Profili di abuso e limiti nella reiterazione di domande di preconcordato, di concordato e di omologa di accordi

Filippo Lamanna
13 Novembre 2013

L'Autore, analizzando le disposizioni ed i criteri con cui il legislatore ha modulato l'“inammissibilità” e l' “improcedibilità” per sanzionare i casi in cui il debitore reiteri domande di preconcordato, o presenti una domanda di preconcordato senza poi rispettare il termine o gli obblighi informativi fissati dal Tribunale, o compia atti fraudolenti o senza la prescritta autorizzazione, svolge un'indagine sistematica per cercare di stabilire se tali sanzioni possano operare più in generale - insieme ed in aggiunta al principio di abuso del diritto - come fattori preclusivi alla proponibilità di nuove proposte o domande, anche definitive, di concordato preventivo o di omologa di accordi di ristrutturazione, sia pure non sine die, ma per un tempo determinato.
L'abusiva reiterazione delle domande di concordato preventivo: un problema antico. Dalla vecchia preclusione quinquennale alla nuova preclusione biennale

Un problema molto serio, avvertito nella prassi da sempre, ma ancor di più oggi, è quello concernente i limiti di reiterabilità delle domande di ammissione al concordato preventivo, problema ora riguardante anche la riproponibilità delle domande di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Prima della riforma realizzata con il

D.L. n. 35/2005

(convertito in

L. n. 80/2005

), l'

art. 160, comma

1

, n.

2, l

.

f

all

. prevedeva, tra gli altri requisiti soggettivi per la proposizione della domanda di concordato preventivo, che il proponente non fosse stato dichiarato fallito o non fosse stato ammesso ad una procedura di concordato preventivo nei cinque anni precedenti; requisito considerato all'epoca nemmeno particolarmente penalizzante, traducendosi addirittura in “un'attenuazione del sistema delle leggi del 1903-1930, che prevedeva, oltre a questa condizione, anche l'adempimento di precedenti concordati o il pagamento di tutti i creditori di pregressi fallimenti” (per capitale, interessi e spese) (

Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario della

legge fallimentare

, Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Bricola, Santini (artt. 160-186), Bologna-Roma, 1979, 37

).

Considerato che, alla stregua della disciplina concordataria vigente fino alla riforma, concordato preventivo e fallimento avevano il medesimo presupposto oggettivo costituito dall'insolvenza, e che il fallimento poteva essere dichiarato anche d'ufficio, l'insuccesso della proposta concordataria determinava ipso facto la declaratoria di fallimento. Conseguentemente il suddetto requisito soggettivo (per l'ammissione al concordato preventivo), consistente nella mancanza di precedenti concorsuali ostativi, operava come una tagliola: se già ammesso al concordato preventivo, il debitore non poteva più ripresentare analoga proposta nei 5 anni successivi; se l'ammissione non fosse stata accordata, o, se pur accordata, il concordato fosse stato successivamente revocato, o non approvato dai creditori, o non omologato, o, pur omologato, fosse stato risolto o annullato, sarebbe scattata comunque la preclusione costituita dal fallimento inevitabilmente intervenuto (dovendo questo dichiararsi in modo automatico in tutte le predette ipotesi).

Chiaro che, avendo la riforma frammentato ciò che prima era (l'insolvenza) un presupposto oggettivo unitario, consentendo l'accesso al concordato preventivo anche in caso di semplice stato di crisi, e avendo anche sottratto al Tribunale il potere di dichiarare il fallimento ex officio, le ipotesi di insuccesso della proposta non determinano più necessariamente il fallimento, ben potendo sfociare nel quid minoris della semplice declaratoria d'inammissibilità (o di revoca, o non omologa).

Se, dunque, il legislatore avesse voluto conservare la suddetta preclusione, avrebbe dovuto modularla adeguandola ai caratteri della riformata disciplina; invece non lo ha fatto, limitandosi a sopprimerla tout court .

In questa sede non è il caso di soffermarsi più di tanto a stabilire se questa scelta sia stata dettata o meno dalla convinzione che, se la preclusione avesse continuato ad operare, sarebbe potuta uscirne ridimensionata l'ispirazione più intensamente contrattualistica impressa al nuovo concordato in sede di prima riforma (salvi i ripensamenti, quanto meno parziali, espressi poi con le modifiche successive).

Va decisamente escluso, però, anche ammesso e non concesso che tale sia stata la ragione sottesa in origine alla soppressione della preclusione, che la valutazione circa la possibilità di reiterare o meno domande di concordato possa essere delegata ai soli creditori concorsuali in sede di votazione.

La disamina e la rilevanza di tale profilo (dell'inammissibilità) si pone infatti a monte della valutazione in ordine al contenuto della proposta sulla quale i creditori devono esprimersi, precedendola sia cronologicamente che logicamente.

Dovrebbe anzi essere d'immediata evidenza come la possibilità di reiterare le domande di concordato sia necessariamente soggetta a limiti di sistema, dunque ad endogeni vincoli di carattere pubblicistico non eludibili mediante intese tra debitore e creditori, non avendo alcun senso che il debitore possa avvalersi indefinitivamente dell'ombrello protettivo costituito dal blocco delle azioni esecutive e cautelari, o della possibilità di rinviare sine die

la decisione sulle istanze di fallimento proposte nei suoi confronti, ipotizzandosi come unico limite il fatto che siano i creditori eventualmente a non consentirglielo, e per di più non con l'espressione di un consenso unanime (non previsto nemmeno in caso di accordi di ristrutturazione dei debiti), ma con un voto a semplice maggioranza (nel concordato preventivo, o con un consenso – negli AA.DD.RR. – misurato quantitativamente in base ad una certa quota del monte crediti).

A tacer d'altro, è arduo immaginare che con un voto (o con un assenso comunque a legittimazione soggettivamente relativa) possano comprimersi indefinitivamente – con la reiterazione sine die

del blocco delle azioni esecutive e cautelari - diritti d'azione che appartengono ai creditori uti singuli e che sono finanche costituzionalmente protetti (

art. 24 Cost.

).

Ma a dimostrare, in modo chiarissimo, come lo stesso legislatore abbia avvertito l'inevitabilità/necessità sistemica di un limite alla reiterazione indiscriminata delle suddette domande, vi è il diverso orientamento che esso ha dovuto seguire a distanza di pochi anni, quando ha introdotto la figura del concordato in bianco.

Infatti, dinanzi a quell'evidente rischio di abusi (subito denunciato da dottrina e giurisprudenza) che si sarebbe potuto materializzare se fosse stato possibile reiterare senza limiti domande di preconcordato

ex

art. 161, comma

6, l

.

f

all

. all'interno di una sequenzaorizzontale di rango minore (susseguendosi in tal caso non due o più domande definitive di concordato, che meritano di essere qualificate come di rango maggiore quanto meno per la completezza del relativo contenuto, ma appunto semplici domande “in bianco”), il legislatore ha reintrodotto in sostanza proprio la medesima preclusione contenuta nel previgente testo dell'

art. 160, comma

1

, n.

2, l

.

f

all

., sia pure adattandone la formulazione, mutatis mutandis, alla nuova figura, statuendo, con l'art. 161, comma 9, che: “La domanda di cui al sesto comma è inammissibile quando il debitore, nei due anni precedenti, ha presentato altra domanda ai sensi del medesimo comma alla quale non abbia fatto seguito l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti” (

Giovetti, Il nuovo preconcordato: profili di inammissibilità ed abuso del diritto, in

ilFallimentarista.it

).

Non sembra dubitabile che tale disposizione sia stata emanata allo specifico scopo di impedire la reiterazione di domande poco serie di preconcordato. Ma evidentemente ragioni non diverse dovrebbero di necessità giustificare l'operare di un'analoga preclusione per impedire la reiterazione indiscriminata ed abusiva di domande di concordato preventivo che siano formulate non più solo “in bianco”, ma in modo “completo” e “definitivo”. Non è dato ravvisare, infatti, una ragion sufficiente che possa spiegare il perché la preclusione debba operare solo nel primo caso e non anche nel secondo.

La tutela di cui all'

art.

168 l

.

fall

., che paralizza le azioni esecutive e cautelari e rende inefficaci le ipoteche giudiziali iscritte nell'ultimo trimestre anteriore alla domanda, scatta infatti immediatamente sia quando si propone una domanda di preconcordato, che quando si propone una domanda di concordato (le quali per di più sembrano, sia pure limitatamente all'atto processuale-ricorso con cui sono veicolate, la medesima cosa, stando almeno alla formulazione dell'

art.

161 l

.

f

all

., che in modo unitario identifica l'una e l'altra).

Del tutto comparabili sono anche i periodi di durata del procedimento preconcordatario e di quello concordatario, tenuto conto che, nel primo caso, il Tribunale può concedere un termine che può arrivare, con le proroghe, fino ad un massimo di 6 mesi, e che sempre in 6 mesi, nel secondo, viene indicata la durata massima del concordato.

Identici sono poi i presupposti soggettivo ed oggettivo, occorrendo che il proponente sia un imprenditore commerciale sopra-soglia e che sussista anche uno stato di crisi/insolvenza.

Anche il fenomeno della consecutio di procedure, infine, come sembra confermare l'

art. 69-

bis

l.

f

all

. che lo ha normativizzato quanto alla retroazione del periodo utile ai fini revocatori, sembra comprendere sia il procedimento di preconcordato, che quello di concordato, facendo riferimento alla pubblicazione della (unitaria) domanda di concordato nel registro delle imprese.

La mancata espressa previsione di un limite preclusivo riguardante anche la reiterazione di domande definitive di concordato (e di omologa di accordi) appare dunque, tanto più in presenza della preclusione biennale positivamente introdotta per le domande reiterate di preconcordato, come un'inaccettabile lacuna o, comunque, come una scelta o casuale, o arbitraria ed illogica.

Ne deriva in via consequenziale la necessità di individuare un analogo limite preclusivo valevole anche per le domande definitive di concordato mediante interpretazione analogica/sistematica (analogia legis o juris), se del caso costituzionalmente orientata.

Per la verità, tale necessità d'integrazione interpretativa risulta essere stata già in parte soddisfatta dalla giurisprudenza.

In epoca recente un primo importante passo in avanti è stato infatti compiuto sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità mediante un'assai estesa applicazione del principio di abuso del diritto, che può operare in effetti come chiave adattabile a qualunque porta, consentendo di sventare in ogni singola fattispecie concreta i tentativi - variabilmente articolati secondo l'estro e la fantasia dei debitori proponenti - di sviamento dello strumento concordatario dalla sua funzione tipica (nei termini in cui quest'ultima è stata considerata dal legislatore meritevole di tutela) (cfr.

Cass. 18 settembre 2009, n. 20106

;

Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274

;

Cass. 23 giugno 2011, n. 13817

;

Cass. 29 luglio 2011, n. 16738

;

Cass. 18 settembre 2012, n. 18190

. Sul tema cfr. la recente indagine di Giovetti, Il nuovo preconcordato: profili di inammissibilità ed abuso del diritto, cit.).

Tuttavia non è dubbio che il ricorso al principio di abuso del diritto sia soggetto a

variabili applicative in parte aleatorie

, dipendendo dalla stessa sensibilità del singolo giudicante o dall'emersione, spesso casuale, di comportamenti impropri e censurabili del debitore. Ciò senza poi considerare che vi è una diffusa tendenza a valutare come abusive le nuove domande di concordato o di preconcordato solo quando sembrino finalizzate ad impedire o procrastinare la dichiarazione di fallimento; prospettiva, questa, che appare però alquanto riduttiva, sia nei presupposti che nelle conseguenze: nei presupposti, perché trascura di considerare l'enorme danno che la reiterazione di quelle domande può causare ai creditori già solo a causa del blocco delle azioni esecutive e cautelari, e dunque anche a prescindere dall'intenzione del proponente di rinviare sine die un

a declaratoria di fallimento; nelle conseguenze, perché tende restrittivamente a circoscrivere l'applicazione del principio di abuso del diritto ai soli casi in cui risultino presentate, appunto, istanze di fallimento.

Il problema dei limiti alla reiterazione delle domande di preconcordato o di concordato è invece ben lungi dal porsi solo quando pendano istanze di fallimento; esso tocca in ogni caso la carne viva dei creditori, stante il rischio endogeno e sistemico di esorbitante compressione dei loro diritti.

È allora doveroso compito dell'interprete chiedersi se, anche al di là del pur utile, ma variegato e relativistico ricorso al principio di abuso del diritto, (pre)esistano anche limiti logici, estrapolabili – come prima si diceva - sul piano oggettivo e sistematico, all'indiscriminata reiterazione di domande di concordato o di omologa di accordi, che siano applicabili in modo certo ed uniforme.

Naturalmente tale indagine può ora avvalersi proprio ed anzitutto della disposizione con cui il legislatore ha positivamente introdotto la citata preclusione biennale alla riproposizione delle domande di preconcordato.

Essa sottende, infatti, tanto inaspettate, quanto imponenti potenzialità di estensione interpretativa ed applicativa, che sembrano stimolare l'interprete, paradossalmente, a causa della sua non proprio impeccabile formulazione.

La suddetta norma, infatti, può dirsi incompleta sotto ben quattro diversi profili.

Benchè, a prima vista, possa sembrare profonda la distinzione fra tutte queste questioni, esse sono in realtà per più versi e per più ragioni connesse in logica progressione, come ora meglio si vedrà esaminandole nell'ordine con cui sopra sono state poste.

Se la preclusione biennale operi anche quando vi sia stata l'ammissione al concordato, ma non l'omologa

Al di là della diversa durata (due anni anziché cinque) e della (quantomeno letterale) limitazione del referente oggettivo (applicazione ai soli preconcordati), la preclusione prevista dall'art. 161, comma 9, pur ricalcando quella precedente contemplata dall'art. 160, comma 1, n. 2, si caratterizza ictu oculi per essere stata formulata in senso inverso: mentre nella precedente versione, infatti, operava come fattore preclusivo l'essere stati ammessi ad un precedente concordato, in questa lo è – tutt'al contrario - il non esservi stati ammessi (o il non essere stato omologato l'accordo di ristrutturazione

ex art. 182-

bis

l.

f

all

.).

La preclusione opera dunque per effetto della presentazione stessa della domanda di preconcordato senza che questa abbia avuto quel buon esito costituito dall'ammissione al concordato (o dall'omologa degli accordi).

Tale diversità di formulazione risente chiaramente del fatto che l'insuccesso della pregressa domanda di preconcordato non necessariamente ora determina – per le ragioni già dette sopra - il fallimento del debitore proponente, con la conseguenza che il legislatore ha dovuto dare specifico ed autonomo rilievo a quell'insuccesso della domanda di concordato che prima era necessariamente assorbito dall'esito fallimentare.

Viceversa, l'intervenuta ammissione al concordato (o l'intervenuta omologa dell'accordo di ristrutturazione depositato alternativamente dal debitore a scioglimento della riserva di successiva produzione

ex

art. 161, comma

6, l

.

f

all

.), non gioca, secondo la succitata norma, come fattore preclusivo.

Questo probabilmente perché il legislatore ha voluto sanzionare solo l'abuso dello strumento processuale, non l'utilizzo in sé dello strumento stesso una seconda volta, quanto meno nei limiti di un determinato spazio temporale e alla condizione che il primo procedimento si sia dimostrato non inutile.

Senza dubbio un abuso non poteva che ritenersi sussistente a questo riguardo quando la reiterazione della domanda di preconcordato facesse seguito ad una proposta definitiva, depositata a scioglimento della riserva correlata ad una prima domanda di preconcordato, rivelatasi però tanto poco seria, da non aver determinato l'ammissione al concordato.

Tale abuso è stato dunque considerato inaccettabile dal legislatore del “Decreto Sviluppo” (

D.L. n. 83/2012

conv. in

L. 134/2012

), perché tutt'altro che innocuo, atteso che durante l'intero periodo di pendenza del termine assegnato dal Tribunale ai fini dello scioglimento della riserva di successiva produzione della proposta, del piano e dei correlati documenti, i creditori, sol per effetto della presentazione di un ricorso in bianco da parte del debitore, che, come già osservato poc'anzi, è, o può essere, sostanzialmente privo di contenuto, sono soggetti ad un prolungato blocco delle azioni esecutive e cautelari.

Il primo quesito da risolvere si origina dunque a causa della ristretta formulazione letterale, giacché la norma si limita formalmente ad escludere l'operare della preclusione biennale nel caso in cui la riserva di successiva produzione sia stata sciolta, sia stata in particolare depositata la proposta definitiva di concordato (insieme agli altri documenti su cui la riserva verteva) e il Tribunale abbia disposto l'ammissione. Resta infatti impregiudicato stabilire, in tal caso, se eventi negativi successivi all'ammissione, che impediscano comunque l'omologa del concordato, rendano parimenti operante la preclusione stessa.

È evidente, a tal proposito, che una delle possibili e più semplici interpretazioni sia quella basata sul dato strettamente letterale, più favorevole per il debitore. Se si fa leva, infatti, sull'espressa previsione che considera come fattore preclusivo la presentazione della domanda di preconcordato non seguita dall'ammissione, si può sostenere, con argomento a contrario, che l'intervenuta ammissione giochi come fattore definitivamente non preclusivo, rendendo irrilevanti gli eventi negativi successivi.

Tuttavia deve considerarsi almeno altrettanto legittima la soluzione opposta, che qui si preferisce, la quale, dando rilievo alla ratio della preclusione, in quanto finalizzata a sanzionare le domande di preconcordato destinate comunque all'insuccesso, consideri l'ammissione al concordato come condizione necessaria ma non sufficiente per il “non” operare della preclusione, occorrendo, in più, l'esito positivo finale del procedimento, e quindi l'omologa, senza la quale la situazione di crisi/insolvenza denunciata non potrebbe in effetti considerarsi superata o superabile.

Come che sia, non può sfuggire soprattutto che, siccome la preclusione è stata posta dal legislatore in relazione alla mancata ammissione al concordato, essa opera anche quando, e nonostante il fatto che, la prima domanda di preconcordato si sia trasformata in domanda (o, rectius, in proposta) definitiva di concordato.

La sequenza soggetta a preclusione comprende dunque anche il caso in cui ad una prima domanda di concordato ormai definitiva (pur così formulata a seguito di ricorso in bianco) segua una semplice domanda di preconcordato.

Come si vede, l'ambito operativo della preclusione in tal modo si è ampliato logicamente fino a comprendere un'ipotesi che, a prima vista, non era facilmente percepibile (quella, cioè, in cui la prima domanda di preconcordato si è ormai tradotta in domanda/proposta definitiva di concordato).

Se la preclusione biennale operi anche quando la successiva domanda di preconcordato faccia seguito ad una domanda di concordato definitiva

Occorre però ancora accertare in via interpretativa, sulla scia di tale evidenza, se alla predetta fattispecie possa assimilarsi anche quella – sempre orientata in senso verticale discendente - in cui la successiva domanda di preconcordato faccia seguito non ad una prima domanda della sequenza formulata in origine sempre come domanda di preconcordato (che poi sia stata seguita dalla proposta definitiva), ma ad una domanda di concordato che fosse stata già presentata come definitiva.

Ebbene, la giurisprudenza di merito ha dato già più volte, e convincentemente, risposta positiva a tale quesito, estendendo la portata della suddetta preclusione a tutte le altre ipotesi, rispondenti comunque alla medesima ratio, in cui la precorsa domanda non sia una domanda di preconcordato, ma una domanda di concordato già definitiva (ossia a sua volta non preceduta da una domanda di preconcordato) non andata a buon fine (per essere stata dichiarata non approvata dai creditori, o per essere state contestate al proponente ipotesi di inammissibilità non sanate, et similia, cfr.

Trib. Milano 4 ottobre 2012

, con nota di Giovetti, Il nuovo preconcordato: profili di inammissibilità ed abuso del diritto, in ilFallimentarista.it;

Trib. Parma 2 ottobre 2012

, ivi, con nota di Ranieli, Rinuncia alla domanda e contestuale ricorso per ammissione a preconcordato in pendenza di revoca dell'ammissione per atti in frode;

Trib. Latina, 30 luglio 2012

;

Trib. Torre Annunziata, 2 maggio 2012

, in ilFallimentarista.it, con nota di Ranieli, Dichiarazione di fallimento in pendenza di ricorso per concordato preventivo con nomina di curatore collegiale;

Trib. Messina 30 gennaio 2013

, con nota di Gratteri, Inammissibilità del ricorso per concordato in bianco in pendenza di una precedente procedura di concordato preventivo, in ilFallimentarista.it.; nonché ivi, con nota di Russo, Concordato preventivo: uso distorto dello strumento di composizione della crisi d'impresa; Trib. Forlì, 15 marzo 2013, in ilFallimentarista.it, con nota di Commisso, Reiterate domande di concordato preventivo ed abuso del diritto;

Trib. Monza 15 gennaio 2013

; Trib. Prato 24 aprile 2013), ponendo anche in evidenza il profilo di abuso del diritto che è costantemente sotteso a questi casi di reiterazione.

Tale estensione finora è stata ritenuta possibile proprio sul presupposto che non vi ostasse la completezza della prima domanda, e quindi il carattere definitivo della relativa proposta, pur riferendosi espressamente l'art. 161, comma 9, solo ad una domanda di concordato con riserva (a sua volta seguita da una domanda del medesimo tipo).

Si è ritenuto cioè che possa rientrare nella sfera della preclusione normativa endo-biennale non solo la sequenza orizzontale andante da una prima domanda con riserva ad una seconda domanda con riserva, ma anche una sequenza andante dalla domanda di concordato maggiore-definitiva alla domanda minore-con riserva.

Tale soluzione, oltre che poggiare sul principio di abuso del diritto, sembra potersi inferire immediatamente, ancor prima, dalla constatazione, fatta nel paragrafo precedente, circa il fatto che, per la stessa impalcatura logica della norma, la sequenza soggetta a preclusione comprende il caso in cui ad una domanda di pre-concordato segua prima una proposta definitiva e poi una nuova domanda di preconcordato.

La circostanza che tale sequenza appaia semplificata quando la prima domanda sia già definitiva non può dunque costituire impedimento all'applicazione della preclusione anche in questo caso, tenuto conto, come sopra si è detto, che la finalità della preclusione sembra essere essenzialmente, anche se non necessariamente soltanto, quella di evitare un indefinito protrarsi del blocco delle azioni e cautelari, rischio che si ripropone in modo perfettamente comparabile anche quando siano presentate domande già definitive di concordato.

Se la preclusione biennale operi anche quando ad una domanda di preconcordato, non sfociata neppure nella presentazione in termini di una proposta definitiva, faccia seguito una domanda definitiva

Certamente più complesso è il problema del se la preclusione biennale operi anche quando, ad una domanda di preconcordato non sfociata neppure nella presentazione in termini di una proposta definitiva, faccia seguito una domanda definitiva. La soluzione transita infatti in tal caso, necessariamente, dalla previa disamina dell'articolata disciplina positiva disegnata dal legislatore, anche con recenti integrazioni normative, allo specifico fine di sanzionare con declaratorie di inammissibilità o di improcedibilità vari profili di inadempimento o di abuso nel preconcordato.

Si tratta quindi di valutare se, ed in che misura, i limiti così segnati dal legislatore in modo espresso siano suscettibili di estensioni logiche e sistematiche.

(Segue) L'inammissibilità e l'improcedibilità nel preconcordato come fattori preclusivi alla proposizione di nuove proposte e domande

Ebbene, allo scopo precipuo di arginare l'abuso del procedimento di preconcordato, il legislatore ha progressivamente delineato e variamente articolato nell'

art. 161, sesto, ottavo e nono comma, l.fall

., quattro specifiche ipotesi di inammissibilità/improcedibilità, nettamente distinguendo le due ipotesi in cui tali vizi colpiscono alternativamente (ossia in un caso l'improcedibilità, nell'altro l'inammissibilità) la domanda (di preconcordato), dalle due ipotesi in cui, invece, il (solo) vizio dell'inammissibilità colpisce la proposta (di concordato).

Sia la qualificazione del vizio in termini – alternativamente – di inammissibilità o di improcedibilità, sia la ragione sottesa alla scelta di riferirlo ora alla domanda, ora alla proposta, non sembrano, per la verità, del tutto ineccepibili né, a prima vista, facilmente comprensibili, il che rende poi ancor meno facile risolvere il problema che, nella sostanza, appare come il più importante di tutti: l'individuazione delle conseguenze derivanti dalla declaratoria pronunciata dal Tribunale.

Da qui l'utilità di qualche maggiore approfondimento.

(Segue) L'inammissibilità della domanda

Uno solo è il caso in cui viene contemplata l'inammissibilità della domanda, quello già visto più sopra e regolato dall'art. 161, comma 9, con cui si pone la preclusione biennale.

La causa dell'inammissibilità della nuova domanda di preconcordato è quindi in tal caso non un suo vizio intrinseco, ma l'essere stata preceduta, nel biennio, da un'anteriore domanda dello stesso tipo non andata a buon fine.

Ciò che è importante al riguardo segnalare – prescindendosi qui dalla questione, più che altro teorico-nominalistica, circa il se, in tal caso, il ricorso alla nozione di inammissibilità sia stato corretto e appropriato, o non dovesse piuttosto utilizzarsi la nozione di improcedibilità (in quanto solitamente riservata ai vizi derivanti, come nella specie, da un'attività o da eventi estrinseci rispetto all'atto processuale, anche se non necessariamente successivi ad esso) – è che l'inammissibilità comminata per tale ipotesi si configura come una vera e propria preclusione, per quanto temporalmente limitata.

In altre parole: per l'intera durata di un biennio decorrente dalla data di presentazione della prima domanda non andata a buon fine è preclusa la possibilità di presentarne un'altra dello stesso tipo.

(Segue) L'improcedibilità della domanda

È altresì uno soltanto il caso in cui

viene

contemplata

(questa volta) l'improcedibilità della domanda.

Vi provvede in particolare l'art. 161, comma 6, ultimo periodo, statuendo che: “Il commissario giudiziale, quando accerta che il debitore ha posto in essere una delle condotte previste dall'articolo 173, deve riferirne immediatamente al tribunale che, nelle forme del procedimento di cui all' articolo 15 e verificata la sussistenza delle condotte stesse, può, con decreto, dichiarare improcedibile la domanda e, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli 1 e 5, dichiara il fallimento del debitore con contestuale sentenza reclamabile a norma dell'articolo 18”.

In tal caso la previsione dell'improcedibilità della domanda sembra perfettamente conforme all'usuale nozione di tale vizio, perché deriva da u

n'attività estrinseca all'atto processuale (ossia alla domanda), nella specie consistente nel compimento di atti in frode o di atti compiuti senza la prescritta autorizzazione del Tribunale, per di più ricadenti in epoca successiva alla presentazione della domanda.

Logica vuole, di conseguenza, che, a causa del compimento dell'attività illegittima, il procedimento non possa che interrompersi e non più proseguire.

Resta da stabilire se anche questa ipotesi sia soggetta alla preclusione endo-biennale di cui all'art. 161, comma 9 (non solo, com'è ovvio, quando vi sia la successiva presentazione di una seconda domanda di preconcordato nel biennio, ma) anche quando, in via di applicazione estensiva secondo la già detta sequenza verticale ascendente, venga presentata una domanda di concordato con carattere definitivo o una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti.

(Segue) L'inammissibilità della proposta

L'inammissibilità della proposta è prevista :

In entrambe tali ipotesi l'inammissibilità della proposta è contemplata non direttamente dall'art. 161, ma dalla norma di rinvio, l'articolo 162, comma 2, a tenore del quale: “Il Tribunale, se all'esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta di concordato. In tali casi il tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli 1 e 5 dichiara il fallimento del debitore”.

Benchè la “sanzione” sia stata qualificata in tali casi dal legislatore in modo identico (come “inammissibilità” della “proposta”), la soluzione adottata sembra per la verità in contrasto con l'evidente disformità delle due fattispecie disciplinate.

In un caso, infatti, quello in cui nel termine fissato dal Tribunale il debitore non abbia depositato la proposta, il piano e i documenti correlati, il procedimento di preconcordato si è già interamente “consumato” per l'intervenuto decorso del termine, mentre nell'altro, quello in cui prima che il termine sia scaduto il Tribunale accerti l'inadempimento agli obblighi informativi, il procedimento è ancora in corso e la pronuncia caducatoria del Tribunale può solo farlo terminare prima del previsto.

Ci si sarebbe aspettati, perciò, una differente modulazione della sanzione, in modo da conformarla a tale differenza.

Quanto meno nel secondo caso, infatti, in cui la condotta illegittima ricade in epoca successiva alla presentazione della domanda, ma precedente alla scadenza del termine, avrebbe forse avuto più senso prevedere l'improcedibilità della domanda, trattandosi di fattispecie sostanzialmente assimilabile a quella dell'art. 161, comma 6, ultimo periodo, riguardante il compimento di atti in frode o di atti non autorizzati, relativamente alla quale, per l'appunto, come si è visto poc'anzi, è stata non a caso comminata l'improcedibilità della domanda.

Ad ogni modo, e proprio per tale somiglianza, quest'ipotesi non presenta speciali difficoltà interpretative o peculiari profili d'interesse.

È il primo caso, invece, quello riguardante l'inosservanza del termine, a sottendere i profili più interessanti e di maggiore complessità.

(Segue) L'inammissibilità conseguente all'inosservanza del termine

Secondo la norma sopra citata, se nel termine fissato dal Tribunale il debitore non abbia depositato la proposta, il piano e i documenti correlati,

il Tribunale deve pronunciare l'inammissibilità e questa va riferita alla proposta, segnatamente alla proposta di concordato.

La soluzione qualificatoria adottata sembra sottendere l'idea che sarebbe stato meno pertinente riferire l'inammissibilità alla domanda di preconcordato, ossia al ricorso introduttivo, probabilmente alla luce del fatto che la sanzione si origina in questo caso dalla tardività del deposito della proposta definitiva su cui verte la riserva. Di conseguenza, la tardività non sembrerebbe inficiare direttamente l'atto d'impulso originario, ossia la domanda (ricorso), anche perchè, una volta concesso il termine da parte del Tribunale, e spirato per di più il termine medesimo, potrebbe ritenersi che tale domanda abbia comunque esaurito la sua funzione (e potrebbe semmai risultare nulla per altri motivi, attinenti al ricorso stesso, ma non a vicende successive relative alla proposta), comunque essendosi “consumato” il procedimento prenotativo.

Certo, stante la tipologia di sanzione prevista, è chiaro che il vizio deriva dall'inutile spirare del termine, che ha di conseguenza indiscutibile natura perentoria, atteso che determina una conseguenza decadenziale.

Infatti il debitore perde, per l'inosservanza del termine, la possibilità di attivare nella programmata sequenza il procedimento di concordato vero e proprio.

Tuttavia la dislocazione logica e cronologica tra domanda (in bianco) e proposta definitiva non depositata nel termine rende il rinvio all'art. 162, comma 2, laddove tale disposizione contempla l'inammissibilità della proposta, non del tutto armonico, lasciando residuare indegradate criticità.

A ben vedere, infatti, l'art. 162, comma 2, dovrebbe riguardare, almeno secondo la sua originaria formulazione, un'ipotesi di inammissibilità correlata ai vizi originari ed intrinseci di una proposta (già definitiva) di concordato presentata unitamente al ricorso.

Nel rapportare dunque tale sanzione dell'inammissibilità al diverso caso riguardante un vizio della proposta non intrinseco ad essa, ma derivante ab extrinseco dalla sua mancata presentazione nel termine o dalla sua tardiva presentazione oltre il termine, resta problematico individuare le reali conseguenze della sanzione, specie in rapporto alla funzione della domanda.

(Segue) La funzione preclusiva dell'inammissibilità della proposta

Sorge spontaneo chiedersi, in particolare, se anche in tal caso la sanzione sottenda una preclusione vera e propria, e se essa riguardi solo la proposta o anche un'eventuale seconda domanda.

Per rispondere a tali quesiti è forse utile ricordare anzitutto che, in origine, la norma sanzionatoria era stata formulata in modo molto meno penalizzante per il debitore.

Infatti il “Decreto Sviluppo”, prima di essere convertito in legge, nell'introdurre il 6° comma dell'art. 161 statuiva che: “In mancanza, cessano gli effetti del ricorso a far data dal deposito”.

Il legislatore si era cioè limitato a prevedere come conseguenza dell'inosservanza del termine il solo venir meno degli effetti protettivi dell'automatic stay, ossia del blocco delle azioni esecutive e cautelari.

In sede di conversione in legge tale formula fu però soppressa e sostituita con quella, poc'anzi riportata, che, attraverso il rinvio all'art. 162, contempla l'ulteriore, chiaramente diversa e ben più grave sanzione dell'inammissibilità della proposta (ferma comunque restando, evidentemente, l'immediata caducazione degli effetti protettivi, che non può non conseguire allo spirare del termine a cui detti effetti sono collegati).

In sostanza, mentre prima avrebbe potuto forse immaginarsi che, cessati (solo) gli effetti protettivi per effetto dello spirare del termine concesso dal Tribunale, comunque il debitore potesse ancora depositare la proposta definitiva, ancorchè tardivamente (con conseguente ripresa della protezione a partire dal nuovo deposito); oggi, invece, tale possibilità gli è preclusa, stante la comminatoria espressa di inammissibilità della proposta tardiva contenuta nella citata norma.

L'inammissibilità riferita alla proposta, dunque, non può che determinare, secondo la funzione attribuita dalla norma alla detta sanzione, conseguenze preclusive.

Ad ulteriore conferma della funzione preclusiva della comminatoria di inammissibilità è utile spendere anche qualche ulteriore osservazione integrativa sulla norma – l'art. 162 – cui fa rinvio l'art. 161, comma 6.

Ebbene, anche prima che fosse emanato il Decreto Correttivo (

D.Lgs. n.169/2007

), che ha modificato in parte l'art. 162, il corpo di tale norma faceva riferimento all'inammissibilità della proposta, ma la rubrica, tuttavia, diversamente da quella attuale, faceva riferimento all'inammissibilità della domanda, così creando una qual confusione di concetti.

Oggi (dopo il suddetto Decreto Correttivo) anche la rubrica è stata allineata al testo della disposizione; essa, infatti, preannuncia esclusivamente l'inammissibilità della proposta.

Questa precisazione si è poi rivelata tanto più importante dopo l'emanazione del Decreto Sviluppo, che ha introdotto appunto il preconcordato, perché ne è risultata specificamente scissa e concettualmente ben distinta la domanda, che viene presentata subito dal debitore (in forma di ricorso), dalla proposta (corredata dal piano) che egli si propone di presentare dopo, entro il termine che chiede al Tribunale di concedergli.

Per effetto del rinvio fatto dall'art. 161, comma 6, all'art. 162, comma 2, consegue dunque che, ove manchi il tempestivo deposito della proposta (su cui verteva la riserva di successiva produzione), sia quest'ultima a dover essere dichiarata inammissibile (e non la domanda).

La lettera normativa è peraltro chiaramente più ristretta della sua estensione applicativa reale, poiché sembra riferirsi solo allo specifico caso in cui una proposta, per quanto tardivamente, ed in particolare una proposta di concordato, venga depositata dopo il termine, ma prima che il Tribunale provveda a dichiarare l'inammissibilità.

Si tratta forse del caso più emblematico di inosservanza del termine da parte del debitore, e probabilmente anche di un caso, secondo quanto insegna l'esperienza, alquanto ricorrente nella pratica, ma non è tuttavia l'unico.

Può infatti anche accadere, e di fatto accade, che dopo la scadenza del termine passi qualche giorno, il Tribunale convochi il debitore in udienza

ex

art. 162, comma 2,

l. fall

. per contestargli l'inosservanza del termine, e nemmeno in tale occasione il debitore depositi alcunché, o risulti aver depositato alcunché nelle more. In questa ipotesi il Tribunale dovrà dunque provvedere senza che una proposta sia stata depositata affatto, per quanto tardivamente.

Ma, ci si chiede: anche in tale frangente il Tribunale deve pronunciarsi – come l'art. 162, comma 2, sembra comunque formalmente esigere - in termini di inammissibilità della proposta, pur mancando, di fatto, una proposta qualunque, anche se tardiva?

A rigore, infatti, sembrerebbe sussistere la necessità logica di riferire l'inammissibilità solo ad una proposta che sia stata presentata dopo il termine ormai scaduto, non ad una proposta che ancora non sia stata presentata.

Una tale conseguenza non è però implicata in modo necessario ed inevitabile dalla norma, poiché ciò che il legislatore ha palesemente voluto è che fosse sanzionata l'inosservanza del termine, impedendo che una proposta tardivamente depositata potesse essere considerata ammissibile.

Il legislatore ha posto, cioè, una vera e propria preclusione, che implica in quanto tale il venir meno del potere di depositare una proposta definitiva.

Da ciò deriva che il Tribunale dovrà comunque dichiarare decaduto il debitore dalla possibilità di depositare la proposta definitiva di concordato anche quando provveda

ex

art. 162, comma

2, l

.

f

all

. senza che la proposta, spirato il termine, sia stata depositata.

A ciò provvederà, secondo quanto prevede l'art. 162, comma 2, dichiarando comunque l'inammissibilità della proposta, non tanto – evidentemente - per sanzionare la tardività di una proposta (già) depositata fuori termine, visto che una tale proposta, secondo l'esempio in ipotesi, non è mai stata depositata; quanto piuttosto per significare che essa non potrà essere più presentata, a causa, per l'appunto, dell'intervenuta decadenza: una sorta di inammissibilità virtuale con funzione di preclusione de futuro.

Proseguendo: può altresì accadere, per quanto più raramente, che il debitore depositi la proposta ipertardivamente, ossia addirittura dopo che il Tribunale abbia già provveduto a dichiarare inammissibile la proposta

ex

art. 162, comma

2, l

.

f

all

.

In tale ipotesi il Tribunale dovrà evidentemente emettere un secondo decreto stante la necessità di pronunciarsi comunque sul nuovo atto. Il suo decreto potrà alternativamente o essere analogo a quello che deve assumere

ex

art. 162, comma

2, l

.f

all

. quando la proposta sia presentata tardivamente (una nuova declaratoria di inammissibilità, dunque, riferita ora alla proposta ipertardiva), o eventualmente, tradursi in un “Non Luogo a Provvedere (per aver già provveduto).

Merita puntualizzare che, stante la funzione sanzionatoria preclusiva dell'inammissibilità collegata all'inosservanza del termine, il debitore non può certo eludere la norma sanzionatoria con espedienti finalizzati ad evitare che il Tribunale pronunci espressamente l'inammissibilità nonostante la riscontrata inosservanza del termine, ad esempio rinunciando alla domanda, o revocandola (magari all'ultimo momento).

Se, infatti, il debitore in preconcordato è certo libero di rinunciare alla domanda, non è altrettanto libero di sottrarsi alle conseguenze che dalla rinuncia derivano, trattandosi comunque di un'anomala interruzione del procedimento equiparabile al suo esito negativo (riferito all'inosservanza del termine), giacché comunque ne risulta l'illegittima, abusiva fruizione del blocco delle azioni esecutive e cautelari per un certo tempo (dalla domanda alla rinuncia) senza che il debitore abbia adempiuto all'obbligo (o comunque all'onere), che si era assunto, di depositare la proposta definitiva. Tale rinuncia, insomma, non è idonea ad eliminare la fattispecie inadempitiva costituita dalla mancata presentazione della proposta definitiva nel termine.

Lo dimostra anche la previsione della possibilità della declaratoria immediata del fallimento del debitore quando l'inammissibilità sia stata pronunciata. Le norme in esame non subordinano, infatti, la declaratoria di fallimento alla mancata presentazione di una nuova domanda definitiva di concordato o di omologa degli accordi, ma la fanno derivare in via consequenziale dalla pura e semplice declaratoria di inammissibilità/improcedibilità della proposta (o domanda), ponendo la sola condizione che sia stata presentata istanza (o richiesta) di fallimento e che ricorrano, ovviamente, i presupposti di quest'ultimo.

Il fallimento è dunque conseguenza inevitabile quando vi sia stato – per tutte le varie ragioni sopra considerate - l'esito negativo del procedimento preconcordatario costituito dalla mancata presentazione in termini della proposta definitiva (ovviamente in presenza di una fondata istanza di fallimento). Ma il senso di tale correlazione funzionale certo non muta quando un'istanza di fallimento manchi, poiché, pur non potendo in tal caso procedersi alla relativa declaratoria, non può che restar fermo l'effetto preclusivo derivante dall'insuccesso del procedimento preconcordatario.

Superfluo aggiungere che tutte le ipotesi di inammissibilità esaminate fin qui con riferimento al concordato preventivo possono riprodursi anche quando a non essere depositata nel termine sia non già una proposta di concordato, ma una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti. Nella sostanza, infatti, la situazione non cambia, poiché si tratta di sottoporre comunque ad una medesima sanzione di carattere preclusivo l'inosservanza del termine di decadenza.

(Segue) L'estensione della funzione preclusiva dell'inammissibilità della proposta anche alle nuove “domande”

Tuttavia non può sfuggire che, dal punto di vista strutturale, in quest'ultimo caso si è di fronte non più ad una mera frazione della complessiva domanda presentata in caso di concordato preventivo, laddove la domanda, veicolata dal ricorso iniziale “in bianco”, è scissa e distinta anche concettualmente dalla successiva proposta definitiva (corredata dal piano). Ci si trova invece ancora dinanzi ad una domanda (con cui si chiede appunto l'omologa degli accordi di ristrutturazione), possibilità alternativa/facoltativa che, per quanto eterodossa, è consentita dall'art. 161, comma 6.

Non per questo, tuttavia, può ritenersi che la domanda di omologa degli accordi tardivamente proposta possa sfuggire alla sanzione dell'inammissibilità comminata dall'art. 161, comma 6, in relazione all'art. 162, comma 2. Tale sanzione, infatti, si applica, per l'espressa formulazione della comminatoria contenuta nell'art. 161, comma 6, anche in caso di mancata presentazione in termini di una domanda di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Il fatto, dunque, che l'art. 162, comma 2, contempli letteralmente l'inammissibilità della proposta (di concordato) non va inteso come motivo idoneo ad escludere la declaratoria d'inammissibilità di una domandatardiva di omologa degli accordi.

Né varrebbe obiettare che, trattandosi comunque, ed appunto, di una domanda (autonoma e nuova rispetto alla prima, ossia al ricorso “in bianco”), essa per ciò stesso non potrebbe considerarsi inammissibile. Lo è, invece, certamente, in quanto si tratta proprio di uno dei due atti alternativi (proposta di concordato o domanda di omologa degli accordi) su cui verteva la riserva di successiva presentazione. È del tutto conseguente, allora, che, anche quando la domanda di omologa degli accordi (piuttosto che la proposta di concordato) venga presentata tardivamente, ossia oltre lo spirare del termine decadenziale, essa debba essere dichiarata inammissibile dal Tribunale, stante la suddetta comminatoria di legge (da interpretarsi anche e comunque) in tal senso.

È del resto evidente che, in tal caso, stante la differente struttura tra domanda di concordato e domanda di omologa degli accordi, il debitore, per sciogliere la riserva, non presenterà una proposta, ma appunto una domanda di omologa dell'accordo concluso con tanti creditori che rappresentino almeno il 60% del monte crediti. Ma la diversa struttura formale di tale domanda omologatoria rispetto alla fattispecie sequenziale domanda-proposta definitiva che si realizza in caso di concordato non è certo ragione idonea a giustificarne la sottrazione alla sanzione preclusiva prevista per l'inosservanza del termine.

In altre parole: il debitore, proponendo un ricorso con riserva, può ottenere sì il beneficio dell'automatic stay, ma si assume tuttavia sia l'obbligo (o comunque l'onere) – in cambio – di presentare, entro il termine che il Tribunale concederà, o una proposta definitiva di concordato, o una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti, sia le conseguenze dell'inosservanza di tale obbligo, e dunque il rischio di incorrere nella sanzione di inammissibilità in esame, che, essendo correlata ad una decadenza, opera – e non può che operare - come ipotesi di preclusione.

Non varrebbe neppure obiettare che, in tal modo, si precluderebbe anche l'autonoma attivazione di una procedura di omologa degli accordi che, in ipotesi, nulla avesse più a che vedere con la precedente procedura concordataria.

Una tale possibilità, infatti, è preclusa proprio dal suddescritto quadro normativo di carattere sanzionatorio, in quanto è la stessa legge a riferire la sanzione dell'inammissibilità non al ricorso originario di preconcordato, ma (alla proposta definitiva di concordato o) alla domanda di omologa degli accordi non presentata in termini. Chiaro allora che la sanzione opera invariabilmente in senso preclusivo, ossia impedendo che, dopo il vano spirare del termine, possa proporsi una domanda di omologa degli accordi.

Se si condivide tale premessa, non può poi apparire irragionevole che analoga preclusione operi anche quando – riprendendo qui l'esame della mancata presentazione in termini della proposta tardiva di concordato - il debitore, per eludere la norma sanzionatoria, presenti fuori termine (non già la sola e distinta proposta su cui verteva la riserva, come nei casi che abbiamo prima esaminato, ma) una domanda di concordato che appaia formalmente nuova e redatta questa volta in forma definitiva, e cioè un nuovo ricorso già corredato da proposta, piano e documenti accessori.

Anche in tal caso, infatti, il Tribunale - si sia o meno già prima pronunciato sull'inammissibilità della proposta ai sensi dell'art. 162, comma 2 - dovrebbe a rigore dichiarare comunque l'inammissibilità della domanda o della proposta, senza che possa avere rilievo la circostanza che quest'ultima sia stata presentata a corredo di un nuovo ricorso-domanda di concordato preventivo.

Vero è che, in tal caso, sembra radicato un nuovo e diverso procedimento, diverso e successivo rispetto a quello cui formalmente si riferisce la preclusione in esame, ma sarebbe evidentemente anche in tal caso davvero troppo facile eludere la norma sanzionatoria semplicemente presentando un nuovo ricorso, con la pretesa di veicolare mediante quest'ultimo proprio quella proposta definitiva (e ormai tardiva) su cui verteva la riserva.

Anche in tal caso, come in quello riguardante la domanda di omologa degli accordi presentata tardivamente, non dovrebbe avere alcun rilievo la struttura formale dell'atto, ossia la circostanza che sia stato depositato un nuovo ricorso (che va ad aggiungersi al primo, quello contenente la domanda in bianco), ossia una domanda (processuale), poiché ciò che ha rilievo è invece il solo fatto che dopo lo spirare del termine di decadenza sia presentata una proposta definitiva ormai preclusa.

La preclusione, cioè, per essere funzionale allo scopo voluto dalla legge, deve necessariamente proiettarsi oltre il primo procedimento preconcordatario.

In via consequenziale, l'inammissibilità dovrebbe precludere altresì una nuova domanda di concordato preventivo anche quando, spirato il termine fissato nel primo procedimento, il debitore avesse tardivamente depositato la proposta definitiva e il Tribunale l'avesse già dichiarata inammissibile a causa della tardività, non potendo ritenersi dirimente la teorica obiezione che a tal proposito potrebbe sollevarsi, secondo cui, almeno in questa ipotesi, sarebbe possibile confrontare la prima proposta definitiva tardivamente depositata con la proposta allegata alla nuova domanda di concordato, derivandone, in asserto, la consequenziale possibilità di limitare la declaratoria d'inammissibilità della nuova domanda-proposta solo al caso in cui essa fosse meramente replicativa della prima proposta (in quanto solo allora chiaramente finalizzata ad eludere l'intervenuta decadenza dal diritto di proporla e a prolungare così ultra modum il termine di protezione contro azioni esecutive e cautelari).

Varrebbe, infatti, anche a questo proposito l'argomento svolto più sopra a confutazione: sarebbe, cioè, anche troppo facile per il debitore sfuggire alla possibile penalizzazione causata dal confronto tra l'una e l'altra proposta, conformando la seconda in modo da farla apparire un po' diversa dall'altra, e finanche artatamente predisporre ad hoc la prima proposta depositandola tardivamente con un contenuto in realtà non voluto, per poi rendere più facile predisporre la nuova proposta con sensibili variazioni, questa volta nel senso voluto, onde non farla apparire meramente replicativa della prima.

La soluzione consentanea all'indistinto operare della preclusione anche in tale ipotesi sembrerebbe dunque la più congruente.

Potrebbe tuttavia proporsi un'obiezione di carattere ancor più generale e radicale.

Si potrebbe infatti sostenere che se tale preclusione può sanzionare, dopo la scadenza del termine, non solo una proposta tardiva presentata come tale, ma – proiettandosi al di là del primo procedimento - anche una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione, o una domanda di concordato preventivo proposta ex novo, essa finirebbe per operare addirittura sine die, bloccando per sempre l'attivazione di una procedura di concordato (definitivo) o una procedura di omologa di accordi, attesa la mancanza di una norma che limiti temporalmente l'operare della inammissibilità/preclusione. Conclusione, questa, talmente odiosa

ed irragionevole (giacché non avrebbe senso impedire per sempre l'attivazione di queste procedure) da far dubitare tout court della possibilità che la preclusione possa operare.

Tuttavia anche una conclusione che negasse in assoluto l'operare della preclusione sarebbe a sua volta irragionevole, non avendo senso inferire che la preclusione non debba operare affatto, trattandosi di conseguenza frontalmente contraria al dettato normativo, che una preclusione comunque pone, per quanto implicitamente, attraverso la già detta comminatoria dell'inammissibilità.

In definitiva, la soluzione più congrua, logica ed efficiente passa attraverso la necessaria fissazione di un termine massimo di durata della inammissibilità/preclusione, decorso il quale il debitore possa nuovamente attivare le dette procedure.

Ma da dove trarre un'indicazione temporalmente limitativa della preclusione in mancanza di una disposizione esplicita in tal senso?

La risposta dovrebbe ormai saltare immediatamente agli occhi: proprio dalla possibilità di estensione interpretativa della ripetuta norma – l'art. 161, comma 9 - che sanziona l'inammissibilità di una nuova domanda di preconcordato quando il debitore, nei due anni precedenti, abbia presentato altra domanda del medesimo tipo alla quale non abbia fatto seguito l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti.

Da tale disposizione si evince che solo quando ad una domanda di preconcordato abbia fatto seguito senza soluzione di continuità, e quindi nel rispetto del termine concesso, l'ammissione alla procedura di concordato preventivo o l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti può poi riproporsi entro il biennio una nuova domanda di preconcordato, e ciò evidentemente sul presupposto che quest'ultima attenga ad una situazione di crisi diversa da quella già risolta con il primo procedimento andato a buon fine.

È come se il legislatore in tal modo avesse detto che in un determinato arco di tempo (due anni) non sia tollerabile un blocco delle azioni esecutive e cautelari che si prolunghi più di una volta per il periodo massimo (teorico) di durata di un procedimento di preconcordato, conseguendone l'impossibilità di attivarne un altro parimenti finalizzato al superamento della medesima situazione di crisi che con quel primo procedimento si intendeva superare, perché la durata dell'ombrello protettivo risulterebbe in tal caso esorbitante rispetto a quella proporzione temporale (rispetto al biennio) ritenuta accettabile.

La necessità di rispettare una proporzione temporale si ravvisa peraltro anche laddove il legislatore ha vincolato il Tribunale a non concedere una termine superiore a 60 giorni quando penda un'istanza di fallimento.

È chiaro che mentre tale ultima previsione tutela il creditore istante contro un'eccessiva durata del procedimento preconcordatario, la prima tutela invece qualunque creditore contro il rischio di un'esorbitante blocco delle azioni esecutive e cautelari nel caso di successione di procedimenti.

L'una e l'altra, combinandosi tra loro, rendono manifesta l'esistenza di un limite ontologico sia alla durata del preconcordato che alla reiterabilità delle domande di questo tipo nell'arco del biennio.

È peraltro opportuno puntualizzare che il legislatore ha ritenuto accettabile la detta proporzione tra la possibile durata del preconcordato e la riproposizione di una domanda in bianco nel biennio fissato dall'art. 161, comma 9, presupponendo il rispetto di una specifica condizione: che, cioè, come si è già rilevato, il preconcordato sia comunque sfociato nella tempestiva presentazione di una proposta definitiva di concordato o di una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione, come dimostra il fatto che l'evento successivo determinante l'esito negativo delle dette procedure (non ammissione al concordato e, rispettivamente, non omologa degli accordi) deve comunque verificarsi dopo che sia avvenuta la tempestiva presentazione della proposta definitiva di concordato o della domanda di omologa degli accordi.

Ma per la stessa ragione la preclusione non può non operare anche quando le nuove domande facciano seguito ad una procedura di preconcordato in cui il debitore non abbia osservato il termine fissato dal Tribunale per lo scioglimento della riserva.

Infatti non può non ravvedersi la medesima ratio sottesa all'art. 161, comma 9, anche quando il debitore cerchi di realizzare il medesimo risultato abusivo sanzionato da tale disposizione facendo seguire ad una domanda di preconcordato, che abbia avuto esito negativo a causa del vano spirare del termine, domande solo apparentemente nuove di concordato preventivo o di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti, con l'intento di sottrarsi alla preclusione prevista dall'art. 161, comma 6, in relazione all'art. 162, comma 2.

L'effetto distorsivo non può sfuggire se si considera che nel preconcordato il legislatore prevede appunto tassativamente termini massimi di durata dell'ombrello protettivo, sì che consentire, successivamente alla proposizione di una domanda di preconcordato dichiarata inammissibile, la presentazione di un'ulteriore domanda di concordato o di omologa di accordi senza un adeguato barrage temporale consentirebbe di procrastinare indefinitivamente la possibilità di soddisfare le ragioni dei creditori, violando quella proporzione tra la possibile durata del preconcordato e la riproposizione di una domanda in bianco che il legislatore ha ritenuto accettabile nel biennio fissato dall'art. 161, comma 9, solo se e quando il preconcordato sia sfociato nel tempestivo rispetto del termine (la proposta definitiva di concordato o la domanda di omologa di un accordo di ristrutturazione siano stati cioè depositati nel termine) e il Tribunale abbia ammesso il concordato oppure omologato l'accordo.

Sembra allora del tutto coerente e conseguente, alla luce del correlato combinato disposto degli artt. 161, comma 6, e 162, comma 2, che nuove domande di concordato o nuove domande di omologa degli accordi debbano dichiararsi inammissibili per l'inosservanza del termine decadenziale qualora siano depositate nel biennio contemplato dall'art. 161, comma 9.

D'altra parte, come si è già rilevato, il fatto stesso che l'art. 161, comma 9, consideri come fattispecie preclusiva anche quella in cui al preconcordato abbia fatto seguito la presentazione di una tempestiva proposta definitiva di concordato senza che tuttavia ne sia seguita l'ammissione, dimostra come la preclusione biennale sia riferibile appunto (anche) ad una precedente domanda/proposta definitiva di concordato, quando essa non sia andata a buon fine essendo mancato il decreto di ammissione.

Poste tali conclusioni, sembra superfluo precisare che l'art. 161, comma 9, dovrebbe considerarsi applicabile per analogia, stante la medesima ratio (applicandosi la preclusione biennale), alle successive nuove domande di concordato preventivo o di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti anche nei casi in cui l'inammissibilità facesse seguito all'inadempimento degli obblighi informativi imposti dal Tribunale, o l'improcedibilità fosse dichiarata a causa di atti in frode o ad atti non autorizzati.

In questi casi, del resto, pensare che la sanzione possa restare confinata all'interno del primo procedimento preconcordatario sarebbe ancor meno accettabile. Che senso avrebbe, infatti, dinanzi all'accertato compimento di atti di frode (magari nemmeno più rimossi), impedire al debitore di presentare la proposta definitiva, consentendogli però al tempo stesso di bypassare l'effetto preclusivo semplicemente … riproponendo una nuova domanda?

In ultima analisi: la preclusione (biennale) non dovrebbe mai operare in senso procedimentale solo all'interno del (e non oltre il) procedimento preconcordatario, ma proiettarsi all'esterno di esso fino ad impedire l'attivazione di un successivo procedimento concordatario.

La preclusione implicita dovuta all'unicità del procedimento

Sotto questo profilo gioca un ruolo tanto chiarificatore, quanto decisivo, sul piano dell'interpretazione sistematica, potendo potenzialmente giustificare l'estensionedella preclusione anche oltre il biennio, il cd. principio di unitarietà o unicità del concordato, già affermato in passato dalla giurisprudenza anche di legittimità (

Cass. 7 febbraio 2006, n. 2594

;

Trib. Mondovì 3 febbraio 2006

), di cui può ora considerarsi espressione la regola a tenore della quale la proposta non può essere più modificata una volta iniziate le operazioni di voto (art. 175, comma 2).

Se, infatti, è ammessa dalla legge una emendatio, ma solo fino all'inizio delle operazioni di voto, deve certo reputarsi a maggior ragione vietata una mutatio, ossia la presentazione di una domanda del tutto nuova (

Trib. Messina 30 gennaio 2013

).

La ragione va ravvisata sia nel fatto che può sussistere solo una procedura di concordato alla volta, essendo inammissibile la contemporanea pendenza di due procedure finalizzate alla rimozione del medesimo stato di crisi; sia nel fatto che solo una volta può essere concessa al debitore la facoltà di proporre una soluzione compositiva finalizzata a questo scopo, da ciò conseguendone la sanzionabilità di schemi procedimentali volti ad eludere o il divieto di contemporanea pendenze di due concordati (ad esempio mediante revoca della prima domanda e proposizione di una domanda nuova) o il divieto di proporre in sequenza domande finalizzate a rimuovere il medesimo stato di crisi, ed evidentemente sussistendo la possibilità di precludere tali tentativi anche oltre il prefissato arco temporale di due anni.

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