Leasing traslativo e fallimento dell'utilizzatore: la disciplina applicabile al contratto risolto anteriormente al fallimento

27 Ottobre 2015

Il tema della disciplina applicabile alla risoluzione ante fallimento del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell'utilizzatore suscita notevoli dubbi interpretativi, in particolare per quanto riguarda la possibilità di estendere la disposizione di cui all'art. 72-quater l. fall.Gli Autori analizzano la disciplina di tale fattispecie contrattuale e l'evoluzione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia che sembra aver trovato una soluzione con la sentenza della Corte di Cassazione n. 888/2014, le cui possibili ricadute potrebbero essere rilevanti sia nel caso di risoluzione tra parti in bonis, sia nel caso di risoluzione anteriore al fallimento.
Introduzione

Il tema della risoluzione del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell'utilizzatore, avvenuta in epoca anteriore al fallimento, impegna tuttora gli interpreti, che appaiono divisi sulla disciplina concretamente applicabile a tale caso di specie.

Le incertezze interpretative, che in generale caratterizzano da sempre il contratto di leasing, non possono dirsi infatti superate in seguito all'affermarsi del recente orientamento della giurisprudenza di merito (Trib. Treviso, decreto 6 maggio 2011; Trib. Udine, decreto 10 febbraio 2012; Trib. Torino, decreto 23 aprile 2012; Trib. Perugia, decreto 5 giugno 2012; Trib. Padova, decreto 6 marzo 2014), per diverse ragioni non condivisibile, che ritiene applicabile in via analogica la disciplina dell'

art. 72-quater l. fall

. anche ai contratti di leasing risolti prima del fallimento.

In tale contesto, alcuni principi affermati in tempi recenti dalla

Corte di Cassazione, con la

sentenza 17 gennaio 2014 n. 888

, in materia di risoluzione del contratto di leasing, potrebbero avere in prospettiva ricadute pratiche di rilievo sia nel caso di risoluzione tra parti in bonis, sia nel caso di risoluzione anteriore al fallimento.

Tale pronuncia, infatti, è interessante da un lato per le società di leasing, che in chiave prospettica potrebbero trovare in essa un motivo per rivedere i propri contratti standard, ma anche per i curatori fallimentari, che potrebbero avvalersene per impostare le proprie iniziative nei confronti delle società di leasing.

Breve inquadramento sistematico del contratto di leasing

Il contratto di leasing, benché largamente diffuso nella prassi commerciale e contemplato in alcune normative speciali e di settore, è un contratto atipico, disciplinato in via pattizia, generalmente in base a contratti standard predisposti dalle società di leasing.

È noto che la disciplina di tale contratto, ed in particolare le conseguenze in caso di risoluzione per inadempimento, sia frutto dell'elaborazione della giurisprudenza di legittimità (

Cass. 13 dicembre 1989 n. 5569

, n. 5570,

n. 5571

, n. 5572,

n. 5573

,

n. 5574

), in base ad un orientamento affermatosi alla fine degli anni 80 e consolidatosi definitivamente in una pronuncia delle Sezioni Unite del 1993 (

Cass. S.U. 7 gennaio 1993, n. 65

, in Foro it. 1994, I, 177; Giust. civ., 1993, I, 1199 con nota di Fantuzzi; Fall.1993, 521; Giur. it. 1993, I,1, 936; Società, 1993, 767 con osservazioni di Lupi).

Secondo tale orientamento giurisprudenziale, si distinguono due diverse forme di leasing a seconda della funzione realizzata dal contratto: quella del leasing c.d. “puro” o “finanziario” con causa di godimento, e quella del leasing c.d. “traslativo” con causa di vendita.

Tale fondamentale distinzione comporta, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, l'applicazione di una disciplina differente, salvo in ogni caso il diritto della società di leasing alla restituzione materiale del bene concesso all'utilizzatore.

Nel caso di leasing c.d. puro o finanziario, trattandosi sostanzialmente di un contratto ad esecuzione continuata, gli effetti della risoluzione non possono estendersi alle prestazioni già eseguite ai sensi dell'

art.

1458, comma 1, c.c.

, con la conseguenza che la società di leasing non è obbligata a restituire i canoni già pagati dall'utilizzatore, rappresentando essi il corrispettivo del godimento del bene concesso all'utilizzatore stesso.

Nel caso di leasing c.d. traslativo, la risoluzione ha invece effetti retroattivi secondo la regola generale di cui all'

art.

1458, comma 1, c.c.

, con la conseguenza che la società di leasing è obbligata a restituire all'utilizzatore i canoni già incassati ma, correlativamente, ha diritto di ricevere dall'utilizzatore stesso un equo compenso (

Cass. 8 gennaio 2010, n.73

) per l'uso del bene, oltre al risarcimento dei danni, in base alla disciplina, applicabile in via analogica, del contratto di vendita con riserva di proprietà di cui all'

art.

1526 c.c.

Progressiva evoluzione delle pattuizioni dei contratti standard

L'orientamento giurisprudenziale di cui si è appena detto si è affermato in un periodo in cui i contratti uniformi predisposti dalle società di leasing contenevano di regola pattuizioni nell'esclusivo interesse della concedente.

In particolare, tali pattuizioni prevedevano che, in caso di risoluzione del contratto, la concedente avesse diritto di trattenere i canoni già incassati e di ottenere dall'utilizzatore inadempiente il pagamento a titolo di penale di una somma commisurata all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati, di quelli a scadere ed infine del prezzo dell'opzione di riscatto finale, fermo restando in ogni caso il diritto alla restituzione materiale del bene concesso.

Tali pattuizioni, in aggiunta all'ulteriore vantaggio economico rappresentato dal valore residuo del bene restituito dall'utilizzatore – valore che, nel caso di un leasing traslativo, poteva anche risultare di ingente ammontare – avevano come risultato quello di procurare alle società di leasing un arricchimento sproporzionato ed ingiustificato, permettendo infatti, in caso di risoluzione del contratto, di conseguire un risultato economico superiore a quello che le stesse avrebbero potuto conseguire se, anziché cessare anticipatamente, il rapporto fosse proseguito sino alla naturale scadenza.

L'applicazione in via analogica della disciplina della vendita con riserva di proprietà di cui all'

art.

1526 c.c.

, operata dalla giurisprudenza in caso di risoluzione del contratto di leasing traslativo, aveva dunque anche la funzione di porre rimedio al palese squilibrio, a tutto vantaggio delle società di leasing, derivante da pattuizioni del genere descritto, contenute di regola in tutti i contratti standard da esse predisposti.

Nel tempo, con l'affermarsi dell'orientamento giurisprudenziale di cui si è detto, si è peraltro verificata una progressiva valorizzazione da parte delle società di leasing della posizione dell'utilizzatore, benché con la finalità di attenuare l'impatto delle conseguenze derivanti, per le stesse società di leasing, dall'applicazione analogica della disciplina tipica dell'

art.

1526 c.c.

Si è andata progressivamente affermando, così, la prassi di inserire clausole che, in caso di risoluzione del contratto, prevedono che il ricavato dalla vendita del bene restituito alla concedente sia accreditato all'utilizzatore e portato in compensazione con la penale dovuta alla concedente, con diritto dell'utilizzatore alla restituzione dell'eventuale eccedenza.

Critica all'applicazione generalizzata della disciplina dell'art. 1526 c.c. al leasing traslativo

Con il consolidarsi della distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, si è andata correlativamente affermando negli anni, da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, l'applicazione in via analogica della disciplina tipica dell'

art.

1526 c.c.

in sostituzione di quella pattizia, a tutti i casi di risoluzione del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell'utilizzatore.

Tale impostazione è stata tuttavia criticata (F. Lamanna,

Art.95, terzo comma, L.F. e sentenze di risoluzione ante fallimento del leasing senza contraddittorio con il curatore: norme sui contratti nominati e sui contratti pendenti,

in Fallimento, 2003, n. 5, 547 ss.), anche per il fatto di risultare applicata talvolta in maniera “meccanicistica” dalla giurisprudenza di merito, sulla base del rilievo che l'applicazione generalizzata dell'

art.

1526 c.c.

si pone potenzialmente in contrasto con i principi generali dei contratti atipici, alla cui categoria appartengono pacificamente entrambe le figure di leasing.

L'applicazione in via analogica dell'

art.

1526 c.c.

come norma di carattere imperativo postula, infatti, l'illiceità per contrasto con i principi dell'ordinamento delle pattuizioni del contratto di leasing, che disciplinano le conseguenze in caso di risoluzione, consentendo alla concedente di conseguire utilità maggiori di quelle che la stessa avrebbe ricavato in caso di regolare esecuzione del contratto.

Sulla base di tale presupposto, non ci sarebbe dunque alcun motivo per negare efficacia al regolamento pattizio, voluto dalle parti, ed applicare in sostituzione la disciplina di un diverso contratto tipico, ossia nel caso specifico quella della vendita con riserva della proprietà, laddove il regolamento pattizio disciplini in maniera puntuale le conseguenze della risoluzione del contratto, senza comportare in concreto un arricchimento indebito ed eccessivo della società di leasing.

Oltretutto, la pattuizione che, in caso di risoluzione, prevede che la società di leasing abbia diritto di trattenere i canoni già incassati e di ottenere il pagamento della penale, resterebbe comunque soggetta al potere di riduzione equitativa (

Cass. 23 marzo 2001, n. 4208

;

Cass. 24 giugno 2002, n. 9161

;

Cass. 8 gennaio 2010, n. 73

) del giudice, previsto per tutti i contratti - anche atipici - dall'

art.

1384 c.c.

, con la conseguenza che anche la presenza di una pattuizione di tal genere non arriverebbe a giustificare l'applicazione dell'

art. 1526 c.c.

In sostanza, se le pattuizioni del contratto sono tali da escludere l'indebito arricchimento della società di leasing, come avviene in linea di principio quando è pattuito l'accredito del ricavato e la restituzione dell'eventuale eccedenza all'utilizzatore, non sarà più necessaria, tanto meno giustificabile, l'applicazione della disciplina tipica dell'

art.

1526 c.c.

in sostituzione del regolamento pattizio (

Cass. 27 settembre 2011, n. 19732

).

L'art. 72-quater l. fall.

Con l'introduzione dell'

art.

72-

quater

l. fall

. nel quadro della riforma generale della

Legge fallimentare

, attuata con il

D.Lgs.

n.

5/2006

e con il successivo

D.Lgs

. n.

169/2007

– norma ora applicabile, come noto, anche ai procedimenti di concordato preventivo in virtù delle modifiche introdotte all'

art.

169-

bis

l. fall

. dal

D.L.

n.

83/2015

, convertito con modifiche dalla

legge 6 agosto 2015, n.

132

- è riconosciuto da tutti i commentatori l'intento del Legislatore di superare la tradizionale distinzione tra leasing traslativo e di godimento in favore di una figura negoziale unitaria, caratterizzata dalla natura di contratto di finanziamento.

Già precedentemente alla riforma aveva iniziato a farsi strada nella giurisprudenza di merito (Trib. Monza 19 settembre 2002; Trib. Monza 7 dicembre 2004) un orientamento interpretativo che ravvisava, sottesa ad entrambe le figure di leasing, una funzione economico sociale unitaria di natura finanziaria, consistente nello scambio tra un finanziamento, garantito dalla proprietà del bene in capo alla concedente, ed il corrispettivo del capitale impiegato.

Secondo una parte della dottrina (B. Inzitari, Nuove riflessioni in tema di leasing nella disciplina dei rapporti pendenti della novella fallimentare (

art.72 quater l.f.),

2006), la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento tuttavia non è venuta meno con l'introduzione dell'

art.72-

quater

l. fall

., ma continuerebbe a mantenere la sua valenza originaria in ambito civilistico, in caso cioè di risoluzione del contratto tra parti in bonis, perciò anche nel caso di risoluzione prima del fallimento dell'utilizzatore.

Di contrario avviso un'altra parte della dottrina (M.R. La Torre, La disciplina del leasing nel fallimento e gli effetti sulla qualificazione del contratto, 2009) che, propendendo per una interpretazione estensiva dell'

art.72-

quater

l. fall

., ritiene invece che la norma debba applicarsi non solo in sede fallimentare, in caso cioè di contratto pendente alla data del fallimento e sciolto ad iniziativa del curatore, ma anche in ambitocivilistico, in caso cioè di risoluzione tra parti in bonis.

Secondo tale indirizzo interpretativo, in particolare, sarebbe possibile ricorrere all'applicazione analogica dell'

art.72-

quater

l.

fall

. ai sensi dell'art.

12,

comma 2, disp. prel. al c.c. ed utilizzare tale norma come parametro per verificare la validità delle pattuizioni del contratto di leasing che disciplinano le conseguenze della risoluzione.

La validità o meno di tali pattuizioni dipenderebbe, in sostanza, dal fatto di riprodurre il meccanismo dell'

art.72-

quater

l. fall

. dell'imputazione a favore dell'utilizzatore inadempiente del ricavato dalla vendita del bene e della restituzione allo stesso dell'eventuale eccedenza, una volta compensato il ricavato con la penale dovuta alla società di leasing (nello stesso senso

Trib. Brescia 2 dicembre

2012

).

Critica all'applicazione giurisprudenziale del'art. 72-quater l. fall. al leasing risolto prima del fallimento, alla luce della sentenza della Corte di Cassazione 29 aprile 2015 n. 8687

Alla tesi dottrinale citata in precedenza si è ispirato un recente orientamento della giurisprudenza di merito (

Trib. Treviso 6 maggio 2011; Trib. Udine 10 febbraio 2012;

Trib. Torino 23 aprile

2012

;

Trib. Padova 14 marzo 2014

) che, facendo leva sull'unicità tipologica del leasing come contratto di durata con causa finanziaria, ritiene applicabile la disciplina dell'

art. 72-quater l. fall

. anche al contratto risolto prima del fallimento dell'utilizzatore.

Tale orientamento si fonda sulla stretta analogia che esisterebbe tra lo scioglimento del contratto pendente alla data del fallimento per iniziativa del curatore e la risoluzione del contratto per iniziativa della concedente (

Trib. Torino 23 aprile 2012

), e sul fatto che la riforma della

legge fallimentare

ha introdotto all'

art.73 l.

f

all

. una disciplina specifica del contratto di vendita con riserva della proprietà che riproduce esattamente la disciplina dell'

art.

1526 c.c.

Secondo tale orientamento, l'

art.

72-

quater

l. f

all

. sarebbe suscettibile di applicazione analogica e rappresenterebbe il parametro normativo per valutare la legittimità del contratto di leasing, con la conseguenza di potersi ritenere valide ed efficaci solamente le pattuizioni che, in caso di risoluzione, riproducono una disciplina simile, o comunque non incompatibile, con quella dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

.

Un'altra parte della giurisprudenza di merito (

Trib. Milano 7 giugno

2012

;

Trib. Milano 12 dicembre

2012

;

Trib. Mantova 26 settembre

2013

), di contrario avviso, ritiene invece impossibile l'applicazione dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

. ai contratti risolti prima del fallimento, facendo leva sul fatto che tale norma si riferisce testualmente ai contratti ancora in corso al momento della dichiarazione del fallimento ed inoltre sul fatto che si tratterebbe comunque di una norma ininfluente sul piano sostanziale.

Anche parte della dottrina (

E. Frascaroli Santi, I problemi della revocatoria del contratto di leasing, in Fall., 4, 2013, 464 ss; G. Milano, Fallimento dell'utilizzatore e quantificazione del credito del concedente in leasing, in Fall., 4, 2013, 481 ss; L. Quagliotti, Scioglimento endofallimentare del contratto di leasing: credito regolabile fuori concorso e crediti insinuabili, in Fall., 7, 2010, 810 ss.) ha criticato l'orientamento volto a ritenere possibile l'applicazione analogica, facendo leva in primo luogo sul fatto che l'

art.

72-

quater

l.

f

all

. riguarda senza dubbio i soli contratti pendenti alla data del fallimento dell'utilizzatore, in considerazione della “sedes materiae” in cui si colloca tale articolo e del richiamo contenuto nello stesso articolo alla norma generale in materia di contratti pendenti di cui all'

art.

72 l.

f

all

.; in secondo luogo, osservando che “scioglimento” e “risoluzione” del contratto non sono affatto assimilabili tra loro, comportando conseguenze del tutto differenti (restitutorie nel primo caso, risarcitorie nel secondo).

Quasi a chiudere il dibattito sull'ambito di applicazione dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

., è ora intervenuta la

Corte di Cassazione

con la

sentenza 29 aprile 2015, n. 8687

, sancendo tra l'altro che la norma di cui all'

art. 72-quater l. fall.

, la cui introduzione nell'ordinamento non ha fatto venire meno la tradizionale distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, non è suscettibile di applicazione analogica. Secondo tale recentissima pronuncia la norma non disciplina la risoluzione del contratto di leasing, bensì il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell'utilizzatore, disciplina cioè una fattispecie concreta – lo scioglimento – del tutto differente da quella – la risoluzione per inadempimento – disciplinata dalla norma sostanziale di cui all'

art.

1453 c.c.

, con la conseguenza che tale norma non può trovare applicazione

al di fuori del caso specifico, da tale norma espressamente contemplato, dello scioglimento del contratto ad iniziativa del curatore.

L'argomento, comune alla dottrina ed alla giurisprudenza citata, secondo cui non può attribuirsi alla norma di cui all'

art.

72-

quater

l.

f

all

. una specifica rilevanza sul piano sostanziale, porta dunque ad escludere la possibilità di applicare la disciplina dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

. al di fuori dell'ambito strettamente fallimentare.

Ne consegue che in caso di risoluzione tra parti in bonis, seguita dal fallimento dell'utilizzatore, la disciplina dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

., prevista specificamente per il diverso caso dello scioglimento del contratto pendente, non può trovare applicazione in sostituzione di quella pattizia.

La sentenza della Corte di Cassazione 17 gennaio 2014, n. 888

Aderendo alla conclusione da ultimo raggiunta dalla Suprema Corte con la pronuncia citata, la disciplina del contratto risolto prima del fallimento non potrà quindi essere quella dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

., ma si dovrà applicare la disciplina contrattuale.

Torna allora attuale il tema poco sopra trattato (paragrafo n. 5), se sia cioè sufficiente la previsione contrattuale dell'accredito

del ricavato e della restituzione all'utilizzatore dell'eventuale eccedenza, per evitare che si possa applicare in via analogica l'

art. 1526 c.c.

A dirimere la questione è intervenuta la Suprema Corte con la sentenza 17 gennaio 2014, n. 888, secondo la quale

non basta che il regolamento contrattuale riconosca il diritto dell'utilizzatore all'accreditamento del ricavato ed alla restituzione dell'eventuale eccedenza, occorrendo anche che sia assicurato all'utilizzatore stesso l'attuazione in concreto di tale suo diritto; diritto destinato altrimenti a rimanere “sulla carta” se la sua attuazione risultasse dipendere, in base al contratto, dalla totale discrezionalità della concedente, come nel caso in cui non fossero specificamente previste le modalità, ovvero i termini entro cui deve essere compiuta la vendita del bene ed entro cui deve avvenire l'accreditamento del ricavato all'utilizzatore.

Il caso di specie, esaminato dalla Corte di Cassazione, concerneva il rigetto in primo grado di una domanda di riduzione della penale commisurata all'ammontare dei canoni scaduti e a scadere, prevista in un contratto di leasing traslativo risolto dalla concedente, proposta dall'utilizzatore convenuto in giudizio dalla concedente per la restituzione del bene e per il pagamento di tale penale.

La domanda di riduzione era stata respinta sul rilievo che la semplice previsione del contratto, in base alla quale all'utilizzatore sarebbe stato accreditato il ricavato dalla vendita del bene restituito alla concedente, fosse di per sé stessa sufficiente ad escludere in generale una situazione di eccessivo vantaggio per la concedente, tale da giustificare la riduzione ad equità della penale.

La Corte di Cassazione, di contrario avviso, ha invece accolto i due motivi di gravame (sotto il profilo della violazione di legge con riferimento all'

art.

1526 c.c.

e della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione) ed ha cassato la sentenza impugnata, sul differente rilievo che, in generale, gli estremi della penale manifestamente eccessiva devono essere valutati in concreto da parte del giudice di merito, in ragione cioè della caratteristiche del rapporto giuridico sottoposto alla sua cognizione e delle specifiche previsioni contrattuali.

Secondo la Corte, infatti, il rapporto intercorso tra le parti era qualificabile come leasing traslativo immobiliare ed era perciò da ritenersi soggetto all'applicazione analogica dell'

art.

1526 c.c.

, nel caso specifico però con “gli adeguamenti ed i temperamenti del caso”, senza cioè necessariamente arrivare alla sostituzione tout court del regolamento pattizio con la disciplina dell'

art.

1526 c.c.

Partendo dal presupposto generale che, in caso di risoluzione del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell'utilizzatore, è interesse della società di leasing recuperare integralmente la somma erogata a titolo di finanziamento, con interessi, spese e utili dell'operazione, e non quello di ottenere la restituzione del bene immobile di cui è proprietaria, secondo la Corte di Cassazione sono ravvisabili, in generale, gli estremi della penale manifestamente eccessiva nelle pattuizioni del contratto che attribuiscono alla concedente il diritto di recuperare l'intero importo del finanziamento, oltre alla proprietà del bene immobile, poiché tali pattuizioni assicurano alla concedente stessa un risultato economicamente più vantaggioso di quello che avrebbe potuto conseguire nel diverso caso in cui il contratto avesse avuto regolare esecuzione.

La mera previsione, contenuta nel contratto, del diritto dell'utilizzatore di vedersi accreditato il ricavato della vendita dell'immobile restituito alla concedente, sempre secondo la Corte di Cassazione, non è di per sé sufficiente a riequilibrare le posizioni e ad pertanto la situazione di ingiustificato vantaggio della concedente.

Ad avviso della Corte infatti, permane la situazione di squilibrio quando l'attuazione in concreto del diritto dell'utilizzatore all'accredito del ricavato è rimessa alla piena discrezionalità della concedente, quando cioè le pattuizioni del contratto, pur riconoscendo all'utilizzatore tale diritto, di fatto lo lasciano privo di ogni sostanziale tutela.

Tale situazione è in concreto ravvisabile nelle clausole del contratto che non prevedono, in maniera specifica, i tempi, le modalità e le condizioni a cui la concedente deve procedere alla vendita del bene restituito dall'utilizzatore una volta che sia stato risolto il contratto, nonché i tempi e le modalità con cui il ricavato deve essere materialmente restituito all'utilizzatore.

Pertanto, la validità delle clausole che, in caso di risoluzione per inadempimento, prevedono il diritto della concedente di acquisire definitivamente i canoni già pagati e di ottenere dall'utilizzatore il pagamento di tutti i canoni scaduti ed a scadere, oltre alla restituzione dell'immobile, è condizionata correlativamente alla presenza di clausole del medesimo contratto che consentano effettivamente e concretamente all'utilizzatore di ottenere, in tempi certi, l'accredito del prezzo ricavato dalla vendita dell'immobile ed il versamento in suo favore da parte della concedente dell'eventuale eccedenza.

L'importanza della pronuncia in commento non risiede tanto nei principi di diritto sopra enunciati, poiché a ben vedere non rappresentano un revirement del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di leasing traslativo, bensì si intravede in prospettiva, ossia nei risvolti pratici che tali principi potrebbero comportare in primo luogo per le società di leasing, nella predisposizione dei contratti standard, ma anche per le parti di un eventuale giudizio.

Basti considerare che la previsione, contenuta di regola nei contratti standard, del diritto dell'utilizzatore all'accredito del ricavato dalla vendita del bene, generalmente ritenuta sufficiente ad escludere l'indebito arricchimento della concedente e ad evitare conseguentemente l'applicazione, in via analogica, della disciplina dell'

art.

1526 c.c.

, potrebbe invece non potersi più considerare tale.

Da tale pronuncia si ricava infatti il principio secondo cui il sindacato di meritevolezza ai sensi dell'

art.

1322, comma 2, c.c.

delle pattuizioni del contratto, ed in particolare di quelle che regolano le conseguenze in caso di risoluzione, va compiuto inconcreto, non bastando che le pattuizioni attribuiscano all'utilizzatore il diritto all'accreditamento del ricavato ed alla restituzione dell'eventuale eccedenza, dovendo invece assicurare l'attuazione effettiva di tale diritto.

Occorrerà invece, per superare tale sindacato di meritevolezza, che le pattuizioni prevedano anche i tempi entro cui deve compiersi la vendita del bene, le modalità della stessa vendita, nonché in ultimo tempi e modalità del versamento all'utilizzatore dell'eventuale eccedenza.

Il mancato superamento di tale sindacato dovrebbe perciò portare, come conseguenza, alla disapplicazione del regolamento pattizio che preveda il diritto all'accreditamento del ricavato, ed all'applicazione in sostituzione dello stesso della disciplina dell'

art. 1526 c.c.

, consentendo in particolare al giudice, qualora fosse pattuito il diritto della concedente di trattenere le rate incassate, d'intervenire quanto meno su tale pattuizione e di procedere alla riduzione ad equità, in base a quanto previsto dall'

art. 1526 comma 2, c.c

.

nonché in base alla norma generale di cui all'

art. 1384 c.c.

La disciplina applicabile al contratto risolto prima del fallimento

Per quanto riguarda specificatamente il problema della disciplina del contratto risolto prima del fallimento, l'applicazione in via analogica della disciplina di cui all'

art.

1526 c.c.

in sostituzione del regolamento pattizio, non può ritenersi una questione del passato, totalmente superata dall'introduzione dell'

art.

72-

quater

l.

f

all

., non essendo per nulla condivisibile la tesi dottrinale e l'orientamento di merito che propendono per l'applicazione in via analogica di tale norma anche al contratto risolto prima del fallimento.

Ne consegue che, in caso di contratto risolto prima del fallimento, la sorte dei crediti della concedente nei confronti dell'utilizzatore fallito dovrebbe essere quella disciplinata dalle specifiche pattuizioni del contratto, purché il contratto abbia data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Nei casi però in cui lo specifico regolamento pattizio comporti una situazione di ingiustificato squilibrio, a vantaggio della sola concedente, si ravviserebbe quella stessa situazione che, in base al tradizionale orientamento giurisprudenziale in materia di leasing traslativo, consente al giudice di intervenire sul regolamento pattizio, applicando in sua sostituzione la disciplina dettata dall'

art.

1526 c.c.

Non rappresenta peraltro un ostacolo all'applicazione in via analogica di tale disciplina, il fatto che sia previsto contrattualmente il diritto dell'utilizzatore all'accreditamento del ricavato ed alla restituzione dell'eventuale eccedenza.

Secondo infatti l'orientamento inaugurato dalla

Corte di Cassazione con la sentenza n.

888/2014

commentata in precedenza, il sindacato di meritevolezza del regolamento contrattuale ai sensi dell'

art.

1322, comma 2, c.c.

, deve essere compiuto in concreto, ossia con riferimento alle specifiche pattuizioni di contratto, e concludersi in senso negativo, ogni qual volta l'attuazione del diritto dell'utilizzatore all'accredito del ricavato risulti totalmente subordinata alla discrezionalità della concedente, ogni qual volta cioè le pattuizioni del contratto, pur prevedendo in astratto tale diritto, lasciano di fatto l'utilizzatore privo di ogni sostanziale tutela.

Ricorrendo tale ipotesi, la concedente sarà perciò tenuta a restituire al curatore i canoni già incassati, con diritto però all'equo compenso per l'utilizzo del bene, da ammettersi al passivo in chirografo, nella misura stabilita, in via equitativa, dal giudice delegato in sede di verifica, ovvero con diritto di trattenere i canoni già riscossi a titolo d'indennità, se espressamente pattuito in contratto, restando comunque tale indennità suscettibile di riduzione ai sensi dell'

art.

1526, comma 2, c.c.

ad opera del giudice delegato stesso.

Il problema in generale della vendita e dell'accredito del ricavato

La sentenza della

Corte di Cassazione n.

888/2014

commentata al paragrafo n. 7 è indubbiamente interessante anche per una diversa ragione.

Tale pronuncia infatti mette in evidenza uno degli aspetti più problematici, anche in ambito fallimentare, dei rapporti tra utilizzatore e concedente, rappresentato nello specifico dalla vendita del bene e dall'accredito del ricavato all'utilizzatore.

In ambito civilistico, l'aspetto della vendita e dell'accredito del ricavato non sembra essere stato particolarmente approfondito, ma si registra peraltro un orientamento della giurisprudenza di merito (

Trib. Treviso 4 febbraio 2013 e 19 maggio

2014

) secondo cui, nel caso di risoluzione tra parti in bonis, la vendita del bene retrocesso alla società di leasing ed il successivo accredito del ricavato all'utilizzatore, costituiscono l'oggetto di una specifica obbligazione della parte concedente.

Tale obbligazione, tuttavia, non si pone in rapporto di corrispettività con l'obbligazione dell'utilizzatore concernente il pagamento della penale, con la conseguenza che la mancata vendita del bene da parte della concedente non può essere eccepita ai sensi dell'

art. 1460 c.c.

, al fine di paralizzare la domanda di pagamento della penale proposta giudizialmente dalla concedente.

Corollario di tale orientamento è che l'utilizzatore sarà tenuto a pagare comunque la penale e potrà eventualmente agire nei confronti della concedente solo per il risarcimento del danno, allegando l'inadempimento da parte della stessa dell'obbligo di vendere il bene e di accreditarne del ricavato, purché sia possibile dimostrarne in concreto la negligenza o la mala fede.

In ambito fallimentare, l'aspetto della vendita del bene e dell'accredito del ricavato è stato approfondito dalla dottrina, con opinioni discordanti tra loro.

È bene premettere che, in base all'

art.

72-

quater

l. fall

., se il curatore decide per lo scioglimento del contratto di leasing pendente alla data della dichiarazione di fallimento, la concedente ha diritto alla restituzione del bene e non è obbligata a restituire le rate già pagate, bensì a versare al curatore l'eventuale eccedenza tra la maggior somma ricavata dalla vendita o dalla diversa collocazione del bene ed il proprio credito residuo in linea capitale, avendo diritto in caso contrario ad insinuarsi al passivo per la differenza.

L'

art.

72-

quater

l. fall

. tuttavia non contiene alcuna indicazione circa i tempi e le modalità della vendita o della diversa collocazione del bene da parte della concedente (cfr. A. Patti Disciplina concorsuale della locazione finanziaria nella nuova normativa, in Fall., 2, 2007, 129 ss.; V. Zanichelli Collocazione del bene dato in leasing, retrocesso dal curatore ed insinuazione al passivo, in Fall., 1, 2012, 68 ss.), salvo prevedere che le stesse – nella prassi definite anche operazioni di riallocazione del bene – debbano avvenire “a valori di mercato”.

Ne consegue che, quanto a tempi, modalità e condizioni, la riallocazione del bene è di fatto rimessa alla discrezionalità della concedente (cfr. D. Vattermoli, Sub art.72-quater, in La riforma della

legge fallimentare

, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, 455)

; il curatore non solo non ha possibilità in concreto di individuare e di concertare con la concedente tempi e modalità della riallocazione, ma neppure ha la possibilità di intervenire efficacemente, in particolare nel caso di sua inerzia.

Dal punto di vista del curatore tuttavia non è solamente il caso-limite dell'inerzia della concedente a rappresentare l'aspetto di maggiore problematicità.

Va infatti tenuto presente che il fallimento potrebbe risultare creditore della concedente, nei casi in cui il valore del bene retrocesso risultasse superiore all'ammontare del credito residuo della concedente stessa.

Ricorrendo tale ipotesi, benché non frequente, è scontato che la concedente avrebbe poco interesse ad accelerare le operazioni di riallocazione del bene, e tanto meno ad investire tempo e risorse (pur potendo recuperare le spese eventualmente sostenute, prelevandole dal ricavato), al contrario invece del curatore, il cui obiettivo è quello di recuperare attivo per distribuirlo ai creditori concorsuali, con la celerità imposta in particolare dalle ultime modifiche normative e con prospettive di relativa certezza.

La dottrina ha individuato in effetti alcune soluzioni, che appaiono tuttavia poco incisive e, comunque, di difficile applicazione nella pratica, prospettando la possibilità di agire nei confronti della concedente per il risarcimento del danno, in caso di ingiustificato ritardo nella vendita/diversa collocazione del bene, sul presupposto, peraltro da dimostrare, che il ritardo abbia comportato una perdita di valore del bene, posticipando altresì il momento del pagamento del credito della curatela (V. Zanichelli Collocazione del bene dato in leasing, retrocesso dal curatore ed insinuazione al passivo, in Fall., 1, 2012), oppure quella di procedere con la vendita in danno ai sensi dell'

art.

1515 c.c.

(B. Inzitari cit.;

Trib. Pordenone 4 novembre

2009

) o anche di ricorrere alla tutela cautelare ai sensi dell'

art.

700 c.p.c.

nel caso-limite dell'assoluta inerzia (B. Inzitari cit.).

La riallocazione del bene necessariamente in concreto?

Il valoredel bene di proprietà della concedente, da un lato, e l'ammontare del suo credito residuo in linea capitale, dall'altro, rappresentano i due cardini del sistema delineato dall'

art.

72

-quater

l.

f

all

.

Si tratta di due grandezze differenti, una delle quali, ossia l'ammontare del ricavato dalla riallocazione del bene, è indeterminata; ne consegue che la stima del valore del bene è una operazione di fondamentale importanza, poiché è in base ai risultati di tale stima che il curatore potrà valutare la convenienza di subentrare nel contratto pendente, ovvero al contrario di sciogliersi dallo stesso.

È sempre in base alla stima del bene, qualora il valore dello stesso risultasse superiore al credito residuo della concedente, che potrà accertarsi l'esistenza di un credito del fallimento nei confronti della concedente stessa.

È logico che solo a conclusione delle operazioni di riallocazione sarà possibile determinare in maniera definitiva se è il fallimento ad essere creditore della concedente, ovvero al contrario se è la concedente a vantare un credito residuo in linea capitale: nel primo caso, la concedente procederà al versamento del surplus al curatore, come previsto dall'

art.

72-

quater

, comma

2, l

.

f

all

.; nel secondo caso, invece, insinuerà al passivo l'eventuale differenza ancora a suo credito.

Come già osservato, l'una e l'altra circostanza si potranno però verificare solamente a conclusione delle operazioni di riallocazione del bene restituito alla concedente.

Secondo l'orientamento della Corte di Cassazione (

Cass. 1 marzo 2010, n.4862

, in Fall., 7, 2010, 808 ss con nota di L. Quagliotti) e di una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Treviso 6 maggio 2011; Trib. Perugia 5 giugno 2012; Trib. Padova 6 marzo 2014), la riallocazione deve avvenire in concreto, ossia deve necessariamente precedere, a pena d'inammissibilità, la domanda della concedente di insinuare al passivo l'eventuale credito residuo in linea capitale.

Occorre in primo luogo intendere correttamente il concetto di “credito residuo in linea capitale” di cui all'

art.

72-

quater

, comma

2, l

.

fall

.

Secondo una parte della dottrina (Quagliotti, Scioglimento endofallimentare del contratto di leasing: credito regolabile fuori concorso e crediti insinuabili, in Fall., 7, 2010, 810 ss.), tale credito corrisponde alla differenza tra il capitale investito dalla società di leasing per l'acquisto del bene e per la successiva immissione dell'utilizzatore nel possesso dello stesso, e la sommatoria delle rate in linea capitale - depurate cioè della componente finanziaria rappresentata dalla quota degli interessi inglobata in ciascuna rata - pagate dall'utilizzatore prima del fallimento, restando del tutto irrilevante il fatto che si tratti di quote di capitale incorporate in canoni già scaduti alla data del fallimento, ovvero in canoni che sarebbero scaduti in epoca successiva a tale evento (contra

Trib. Milano 24 aprile 2012

).

Tornando all'orientamento della Corte di Cassazione citato, la concedente può domandare l'ammissione al passivo solo del credito per gli interessi inglobati nei canoni scaduti e non pagati alla data del fallimento, ma deve necessariamente attendere il compimento delle operazioni di riallocazione del bene, prima di poter insinuare l'eventuale ulteriore credito, rappresento dalla differenza negativa tra il ricavato dal realizzo del bene ed il credito residuo in linea capitale.

Nel diverso caso in cui il ricavato risulti superiore all'ammontare del credito residuo in linea capitale, la concedente è tenuta invece a versare il surplus al fallimento, benché sia creditrice della quota degli interessi remunerativi del capitale inglobati nei canoni insoluti, non essendo infatti possibile la compensazione di tale credito con il ricavato dal realizzo del bene.

Ne consegue che il credito rappresentato dalla quota di interessi corrispettivi incorporata nei canoni insoluti ante fallimento, e l'eventuale residuo credito in linea capitale al netto del ricavato dalla riallocazione del bene, debbono considerarsi crediti assoggettati alle regole del concorso.

Secondo invece un diverso orientamento della giurisprudenza di merito (Trib. Milano 8 luglio 2010;

Trib. Milano 24 aprile

2012

), la concedente per insinuare i suoi crediti non deve necessariamente attendere che il presupposto della riallocazione si sia realizzato in concreto: l'ammissione del credito per il capitale residuo, infatti, può avvenire con riserva, condizionatamente cioè al verificarsi – a riallocazione avvenuta – di una differenza negativa tra quanto ricavato ed il credito residuo in linea capitale.

Il lato positivo di tale orientamento è rappresentato dalla possibilità, riconosciuta alla concedente, di insinuare da subito l'intero credito, che potrà essere così ammesso puramente e semplicemente per la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, ed invece con riserva sotto condizione

ex

art.

96, comma

2, l

.

f

all

., per la parte rappresentata dal capitale residuo.

La riserva potrà poi essere sciolta ai sensi dell'

art.

113-

bis

l.

f

all

. una volta completata la riallocazione del bene, qualora il ricavato risulti inferiore all'ammontare del residuo credito in linea capitale.

Sempre in base al citato orientamento di merito, il provvedimento del giudice delegato che ammette il credito al passivo, dovrebbe anche contenere un termine massimo (

Trib. Milano 24 aprile 2012

cit.) per la verifica del realizzarsi della condizione a cui è subordinata l'ammissione al passivo; tale termine dovrebbe essere fissato anche nell'interesse del fallimento, per evitare che l'accertamento di un eventuale credito dello stesso verso la concedente, dato dal surplus tra il ricavato dalla vendita ed il credito residuo della concedente, venga totalmente a dipendere dall'iniziativa della concedente stessa.

Anche secondo una parte della dottrina, la riallocazione non rappresenta necessariamente una condizione di ammissibilità al passivo del credito in linea capitale della concedente.

Secondo tale indirizzo interpretativo, ai fini dell'ammissione tempestiva non solo del credito per interessi, ma anche di quello relativo ai canoni non ancora scaduti alla data del fallimento, sarebbe infatti sufficiente stabilire, in base ad una stima del valore commerciale del bene, il valore presuntivo al quale potrebbe avvenire la riallocazione, rispettando il parametro legale del “valore di mercato” di cui all'

art.

72-

quater

, comma

2, l

.

f

all

. senza perciò dover necessariamente attendere i tempi dell'effettiva riallocazione del bene.

Anche la

Corte di Cassazione, con la sentenza 15 luglio 2011, n.

15701

, sia pure con un obiter dictum, pare essersi discostata dal principio secondo cui il credito della concedente per canoni non ancora scaduti alla data del fallimento è ammissibile al passivo solo dopo l'effettiva riallocazione del bene, principio affermato dalla stessa

Corte di Cassazione nella sentenza 1 marzo 2010, n.

4862

, citata in precedenza.

In base invece a tale più recente pronuncia della Corte di Cassazione, la posizione della concedente è assimilabile a quella dei creditori pignoratizi e privilegiati speciali di cui all'

art.

53 l.

f

all

., i quali possono soddisfarsi direttamente sul bene al di fuori del riparto dell'attivo, condizionatamente alla previa ammissione al passivo con prelazione del loro credito, con il risultato di essere perciò esonerati dal concorso sostanziale, ma non dal concorso formale.

Anche la concedente, dunque, secondo la Corte di Cassazione, è esonerata dal concorso sostanziale, potendo soddisfare il proprio credito sul bene oggetto del contratto di leasing al di fuori del riparto dell'attivo, mediante la vendita o la diversa allocazione del bene stesso, ma non è esonerata dal concorso formale, dovendo in ogni caso, per poter procedere alla riallocazione e trattenerne successivamente il ricavato, aver prima domandato ed ottenuto l'ammissione al passivo fallimentare del proprio credito in linea capitale, senza distinzione tra canoni insoluti alla data del fallimento e canoni che sarebbero scaduti successivamente (

Trib. Udine 24 febbraio

2012

).

Da tale pronuncia, si dovrebbe pertanto ricavare anche il principio secondo cui la concedente non può procedere alla riallocazione del bene, prima o a prescindere dalla verifica del suo credito in linea capitale, ponendosi l'ammissione al passivo di tale credito come condizione per potersi considerare legittimo il soddisfacimento al di fuori del concorso, attraverso il meccanismo della compensazione del credito con quanto ricavato dalla riallocazione del bene.

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