Speciale Decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015 - E' ancora attuale dopo la riforma “d'urgenza” il tractatus misteriosoficus delle Sezioni Unite?

Danilo Galletti
23 Settembre 2015

Le Sezioni Unite della Cassazione, con lasentenza n. 1521/2013, limitavano il sindacato del giudice sulla fattibilità del piano di concordato ai casi in cui le prospettive di soddisfazione dei creditori chirografari erano nulle o quasi, spostando il giudizio sulla causa astratta del concordato. L'Autore indaga la possibilità di rivalutare questo orientamento giurisprudenziale alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore con il recente intervento riformatore.
Introduzione

La celebre pronunzia delle Sezioni Unite n. 1521/2013 è sempre stata una lettura assai ostica, più simile nello stile ad un testo religioso che ad un documento giurisprudenziale.

Ciononostante la giurisprudenza aveva saputo in qualche modo tradurla in una vulgata, formando un orientamento applicativo abbastanza uniforme, anche se, nel complesso, timido.

Il sindacato del Giudice sulla fattibilità infatti veniva limitato a quei soli casi in cui di fatto le prospettive di soddisfacimento per i creditori chirografari erano nulle o quasi nulle (ciò che, in termini epistemologici moderni, equivale alla certezza statistica di non essere pagati in alcuna misura).

In tal modo, però, al propugnato giudizio sulla causa concreta, ossia alla funzione economico-individuale del concordato, si sostituiva un vaglio esteso alla sola causa astratta, cioè piuttosto alla funzione economico-sociale dello stesso, che consisteva nel pagare qualcosa di apprezzabile in tempi ragionevoli al ceto chirografario.

Ma se una proposta di concordato stima che il soddisfacimento del ceto creditorio raggiunga il 30% in due anni, e poi si scopre durante la procedura che al massimo essa non potrà pagare che il 2% ed in sei anni almeno, allora la funzione economico-individuale della proposta ne esce completamente alterata: diverse sono infatti le motivazioni e l'intento pratico di chi vota un piano come il primo, e dunque aspira ad un soddisfacimento monetario relativamente rapido e cospicuo, da reimpiegare nella propria azienda, e di chi è invece disponibile ad accettare il secondo, ponendosi in una prospettiva marcatamente finanziaria, ove mira probabilmente a realizzare nel frattempo obiettivi di asset management sul proprio attivo.

Nella stessa prospettiva si era inconsciamente posta la stessa Suprema Corte là dove essa aveva affermato, a più riprese ma sempre in modo sostanzialmente apodittico (una costante, evidentemente, nel contesto di un'attività nomofilattica di stampo in realtà legislativo), che i crediti privilegiati avrebbero potuto essere pagati anche al di là dell'anno concesso dall'art. 186-bis, purché fosse loro assicurata una compensazione, quella sugli interessi, di matrice spiccatamente finanziaria, e congrua semmai per una categoria di creditori, quelli appunto a vocazione finanziaria.

Consolidata era poi anche l'impostazione per cui in sede esecutiva il debitore non sarebbe stato vincolato alla realizzazione degli obiettivi stimati, in termini tanto monetari quanto temporali, ma solo a ripartire fra i creditori il patrimonio liquidato, facendo assumere al concordato liquidatorio la controversa natura di “fallimento soft”. Semmai la risoluzione diveniva possibile qualora fosse ormai certo, anche prima della scadenza del termine, che la liquidazione concordataria non avrebbe pagato alcunché ai chirografari.

Ma la percentuale indicata dal debitore, a meno di una esplicita assunzione di impegno nella proposta, non era considerata presuntivamente vincolante.

Faceva eccezione, ma senza che la giurisprudenza di legittimità si fosse pronunziata sul punto, il concordato con continuità aziendale, aggiungerei con continuità diretta e soggettiva, ove invece la ricostruzione in termini di concordato “con garanzia”, con obbligo di rispettare tempi e percentuali promesse, rendeva la “causa concreta” (ma come si vede già quella “astratta”) radicalmente differente: la regolazione della crisi dell'impresa in continuità, infatti, era la ristrutturazione dell'azienda, in modo che essa potesse produrre i flussi di cassa necessari ad estinguere le obbligazioni rinegoziate e quelle scadute successivamente, da pagare integralmente; nessun senso avrebbe avuto fare riferimento ai risultati di un'attività di liquidazione inesistente; il tutto, a meno di non voler novare la causa dei crediti concorsuali in quella di apporti di associati in partecipazione

(artt. 2549 ss. c.c.

).

L'intervento della riforma

In sede di riforma “organica” tale assetto si è tradotto in una forte spinta, direi largamente condivisibile, ad elidere il concordato liquidatorio, ed a mantenere in vita la sola variante “con continuità”.

Ma la stessa decretazione d'urgenza induce adesso a valutare se non sia già il caso di rivalutare sin da subito quell'orientamento giurisprudenziale, in attesa che il processo riformatore si completi.

Come è noto, infatti, il debitore deve adesso “assicurare”, nei concordati non riconducibili all'art. 186-bis, un livello di soddisfacimento pari almeno al 20% del valore nominale dei crediti chirografari; non è questa la sede per discutere se tale soddisfacimento debba necessariamente essere monetario, e come possa rilevare la variabile-tempo; quello che più importa, il debitore deve (altresì) indicare la “utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile” che “il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”.

L'esenzione del concordato “con continuità” dal limite del 20% corrisponde certamente ad una logica di mera incentivazione normativa della ristrutturazione aziendale in sé, di matrice politica: non è infatti esentato solo il piano in continuità soggettiva e diretta, alla luce di una sua presunta maggiore difficoltà, ma ogni forma di concordato che porti a non disgregare il compendio aziendale che aspiri a restare in esercizio, anche se trasferito a terzi.

Ove infatti l'azienda sia mantenuta in esercizio durante il concordato, per poi essere trasferita a terzi da rivenire sul mercato, dal punto di vista strutturale si stenta a vedere una “causa” concordataria radicalmente diversa da una liquidazione.

E mentre in un concordato con continuità diretta e soggettiva, come si diceva, la regolazione della crisi consiste nella ristrutturazione, e nella rinnovata capacità dell'impresa di assicurare flussi sufficienti ad estinguere le obbligazioni così come rinegoziate (a meno di non trasformare i creditori in associati in partecipazione, elevando però notevolmente il costo del concordato per taluni di essi, come le banche), sicché alla scadenza le stesse devono essere estinte nella misura concordataria, in quello con continuità “oggettiva” ed “indiretta” il ricavo della vendita potrebbe essere valutato in termini non troppo diversi dal ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, “ceduto” ai creditori.

Logica incentivatoria forse anche un po' ipocrita e “populistica”, che indurrà ad usi certamente arditi dell'istituto, spingendo a “mascherare” come in continuità piani che altrimenti lo sbarramento del 20% potrebbe impedire, lasciando come unica alternativa praticabile per quei debitori il fallimento. Ed anche a tale proposito l'esigenza che il Tribunale disponga durante la procedura di poteri pieni e forti, al fine di prevenire gli abusi, appare insopprimibile.

Il concetto di utilità economica

Quanto alla “utilità economica” che comunque deve essere “assicurata”, non mi pare che un'interpretazione riduttiva sia parimenti necessaria: si potrebbe trattare a mio avviso senz'altro di un soddisfacimento non monetario ma in natura, ed anche al limite del trattamento promesso ad una classe c.d. “a costo zero”, a condizione che essa consegua dal concordato una utilità appunto, non monetaria né facente parte dell'attivo del debitore, ma ugualmente suscettibile di valutazione economica (ad es. la certezza di poter proseguire in una relazione contrattuale).

Certo la formulazione utilizzata a proposito del floor del 20% un po' sorprende, posto che la norma omologa dettata a proposito delle proposte “concorrenti”, che esenta dall'applicazione dell'istituto il debitore che appunto offra ai creditori rispettivamente il 40% od il 30%, a seconda che il piano sia liquidatorio o con continuità, inizialmente si esprimeva negli stessi termini, ed in fase di conversione è stata adattata in modo da farle dire che ciò che occorre è che sia l'attestatore ad “assicurare” il conseguimento dell'obiettivo.

Probabilmente il dibattito parlamentare in fase di conversione ha risentito dei scarsissimi tempi disponibili (con la pausa agostana imminente), e della ricchezza di vedute che si sono contrapposte.

Quel che sembra certo è che appare difficile che il Tribunale non senta l'esigenza di svolgere una qualche forma di controllo “nel merito” del giudizio dell'attestatore che convalidi il raggiungimento dell'obiettivo che impedisce al terzo di competere sulla proposta concordataria; da un lato il requisito condiziona la stessa ammissibilità della proposta concorrente; dall'altro la legge parla di “assicurare”, a proposito della proposta attestata, che è qualcosa di più dal punto di vista semantico di una mera previsione confermata da un'altra stima “esterna”.

Il recuperato ruolo “tradizionale” del Giudice, in questi casi, che torna arbitro di una disputa bilaterale fra due soggetti privati, il debitore appunto e l'aspirante competitor di quest'ultimo, ruolo forse sottovalutato da chi ha promosso l'emendamento correttivo in sede di conversione, indurrà il primo a domandarsi se sia sufficiente, al fine di assicurare giustizia al terzo che contrapponga la sua visione a quella del debitore e dell'attestatore da quest'ultimo incaricato, un sindacato sulla razionalità e sulla metodologia della attestazione, anche se non limitato al contenuto di quest'ultima, come dicevano le Sezioni Unite, ma esteso anche al merito della fattibilità.

Perché il Giudice non dovrebbe poter disporre ad es. una c.t.u., per decidere se ha ragione il debitore quando dice che pagherà il 40%, e dunque i creditori non hanno motivo di temere, oppure il terzo, che sostenga la irrealizzabilità di quelle previsioni ?

E quale imbarazzo susciterebbe allora, nell'eventualità in cui dovesse prevalere la tesi più “conservatrice”, la Relazione

ex

art. 172 l.

f

all

. del Commissario giudiziale che stimasse risultati plausibili (anche molto) inferiori al 40%? In una fase addirittura (45 giorni prima dell'adunanza) in cui i creditori disporrebbero ancora di 15 giorni per redigere e presentare una proposta concorrente, che pur l'attestazione precluderebbe loro; è plausibile questa “delega” di potere giurisdizionale ad un soggetto privato, nominato e pagato da una delle parti in contesa ?

E nel caso poi in cui fosse attestata la raggiungibilità di quell'obiettivo, difficilmente si potrà ritenere, nonostante il testo alla fine approvato, che ciò costituisca un impegno del solo attestatore, e non già anche (e prima di tutto) del debitore proponente.

Con riferimento al floor del 20% la formulazione della norma presenta anche meno appigli testuali al mantenimento del “tradizionale” ambito di valutazione del Tribunale: il debitore, non l'attestatore, deve “assicurare” tale obiettivo, e comunque lo stesso deve anche “assicurare” il conseguimento dell'utilità promessa a ciascun creditore.

Teoricamente si potrebbe sostenere che l'indicazione della utilità riguardi il mero caso in cui il debitore intenda promettere un risultato superiore al 20%, che costituirebbe appunto il “minimo obbligatorio”, ma senza imporre l'assunzione di una tale obbligazione: la proposta potrebbe anche limitarsi al 20%, stimando la praticabilità di un risultato superiore, ma senza prometterne la realizzazione.

E sempre su un piano astratto si potrebbe anche assumere che comunque il conseguimento degli obiettivi, benché “assicurati”, riguardi la sola fase esecutiva del concordato, senza ampliare i poteri del Tribunale in fase di ammissione e/o di omologazione.

Il creditore dunque potrebbe chiedere la risoluzione del concordato ove potesse dimostrare la irrealizzabilità di quegli obiettivi post omologa, ma il Tribunale non potrebbe dichiarare inammissibile o rigettare l'omologa di un concordato che non appaia idoneo ad “assicurare” almeno il 20%. In questa prospettiva, vi sarebbe compatibilità e possibile continuità fra il decisum delle Sezioni Unite del 2013 e la Riforma del 2015.

Eppure, sembra abbastanza evidente che questa proposta esegetica soddisferebbe ben poco, e condurrebbe ad una decisa sottovalutazione dell'intervento legislativo, invece ritenuto dal Legislatore addirittura “urgente”.

Già su un piano empirico, poi, suscita un senso di profonda insoddisfazione un'interpretazione che costringa tutti gli attori del concordato ad assistere a tutto il dipanarsi della procedura, pur se è a tutti evidente che il concordato pagherà semmai il 5%, e mai il 20%, a dispetto di quanto “attestato”; rinviando al post omologazione ogni tutela, confinata al giudizio risolutorio.

La Riforma poi ha introdotto il limite del 20% alla fine dell'

art. 160 l.

f

all

., norma che definisce il contenuto “possibile” del concordato, e dunque che attiene alla sfera della legittimità, così come la sua lettera lascia chiaramente intendere; la indicazione necessaria della “utilità economica”, infine, è sancita dall'art. 161, lett. e), che fissa requisiti essenziali di ammissibilità della proposta.

Singolare sarebbe a questo punto un'esegesi che legittimasse il debitore ad evitare proposte concorrenti soltanto a condizione che l'attestatore convalidasse un giudizio ancorato sul 40% (si dirà che l'attestatore resta responsabile in proprio, ma questa non è una prospettiva che sembra aver mai impedito attestazioni inverosimili, e l'applicazione dell'

art. 236

-

bis

l.

f

all

. è ancorata alla omissione di “fatti”, non già alle valutazioni), ed a promettere comunque disinvoltamente il 20% (od anche di più), pur nella consapevolezza generale (addirittura suffragata dalle valutazioni commissariali) della impossibilità di conseguire quegli obiettivi, purché comunque non possa dirsi con quasi certezza che i creditori chirografari non saranno pagati in alcuna misura non simbolica.

In realtà il dictum delle Sezioni Unite si basava sul solo concordato liquidatorio, e sulla premessa implicita, giusta o sbagliata che fosse, che la percentuale indicata dal debitore non fosse oggetto di un impegno. Ma adesso il debitore è impegnato per legge al conseguimento almeno di un obiettivo “minimale” (il 20% appunto, ed il 40% se vuole evitare la concorrenza esterna).

La fattibilità economica come “strumento di potere”

La fattibilità “economica” del concordato è poi comunque un presupposto per l'esercizio da parte del debitore e della maggioranza dei creditori di un “potere privato” sulla minoranza dissenziente, e pertanto non può non essere sindacabile, così come l'esercizio di qualsiasi potere, affinché esso non si risolva in un mero strumento di sopraffazione del privato su altri privati.

Fra eguali, l'unica cosa che può giustificare il prevalere della decisione di un privato che vincoli un altro il quale dissenta, è la considerazione da parte del Legislatore della utilità generale insita nella realizzabilità di un progetto che possa assicurare un interesse collettivo, là dove qualche dissenziente potrebbe essere animato da meri propositi ostruzionistici o egoistici.

La maggioranza concordataria può dunque vincolare la minoranza soltanto se e quando essa sia animata dall'intento di perseguire un progetto che corrisponda ad un interesse superindividuale, e che sia ovviamente realizzabile.

Se la funzione legale del concordato liquidatorio è di “assicurare” un determinato quantum, la maggioranza concorde col debitore non può pretendere di vincolare la minoranza dissenziente, al di fuori della condizione che quella funzione sia concretamente realizzabile, a pena di violare l'

art. 3 Cost.

Questo è l'argomento giuridico che il dictum delle Sezioni Unite del 2013 ha obliterato con un vero e proprio “gioco di prestigio”, restringendo il controllo del Giudice sull'esercizio di un potere ad una mera verifica del rispetto di norme che impongono precetti espressi (la fattibilità “giuridica”), senza ricordare che l'aspetto più importante nella verifica sull'esercizio di un potere privato è che tale esercizio sia conforme alla funzione per cui lo stesso è posto.

La maggioranza assembleare che adotti un deliberato societario (ma la conclusione non varia nelle diverse formazioni collettive sovraindividuali che l'ordinamento riconosce, in forma organizzata) per una finalità differente da quella riconosciuta dall'ordinamento, ossia extrasociale, è come noto sanzionabile dal Giudice.

Così deve esserlo la maggioranza dei creditori che, accogliendo una proposta del debitore, voti una soluzione concordataria apparentemente rivolta a conseguire un'utilità economica pari ad almeno il 20% dei crediti, ma che in realtà sia consapevole della vanità del proposito, e dunque abbia in realtà l'obiettivo di conseguire l'esito extrafallimentare al di fuori del percorso funzionale imposto dall'ordinamento.

Singolare d'altro canto è come il sistema del diritto concorsuale registri di recente un evidente spostamento di ogni prospettiva di tutela dei creditori verso la figura generale dell'abuso del diritto, spostamento che è ben visibile nel passaggio dalle Sezioni Unite del 2013, incentrate sulla fattibilità, a quelle del 2015, invece catalizzate sull'abuso; eppurtuttavia non si registra una analoga tendenza ad interpretare il controllo giudiziale sulla fattibilità in chiave pure di abuso del diritto, ove i propositi della maggioranza creditoria d'accordo col debitore, nei casi che abbiamo esaminato, sono chiaramente estranei alla funzione delle norme.

Un creditore che voglia l'approvazione di un piano non fattibile, in realtà non vuole l'attuazione del piano, vuole qualcos'altro: in breve il differimento o l'esclusione del fallimento, così come il debitore.

A ben vedere non necessita in questi casi ricorrere all'abuso, perché l'esercizio del potere è in realtà già contrario al contenuto sostanziale delle norme; e sarebbe davvero paradossale dover ricorrere all'abuso soltanto perché si prosegue nel voler negare che le norme impongano in concreto quei comportamenti.

Quale utilità sussiste, se non meramente soggettiva per i debitori che aspirino ad evitare il fallimento, nell'omologare concordati che in più del 50% dei casi, a molti anni di distanza, corrispondono 0 ai creditori chirografari ? Che utilità si racchiude in un'esegesi che miri ad allontanare ogni reazione possibile da parte dei legittimati, nella speranza che la stanchezza, addirittura la sensazione di non essere tutelati da un Tribunale che pare aspirare all'omologa, rendano persino la risoluzione non più praticabile ?

Dunque già nel diritto vigente il Tribunale dovrebbe finalmente a mio avviso essere investito del potere di controllare, anche ex officio, che il piano concordatario possa concretamente conseguire l'obiettivo minimo legale del 20%, nei concordati liquidatori. Questa sarà, se si crede, la funzione economico- individuale del concordato liquidatorio, suscettibile di verifica giudiziale.

Nei concordati con continuità aziendale, invece, la funzione pratica del piano sarà costituita dalla ristrutturazione dell'impresa, in modo che essa ridivenga in grado di assicurare con i propri flussi il pagamento dei debiti, quelli concorsuali nella misura riconformata post omologazione, e quelli successivi integralmente ed alle scadenze convenute.

Ed in caso di accertata inattendibilità di quelle previsioni, il Tribunale potrà e dovrà intervenire

ex

art. 173 l.

f

all

., se del caso anche ex art. 186-bis, ult. cpv.

Anche per evitare che tutti i concordati con riserva più distruttivi di ricchezza, ove la prosecuzione dell'attività provoca irrimediabilmente perdite patrimoniali, approdino “magicamente” a piani con continuità aziendale, al fine di sottrarsi allo strale del 20%, e continuino a produrre nuove perdite e prededuzioni sino a dopo l'omologa, aggravando così inutilmente il dissesto, con danno per tutti.

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