Il ruolo dell'insolvenza e della declaratoria di fallimento nell'ambito dei reati di bancarotta prefallimentare

Alessio Lanzi
08 Maggio 2013

Con la sentenza n. 47502 del 24.9.2012, la Corte di Cassazione, Sez. V penale, ha fornito una approfondita disamina dell'annosa quanto classica questione del ruolo dell'insolvenza e della declaratoria fallimentare nell'ambito dei reati di bancarotta prefallimentare. In particolare la sentenza svela le incongruenze dogmatiche e sistematiche presenti nel costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale si tratterebbe di elementi essenziali però sganciati da un qualsivoglia rapporto di causalità materiale e psichica col soggetto attivo e la sua condotta. Si propugna dunque la tesi dell'evento, causalmente dipendente dalla condotta ed investito dal dolo. L'Autore svolge valutazioni critiche a riguardo, apprezzando la "nuova interpretazione" ma comunque ritenendo preferibile la tesi che si tratterebbe di una condizione obiettiva di punibilità intrinseca.
Il problema del ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta prefallimentare

La sentenza della

Cassazione, Sez. V penale, 24.9.2012 n. 47502

(Pres. Zecca, Rel. Demarchi Albengo) si segnala in modo particolare per la rivisitazione in chiave garantista di un istituto fondamentale nell'economia e nella struttura dei reati fallimentari qual è la sentenza dichiarativa di fallimento.

Da sempre, infatti, il nodo principale per ogni approccio interpretativo alle ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale pre-fallimentare è stato quello del ruolo da assegnare alla declaratoria fallimentare.

E questo non tanto e non solo nella prospettiva dell'esegesi di tali fattispecie, quanto anche per la stessa razionalizzazione e collocazione sistematica di quei delitti.

Infatti la peculiarità di tali questioni risiede principalmente nel fatto che, in relazione alle ipotesi delittuose prefallimentari, le condotte tipiche sono costituite da atti dispositivi del patrimonio d'impresa compiuti in un momento nel quale quest'ultima è in bonis, e dunque gode di ogni diritto sui propri beni, ivi compreso quello della loro alienazione, cessione, dispersione, etc...

Il delicato tema consiste dunque nell'assegnare rilievo penale a condotte tenute in costanza del libero esercizio dei propri diritti, e quindi della piena disponibilità dei propri beni; situazione che permane fino a quando il patrimonio dell'impresa non viene sottoposto ad una procedura esecutiva.

In relazione a ciò, il punto centrale è allora quello di contemperare le esigenze del creditore (titolare potenziale di ogni garanzia) con quelle del debitore (l'imprenditore), rispetto al pieno esercizio dei diritti di quest'ultimo.

Come si è più volte avvertito, la soluzione normativa di tale questione è data dalla disposizione di cui all'

art. 2740 c.c.

, secondo la quale i beni del debitore costituiscono garanzia per il creditore per il soddisfacimento dei propri diritti.

Sulla base di tale preciso riferimento normativo è allora consentito intravedere un vincolo ed un limite che al debitore si pone rispetto alla disposizione del proprio patrimonio, nel senso che è razionale che assuma (in coerenza con i principi dell'ordinamento giuridico) rilievo penale solo il fatto del debitore che disperda la garanzia

ex art. 2740 c.c.

Ma perchè ciò avvenga, è indispensabile che sia almeno potenzialmente presente la situazione di fatto e di diritto in costanza della quale scatta il disposto di cui alla ricordata norma del codice civile: vale a dire, da un lato, a livello soggettivo, che vi sia almeno la rappresentazione di una violazione della richiamata garanzia ex lege; dall'altro, a livello oggettivo, che sia potenziale l'instaurarsi - a seconda dei casi - di una procedura esecutiva individuale o collettiva sui beni del debitore.

Situazione che poi, venuta in concreto in esistenza, qualifica ed attualizza la lesione del bene tutelato dalla norma penale (per quanto qui interessa) sulla bancarotta prefallimentare, consentendo così di individuare la declaratoria fallimentare come una condizione obiettiva di punibilità intrinseca.

Questa, per quanto mi riguarda, è e rimane la soluzione interpretativa preferibile rispetto alla natura giuridica della declaratoria fallimentare nell'ambito della struttura dei reati concorsuali (

veda

Nuvolone

, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concursuali, Milano, 1955

).

La (quasi) costante interpretazione giurisprudenziale sul tema

Peraltro, da sempre, si sa che la giurisprudenza, specie di legittimità, si è quasi costantemente pronunciata nel senso di ritenere tale declaratoria un "elemento costitutivo ed essenziale" del reato di bancarotta.

Solo che, affermato tale concetto, il problema riguarda allora il "modo" attraverso il quale un tale elemento costitutivo si inserisce nella struttura dell'intera fattispecie e quindi la sua "sinergia" con gli altri elementi essenziali della fattispecie.

Una tale configurazione interpretativa ha avuto la sua giustificazione pragmatica nella prospettiva di localizzare con certezza il momento consumativo del delitto di bancarotta patrimoniale prefallimentare nel momento in cui viene emessa la sentenza dichiarativa di fallimento, e di evitare, tra l'altro, che eventuali provvedimenti di amnistia o di indulto si possano applicare a condotte che depauperano il patrimonio dell'impresa, già tenute, dopo le quali, però, non è ancora intervenuta la declaratoria fallimentare (che interverrà poi, in epoca successiva al provvedimento di clemenza).

Tutto ciò, in realtà, perchè non si è voluta accogliere e approfondire la categoria dogmatica delle "condizioni di punibilità intrinseche", che, al contrario di quanto accadrebbe nel caso di "condizioni di punibilità estrinseche", porterebbe al medesimo risultato (Nuvolone, Il Sistema del diritto penale, II edizione, Padova, 1982, 182) per conseguire il quale - come visto - la giurisprudenza ha invece aderito alla tesi della sentenza dichiarativa come elemento essenziale di fattispecie.

Solo che, una volta evocata tale ultima categoria, la stessa giurisprudenza non ha poi voluto trarne le dovute conseguenze sul piano giuridico e sistematico.

Infatti ha sempre sostenuto l'irrilevanza (e l'inutilità) di qualsivoglia accertamento di un nesso causale materiale fra l'atto di disposizione patrimoniale dell'imprenditore e il fallimento (

Cass

.

26 aprile 2011 n. 27367

;

Cass.

14 gennaio 2010, n. 11899

;

Cass.

17 febbraio 2010, n.17978

); e anche, pur se talvolta con qualche modesta e timida apertura (

Cass.

29 settembre 2011, n. 1747

), ha prevalentemente ritenuto l'inutilità del riscontro sul piano della causalità psichica fra condotta materiale e fallimento (

Cass. 26 giugno 1990;

Cass.

6 luglio 2006 n. 29431

).

Rispetto a ciò, proprio per evitare problemi interpretativi, dovuti al fatto di individuare un elemento costitutivo essenziale della fattispecie privo di un collegamento causale e psicologico con l'agente, talvolta la giurisprudenza ha anche fatto ricorso alla tesi che la declaratoria fallimentare costituirebbe, nei reati prefallimentari, una "condizione di esistenza del reato", così ritenendo di poter superare il problema della dipendenza causale e psichica col soggetto agente e la sua condotta.

La "nuova" interpretazione giurisprudenziale

In un tale quadro si inserisce la sentenza in commento che, mentre ricalca la tesi della sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo ed essenziale della bancarotta patrimoniale prefallimentare, si distanzia però notevolmente dalle precedenti conformi decisioni, in quanto, in modo coraggioso e meritorio, razionalizza tale risultato interpretativo, operando una coerente ricostruzione di tale Istituto alla luce dei principi fondamentali del diritto penale.

Infatti, non aderendosi alla tesi (pure giurisprudenziale) della "condizione di esistenza del reato", certo di ardua collocazione sistematica, questa Cassazione, in modo giuridicamente ineccepibile, una volta abbracciato il filone interpretativo dell'elemento costitutivo ed essenziale, rende poi una tale interpretazione finalmente compatibile col Sistema, sottolineando la necessità di un collegamento causale fra la condotta e l'insolvenza, e ritenendo anche indispensabile che l'elemento soggettivo doloso la investa; e ciò, si dice espressamente, in applicazione dei fondamentali principi espressi agli artt. 40-43 c.p.

In tal modo, la bancarotta patrimoniale prefallimentare viene individuata come un reato di evento di danno; consistente, quest'ultimo, nella insolvenza della società, che - sul piano processuale - trova riconoscimento formale e giuridico nella sentenza dichiarativa di fallimento.

Un tale evento, dunque, deve essere il risultato della condotta tipica (la sentenza in rassegna considera casi concreti di distrazione) e deve essere rappresentato e voluto, quanto meno in forma eventuale (di qui la rilevanza anche del solo dolo indiretto), dall'imprenditore che poi fallirà.

Una tale ricostruzione, si ripete, ineccepibile nell'ambito del perimetro interpretativo scelto, ci pare dunque come assolutamente innovativa nel panorama giurisprudenziale esistente a tal proposito.

In realtà si ritorna al passato: valutazioni critiche

La tesi del fallimento (come dato sostanziale, e dunque dell'insolvenza) quale evento del reato di bancarotta patrimoniale prefallimentare era peraltro già stata proposta in dottrina in tempi ormai lontani (Bonelli

, Del fallimento, Milano, 1938, Vol. III, 304 ss.;

Rovelli

, Reati fallimentari, Milano, 1952, 12 ss.

).

Per ragioni sistematiche, dovute principalmente al fatto di non penalizzare - come criterio generale - forme di inadempimento dei propri obblighi in relazione a condotte compiute nel libero esercizio dei propri diritti, la dottrina, come già sopra detto, si era poi orientata a ritenere la declaratoria fallimentare, nei casi di diminuzione del patrimonio dell'impresa, come una condizione obiettiva di punibilità, in particolare intrinseca; ciò al fine di dare anche spazio alla prospettiva (di cui anche si è già detto) di una garanzia (solo) virtuale che esiste sui beni del debitore, a favore del creditore,

ex art. 2740 c.c.

(Lanzi

, La tutela penale del credito, Padova, 1979, 25 ss.

).

Ora, con la sentenza in commento, il tema si può riproporre, al fine di valutare se sia maggiormente coerente col Sistema una penalizzazione dell'inadempimento dei debiti dell'impresa frutto di atti di per sé leciti nel momento in cui vengono compiuti; o se, invece, non sia preferibile consentire la penalizzazione di quelle condotte solo "a condizione" che siano innanzitutto compiute nella consapevolezza di violare la garanzia dei creditori, ed in modo idoneo a consentire che ciò avvenga, sempre che, in seguito, si attualizzi tale violazione con la declaratoria fallimentare; tutto ciò, però, senza giungere a penalizzare - di per sè - l'inadempimento (a livello concettuale, sia singolo che collettivo); ciò anche per evitare di scomporre l'elemento di fattispecie reso dal termine "sentenza dichiarativa di fallimento" (almeno, apparentemente unitario) in due distinti istituti: il fallimento sostanziale (l'insolvenza) e la sua dichiarazione giudiziale; col risultato di assegnare - come visto - valore di elemento essenziale/evento al primo, peraltro, di per sé, inespresso nella fattispecie legale; relegando invece (ed evidentemente) il secondo o a mera condizione estrinseca o a semplice requisito di procedibilità.

Comunque sia, va sottolineato che la sentenza in rassegna si pone come un punto fermo nell'individuazione della declaratoria fallimentare quale elemento essenziale dei reati prefallimentari, in quanto da essa non si potrà, né si dovrà, prescindere per il futuro, qualora si voglia aderire ad una siffatta soluzione interpretativa. Per completezza, va però ricordato che la stessa

Cassazione, Sez. V penale, con sentenza 2159 del 24 settembre 2012

ha nuovamente riprodotto, in modo però ripetitivo e del tutto privo di motivazione, la tesi della irrilevanza di un nesso causale fra distrazione e dissesto. A questo punto è certo auspicabile, sull'intera questione, un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

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