressi per il pignoramento.

Non bastasse; in ogni caso, sul piano più squisitamente specifico, reputiamo che un ulteriore, decisivo elemento sia riscontrabile nell'

art. 169

l. fall

., stando al quale: “Si applicano, con riferimento alla data di presentazione della domanda di concordato, le disposizioni degli articoli 45, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63.

Si applica l'articolo 43, quarto comma, sostituendo al fallimento l'impresa ammessa al concordato preventivo

”.

Come affermato in dottrina in maniera cristallina, la citata disposizione contiene un rinvio ad alcune norme dettate per il fallimento, determinandone l'applicabilità anche al concordato preventivo (

A. Di Majo, Commento sub

art.

169

l. fall

., in Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, Milano, 2013, 1995 ss.; F. Filocamo, Commento sub art. 169, in Ferro (a cura di), La

legge fallimentare

, Roma, 2014, 2271 ss.; A. Audino, Commento sub

art. 169 l. fall.

, in Maffei Alberti, Commentario breve alla

legge fallimentare

, Padova, 2013, 1128 ss.

).

La selezione delle norme applicabili, in quanto operata direttamente dal legislatore, induce a ritenere inapplicabili quelle non richiamate: pertanto, dal momento che l'art. 169 non enuclea espressamente gli artt. 54 e 111-ter, si deve concludere che le disposizioni dagli stessi recate non siano applicabili al concordato preventivo.

In ogni caso, rileviamo che, stante il piano tenore letterale dell'art. 169, l'art. 54 non pare suscettibile di integrazione analogica nel tessuto del predetto 169. Infatti, alla luce di quanto prima affermato proprio in ordine al contenuto dell'art. 54, ed in specie ai limiti ed ai vincoli che esso pone al debitore, non pare peregrino ascriverlo al novero delle disposizioni eccezionali, di talché stanti i principi interpretativi cristallizzati dall'art. 14 delle preleggi, non è consentita una integrazione analogica.

Il quadro normativo testé delineato dimostra, con estremo nitore, che proprio i principi citati dalla Suprema Corte per estendere l'applicabilità delle regole e dei criteri, relativi all'esecuzione individuale, anche all'esecuzione collettiva fallimentare (grazie anche ai richiami espressi previsti in specifiche norme applicabili esclusivamente al fallimento), portano per converso ad escludere qualsiasi similitudine con il diverso ambito concordatario.

Ed invero, come del resto ripetutamente affermato dalla stessa Cassazione, (i) il concordato non costituisce un'esecuzione collettiva e (ii) nel tessuto normativo disegnato dal legislatore per regolare il concordato preventivo, non si rintraccia alcuna disposizione di richiamo alla disciplina dell'esecuzione individuale.

Ma vi è di più: il rinnovato quadro normativo del concordato prevede una norma che esclude totalmente tale possibile forma di analogia. Trattasi, in specie, dell'art. 160, c. 2, il quale dispone che “La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all' articolo 67, terzo comma, lettera d). […]”.

Orbene, il ricavato in caso di liquidazione è un elemento certo ed oggettivo che non contiene elementi non derivanti dalla liquidazione, come i frutti civili generati dal bene sottoposto a privilegio!

Del resto, come osservato da attenta dottrina, “poiché la norma in esame fa riferimento al “ricavato in caso di liquidazione”, il “valore di mercato” non è quello “oggettivo” o “commerciale” del bene, astrattamente considerato, bensì, in linea di massima, quello – di per sé inferiore – concretamente determinato con riferimento all'impresa in liquidazione

(

F. Dimundo, Commento sub

art.

160

l. fall

., in Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, Milano, 2013, 1872

).

Conclusioni

Tirando le fila del ragionamento sin qui svolto, riteniamo che si debba riconoscere una propria specificità alla procedura concordataria, escludendo l'applicazione delle norme – compresa, quindi, quella dell'estensione della prelazione ai frutti del bene ipotecato – previste per l'esecuzione individuale.

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