L'affitto di azienda, rapporto giuridico preesistente

10 Aprile 2013

La nuova disciplina dei rapporti giuridici pendenti nelle procedure concorsuali, dopo l'intervento del c.d. Decreto Sviluppo, prevede la sospensione o lo scioglimento dei contratti, richiedendo una distinzione tra contratti che proseguono automaticamente, contratti che si sciolgono perché di impedimento od ostacolo alla realizzazione dell'attivo e, infine, contratti per i quali il curatore dovrà valutare, caso per caso, l'opportunità di scioglimento. Proprio con riferimento a questi ultimi, l'Autore esamina la particolare ipotesi di un contratto preesistente di affitto d'azienda, in caso di fallimento del concedente o dell'affittuario.
Premessa

La riforma ha, come noto, operato una definizione dei rapporti pendenti individuando questi tra quelli ancora ineseguiti, o non compiutamente eseguiti, da entrambe le parti, prevedendo, in via alternativa, la sospensione, sino al momento della dichiarazione di subentro, con assunzione dei relativi obblighi, o lo scioglimento, con facoltà, peraltro, del contraente in bonis di costituire in mora il curatore, consentendogli, in ogni caso, il rifiuto dell'adempimento della prestazione o, ancora, la sospensione dell'esecuzione di essa, qualora le mutate condizioni lo giustifichino (artt.

1460

e

1461 c.c

.

).

Individuati, pertanto, i rapporti giuridici preesistenti e stabilita la generale inefficacia delle clausole negoziali che fanno dipendere la sorte del contratto dalla stessa apertura della procedura di liquidazione e circoscritta la possibilità, per la parte che abbia interesse, di ottenere la risoluzione del contratto nei soli casi in cui l'azione sia stata avviata anteriormente alla dichiarazione di fallimento, è stata attuata una distinzione tra contratti che proseguono automaticamente, altri che si sciolgono, perché di impedimento e di ostacolo alla realizzazione dell'attivo o, comunque, per la gestione dell'attività di impresa, ed altri, infine, per i quali, dopo un periodo di sospensione, il curatore, una volta valutati ed apprezzati gli effetti positivi sull'attività di realizzazione del patrimonio, potrà decidere se sciogliersi o meno dagli stessi.

Tra questi assumono particolare importanza, ai fini della analisi che qui interessa, quei rapporti indispensabili per la prosecuzione dell'attività di impresa, e che hanno più diretta incidenza su di essa, anche se, poi, vengono in considerazione in modo diverso a seconda che la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa venga disposta con la sentenza, o successivamente, su richiesta del curatore e parere del comitato dei creditori, ed essa abbia ad oggetto un'azienda in affitto e sia stato dichiarato il fallimento del concedente o dell'affittuario.

La regolamentazione pregressa

In precedenza, la giurisprudenza aveva, in assenza dell'esistenza di una espressa regolamentazione dell'istituto dell'affitto di azienda, parificato il contratto alla locazione degli immobili, per la relativa identità strutturale e funzionale, sicchè il fallimento del locatore non scioglieva il contratto, potendo subentrare il curatore nella identica posizione del fallito.

Era apparso, difatti, illogico riconoscere, in tal caso, al curatore il diritto di scegliere tra lo scioglimento, o meno, del contratto, determinando la sospensione della sua esecuzione, in quanto si sarebbero avute perniciose conseguenze, da un lato, per la stessa impossibilità dell'affittuario di continuare l'attività e, dall'altro, per il fallimento che veniva ad essere, in tal modo, privato di una rendita e, soprattutto, della possibilità di utilizzare il rapporto preesistente in funzione conservativa dell'impresa.

Mentre, però, la giurisprudenza di merito si era espressa per la applicabilità della regola della sospensione del contratto, i giudici di legittimità avevano ritenuto, in ragione della sostanziale identità strutturale e funzionale con la fattispecie contrattuale della locazione degli immobili, possibile l'applicazione delle medesime regole previste per tale contratto quante volte il bene avesse avuto ad oggetto una attività produttiva e nel complesso dei beni organizzato per l'esercizio di essa fosse compreso anche un immobile.

La stessa dottrina aveva manifestato identica opzione interpretativa ritenendo, in via alternativa, regolata la fattispecie dal principio generale della sospensione (LICCARDO, Fallimento e metodologie di acquisizione dell'azienda , in Fall., 1996, 661), ovvero del contratto di locazione, per il caso, certamente, in cui l'apertura della procedura concorsuale avesse riguardato il concedente, sì da reputare, per l'appunto, applicabile la regola di cui all'

art.

80, comma

1

, l.

f

all

. (VIGO, Effetti del fallimento del locatore sull'affitto di azienda, in Giur.comm., 1998, I, 79; PANZANI, Affitto d'azienda, in I rapporti giuridici pendenti, a cura di FERRO, Milano, 1998, 26; DIMUNDO, In codice commentato del fallimento, diretto da LO CASCIO, Milano, 2008, 741). E seppur non può non esservi una sostanziale differenza a seconda che la procedura concorsuale riguardi il concedente o l'affittuario è, tuttavia, evidente che, attraverso la prosecuzione del rapporto, ove a fallire sia il primo, si realizza quella conservazione dei valori di funzionamento dell'azienda che il legislatore della riforma ha inteso garantire per una sua allocazione sul mercato, perché sia, altresì, assicurato, per quanto possibile, il mantenimento dei livelli di occupazione, così come, d'altronde, si ricava dalla stessa relazione alla

legge fallimentare

.

Qualora, di contro, il fallimento avesse riguardato l'affittuario, era sembrato logico, in passato, non sacrificare la posizione di questi ove fosse stato possibile, seppur con le necessarie garanzie, assicurare la medesima continuazione dell'attività aziendale e trarre da essa quei vantaggi economici che avessero permesso una migliore liquidazione dell'attivo (CENSONI, Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, in Le riforme della

legge fallimentare,

a cura di DIDONE, I, Torino, 804).

La soluzione normativa

La riforma ha mantenuto nettamente separati il rapporto preesistente dal successivo affitto, che ha avuto una diversa regolamentazione da quella attuata con la

l.

n.

223 del 1991

stabilendo, appunto, all'

art.

104-

bis

l.

f

all

., precise regole in relazione al contratto, per la gestione provvisoria dell'azienda, o di suoi rami, che “su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori…”

può autorizzare anche prima della presentazione del programma di liquidazione, di cui all'

art.

104-

ter

l.

f

all

.

, con possibilità di concedere “convenzionalmente il diritto di prelazione all'affittuario, in precedenza regolato dall'

art.

3, comma

4

,

l.

n. 223 del 1991

, attraverso la quale i

l legislatore ha operato una diversa impostazione metodologica dell'istituto del trattamento di integrazione salariale, avendo ritenuto che, invero, anche a seguito dell'avvenuta dichiarazione di fallimento, fosse possibile, in presenza di determinate condizioni, attuare la conservazione dell'attività economica, pur se non costituiva allora l'obiettivo della procedura, che aveva la funzione imprescindibile di liquidazione del patrimonio acquisito e la ripartizione di esso tra i creditori e, non già, l'altro sociale del mantenimento dei livelli occupazionali.

Alla mancanza di una normativa specifica, per quel che attiene gli effetti derivanti dalla dichiarazione di fallimento sui rapporti in corso, sui quali presto tornerò, aveva fatto eco, per l'appunto, una disciplina dettagliata della tutela dei livelli occupazionali - qualora l'attività fosse risultata cessata o non continuata - attuata attraverso il riconoscimento del trattamento di integrazione salariale concorsuale, mediante il quale è stato introdotto, nel nostro ordinamento, un sistema di sospensione della prestazione lavorativa e del relativo obbligo retributivo, nell'intento di favorire il realizzarsi di fenomeni traslativi dell'azienda, con conseguente salvaguardia anche parziale, dei livelli occupazionali.

A tale conclusione il legislatore era pervenuto, già allora, con una disposizione a latere della

legge fallimentare

nella convinzione che, ove in conseguenza dell'apertura della procedura concorsuale fosse stata negata ogni possibilità di intervento, si sarebbe avuta l'inevitabile emarginazione dal mercato dell'impresa dichiarata insolvente, per la quale erano state apprestate specifiche misure correttive in grado di restituirle la funzione sociale, pur se al di là del mero e pernicioso assistenzialismo.

In particolare, attraverso l'

art. 3

l.

n. 223 del 1991

è stato, in pratica, integralmente rivisitato e ridisegnato l'istituto della cassa integrazione guadagni, quale strumento in grado di mantenere l'unitarietà aziendale nella prospettiva di una soluzione per attuare la ripresa produttiva, anche se mediante la previsione di tempi rigidi, condizionata dalla sussistenza di reali prospettive di ripresa dell'attività cessata, o non continuata, seppure attraverso la conservazione tramite la cessione dell'azienda (Ferraro, in Integrazioni salariali, eccedenza di personale e mercato del lavoro, a cura di Ferraro, Mazziotti, Santoni, Napoli 1992, 19 e segg.; Nappi, Ricorso alla cassa integrazione e guadagni straordinari nell'ambito delle procedure concorsuali, in Giur. lav., 1997, II, 582, in nota a Trib. Napoli, 24 marzo 1997) e con il riconoscimento legale del diritto di prelazione in favore dell'affittuario.

Della disciplina normativa è stata offerta anche una diversainterpretazione - che ha, poi, finito con il prevalere - sul presupposto che, invero, il trattamento previsto dall'

art. 3

l.

n. 223 del 1991

nell'intenzione del legislatore doveva operare come un vero e proprio strumento di salvaguardia del livello occupazionale, concesso ai lavoratori in organico anche in assenza di prospettive di salvataggio dei posti lavoro, al fine di attenuare gli effetti dei licenziamenti, posticipandone l'operatività nel tempo (Macchia, Cassa integrazione e mobilità nelle procedure concorsuali, in Giur. lav. del Lazio, 1994, 258; DEL PUNTA, in La nuova cassa integrazione guadagni e la mobilità, a cura di Papa Leoni, Del Punta, Mariani, Padova 1993, 290; Tagliagambe, La disciplina dei licenziamenti nelle procedure concorsuali liquidatorie dopo la

legge 223/91

, in Riv. comp. dir. lav., 1993, 762; Tagliata, I contratti di lavoro, nell'appendice a Fall., 1998, 51; I.D. I rapporti di lavoro nelle crisi di impresa, Padova, 2004, 38).

La seconda delle tesi delineate ha finito, poi, per prevalere e, naturalmente, correlata ad essa era anche la possibilità, o meno, di riconoscere all'affittuario dell'azienda, che avesse concluso il contratto con gli organi della procedura concorsuale, il diritto di prelazione, essendosi, in un primo momento, ritenuto che beneficiari della prelazione dovessero essere considerati coloro che, attraverso la sottoscrizione del contratto, avessero consentito la prosecuzione dell'attività aziendale, così evitando il ricorso alla cassa integrazione guadagni per i dipendenti dell'impresa fallita.

La stessa Suprema Corte di Cassazione (

Cass., 3 novembre 1994, n. 9052

), aveva in un primo momento escluso che il diritto di prelazione dovesse essere riconosciuto all'affittuario quando, per difetto dei necessari presupposti di legge, alla impresa fallita non potesse essere applicato il trattamento straordinario della richiamata

legge n. 223 del 1991

e, peraltro, in tal senso, si erano altresì espressi anche alcuni giudici di merito.

Ed ancora, in particolare (Trib. Siena,

decreto del 7 ottobre 1991

, in Fall., 1992, 511, con nota sul punto adesivo di MALDINI; Mastrogiacomo, Diritto di prelazione dell'affittuario nella

legge n. 223 del 1991,

in Dir. fall., 1993, I, 264), la giurisprudenza ha affermato che il quarto comma dell'

art. 3

l.

n. 223 del 1991

non può che riferirsi alle ipotesi individuate nei commi precedenti, con la conseguente finalità di incentivare la gestione delle aziende in crisi e, quindi, di favorire l'occupazione, con la conseguenza che il diritto di prelazione non può che essere correlato all'ipotesi in cui l'affittuario abbia assunto, effettivamente, la gestione con il reimpiego, anche se solo parziale, della forza lavoro.

L'

art.

104-

bis

l.

f

all

. al quinto comma, nel regolare il diritto di prelazione mediante il riconoscimento convenzionale, non ha, invero, inteso rivisitare la precedente disposizione, in ragione della quale lo stesso diritto deriva dalla conclusione del contratto di affitto, quanto, piuttosto, ha inteso estendere esso anche a quelle imprese per le quali non è consentito l'accesso, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, al trattamento integrativo concorsuale in assenza del presupposto soggettivo dato dal numero dei lavoratori occupati.

L'affitto, seppur strumento diffuso nella prassi e, ormai, pienamente in linea con un sistema concorsuale caratterizzato non più, in via esclusiva, da una finalità liquidatoria, quanto, piuttosto, indirizzato al recupero delle componenti attive, è stato utilizzato anche in passato quale mezzo per la conservazione temporanea dell'integrità dell'azienda, ovvero di suoi rami, proprio nella prospettiva della migliore collocazione sul mercato.

Tutta la fase della liquidazione dell'attivo è permeata, a seguito della riforma, dalla esigenza del raggiungimento del duplice obiettivo del massimo realizzo e della conservazione dei nuclei ancora produttivi e, in tal senso, si giustifica la previsione (

art.

104-

bis,

comma

2

, l.

f

all

.) che la scelta dell'affittuario debba essere effettuata tenendo conto, non solo, dell'ammontare del canone e delle garanzie prestate, ma, in particolare, “della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali.

Dell'affitto quale rapporto giuridico preesistente e dell'altro che il curatore può concludere successivamente vi è una autonoma specifica e diversa regolamentazione per quel che attiene la sussistenza dei presupposti per farvi ricorso, ben potendo accadere che, peraltro, disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa, con la stessa dichiarazione di fallimento, a questo faccia seguito, poi, la conclusione di un contratto di affitto, perché ritenuto mezzo maggiormente idoneo per assicurare la conservazione del complesso dei beni organizzato per l'esercizio dell'attività, allo scopo di procedere, successivamente, alla vendita di esso con un risultato migliore rispetto a quello raggiungibile attraverso la vendita separata dei singoli beni.

Ove poi venga dichiarato il fallimento del concedente è stata riservata al curatore ogni valutazione in ordine alla possibilità di recedere o meno dal contratto valutando le conseguenze di tale scelta, dalla quale discende il diritto dell'altra parte di ottenere un indennizzo, regolato dall'

art.

111 n.

1 l.

f

all

., e determinerà anche la perdita dei canoni di locazione.

Diversa la situazione qualora l'apertura della procedura concorsuale riguardi l'affittuario, atteso che l'

art. 1626 c.c

.

già regolamenta lo scioglimento per la insolvenza di questi prevedendo, in tal caso, la possibile prosecuzione quante volte venga prestata idonea garanzia per l'esatto adempimento degli obblighi.

Al riguardo va, però, sottolineata la difficoltà di conciliare il previsto automatismo dello scioglimento del contratto con la possibilità di una sua prosecuzione attraverso l'offerta delle previste garanzie per evitare l'interruzione, dal momento che a queste avrebbe dovuto provvedere il curatore che, però, viene nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento, che, dunque, accerta l'insolvenza che costituisce il presupposto per il relativo scioglimento.

E d'altronde, qualora si ritenga poter essere effettuata tale valutazione dal tribunale nel momento in cui dichiari il fallimento, si verrebbe ad avere, allora, una perfetta coincidenza tra l'esercizio provvisorio - che oggi può essere disposto con la sentenza - e la prosecuzione del contratto di affitto, qualora la procedura concorsuale interessi l'affittuario.

C'è da chiedersi, pertanto, se fosse necessaria una diversa previsione in presenza di una regolamentazione del relativo istituto operata dalla norma codicistica, che può senz'altro essere giustificata qualora, attraverso l'

art.

79 l.

f

all

. - che ha rinumerato l'

art.

80-

bis

l.

f

all

. in ragione di quanto previsto dall'

art.4, comma 11, del d.lgs. 12 settembre 2007, n.

169

- si sia inteso derogare, seppur parzialmente, alla disciplina normativa, nel senso che questa torna ad operare quante volte sia il curatore, subentrato nel contratto, a rimanere inadempiente rispetto all'obbligo di pagamento dei canoni successivi al fallimento (Proto C., Rapporti che proseguono ex lege con la massa, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da Panzani, Torino, 2013, II, 406).

E d'altronde, sembrerebbe incoerente optare per una diversa interpretazione se si dovesse pervenire alla conclusione che, in effetti, ne è stata effettuata una regolamentazione perfettamente omologa a quella già operata dall'

art. 1626 c.c

.

, che prevede lo scioglimento nell'ipotesi di insolvenza dell'affittuario ovvero, in alternativa, la possibile prosecuzione del rapporto qualora venga prestata idonea garanzia per l'esatto adempimento degli obblighi, atteso che la situazione è perfettamente identica a quella che si verifica nel caso del fallimento del conduttore, essendo anche lì disposta la prosecuzione del rapporto, ma, ovviamente, con l'obbligo del pagamento del canone, risultando, altresì, identica la soluzione individuata nell'ipotesi dello scioglimento anticipato del rapporto attraverso la previsione dell'obbligo della corresponsione di un equo indennizzo che, nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice delegato sentiti gli interessati.

Attraverso l'

art.

79 l.

f

all

. il legislatore, difatti, ha analogamente stabilito la prosecuzione, senza soluzione di continuità, pur se con la previsione del possibile scioglimento entro il termine di sessanta giorni

, previo riconoscimento di un “

equo indennizzo”,

che è disposto venga determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati, “

…nel dissenso tra le parti”,

ed al quale viene riconosciuta la natura prededucibile.

Per quel che concerne le modalità di scioglimento dal contratto, possibile per entrambe le parti, la differenza è rappresentata dalla decorrenza degli effetti che, per il curatore, ai sensi dell'

art.

16 l.

f

all

., coincide con la data di pubblicazione della sentenza e, dunque, con il deposito in cancelleria di questa (

art.

133, comma

1

,

c.p.c

.

), laddove per l'affittuario ha inizio dalla sua iscrizione nel registro delle imprese, dovendosi ritenere estraneo alla procedura fallimentare, rispetto alla quale non può che essere considerato terzo.

In ragione, poi, della natura ricettizia dell'atto negoziale di recesso, lo scioglimento si perfeziona solo ed in quanto la comunicazione possa ritenersi effettivamente conosciuta dal suo destinatario e, dunque, coincide con la data in cui questi l'ha ricevuta.

Il termine è, peraltro, perentorio, anche se non espressamente tale riconosciuto dalla norma, in ragione della natura sostanziale e non già processuale di esso, per avere il legislatore inteso ancorare alla sua decadenza, per l'appunto, effetti precisi, che si sostanziano, da un lato, nella impossibilità di sciogliersi dal contratto, cui corrisponde specularmente, quindi, dall'altro, la sua prosecuzione sino alla naturale scadenza, con la conseguenza ulteriore che laddove non venga esercitato, da parte del curatore, il relativo diritto potestativo di recesso, in ragione della diversa regolamentazione operata per il contratto di locazione di immobili, sarà del tutto indifferente la durata di esso se “…complessivamente superiore a quattro anni dalla dichiarazione di fallimento”, essendo stata prevista la facoltà di recedere per il curatore solo nel termine di sessanta giorni e, non già, in quello più ampio, di un anno, così come per la locazione (

art.

80, comma

2

, l.

f

all

.).

La perentorietà del termine consegue alle indiscutibili finalità di migliore conservazione del patrimonio aziendale e di tutela del contraente soggetto all'insindacabile diritto potestativo di scioglimento riconosciuto all'altro (

Trib. Roma, 7 luglio 2011

).

Qualora venga in discussione il regolare esercizio del diritto potestativo del curatore, ancorchè questo sia stato autorizzato a sciogliersi dal contratto con provvedimento del giudice delegato, adottato ai sensi dell'

art.

41, comma

4

, l.

f

all.

, per non essersi ancora costituito il comitato dei creditori, ovvero per inerzia di esso, il rimedio impugnatorio non può che essere quello regolato dall'

art.

36 l.

f

all.

, sicchè destinatario del reclamo sarà il giudice delegato “per violazione di legge e si pronuncerà con decreto motivato (...)omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio”, avverso il quale è, poi, ammesso il ricorso al tribunale nel termine di otto giorni dalla data della comunicazione del provvedimento.

La circostanza di avere previsto il legislatore l'obbligo di una corresponsione, in favore della parte che subisca gli effetti del recesso, di un “equo indennizzo”, e la determinazione dello stesso, nell'ipotesi in cui non vi sia accordo, da parte del giudice delegato, induce ad operare alcune riflessioni in ordine alla esigenza che l'atto del curatore sia autorizzato - come sembra indiscutibile - dal comitato dei creditori e se esso lo si debba ritenere di ordinaria o straordinaria amministrazione e, pertanto, se i poteri del curatore debbano essere integrati secondo la previsione di cui all'

art.

35 l.

f

all.

, con conseguente formulazione, da parte di questi, delle relative conclusioni sulla convenienza della proposta ed ancora, se sussisterà l'obbligo per il curatore di informare il giudice delegato “previamente qualora il valore dell'indennizzo risulti essere superiore a cinquantamila euro pur in presenza dell'autorizzazione del comitato dei creditori (In tal senso, Fimmanò, Gli effetti del fallimento sull'affitto di azienda preesistente, in Contratti in esecuzione e fallimento, nella Collana La riforma fallimentare diretta da Panzani, a cura di Di Marzio F., Milano, 2007, 229; Giovetti, Commento all'

art.80-bis r.d.16.3.1942, n. 267,

in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Iorio, Bologna, 2006, 1293; in senso contrario, Martone C., Locazione e affitto, in I contratti in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, a cura di Gugliemucci, Padova, 2006, 377)

Le conseguenze, sotto il profilo economico, correlate alla scelta operata dal curatore, sono ovviamente diverse a seconda che sia stato dichiarato il fallimento del concedente, ovvero dell'affittuario, dal momento che, nel primo caso, esse non coincidono solo con la perdita dei canoni previsti nel contratto, ma anche sono date dalla misura dell'equo indennizzo che va corrisposto in prededuzione, sicchè la scelta di esercitare il diritto potestativo di recesso non sarà affatto condizionata dalle clausole contrattuali, che potranno costituire motivo di aggressione del negozio quante volte l'atto dispositivo risulti essere sproporzionato ovvero, comunque, concluso in periodo sospetto, ed il curatore possa provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del concedente.

Deve, difatti, ritenersi che, al di là della ipotesi ora tratteggiata, la decisione di sciogliersi dal contratto dovrebbe trovare una sua giustificazione nella ritenuta opportunità, da parte del curatore, di chiedere la autorizzazione alla continuazione temporanea dell'esercizio dell'attività di impresa ed assumere, quindi, i rischi economici ad essa correlati; il che lascia ritenere che, ben difficilmente, questi opterà per l'esercizio del diritto potestativo, ben potendo, attraverso il contratto di affitto, ottenere quella finalità conservativa dei valori di funzionamento dell'azienda in grado di assicurare una migliore liquidazione nell'interesse dei creditori concorrenti.

Il curatore indirizzerà diversamente le proprie scelte qualora il contratto di affitto abbia una durata eccessiva in relazione alle esigenze di celerità di conclusione della procedura e, naturalmente, di ciò dovrà far partecipe il comitato dei creditori, ovvero il giudice delegato, chiamato a pronunciarsi ai sensi dell'

art. 41, comma

4,

l.

f

all.

, formulando le conclusioni al riguardo (

art. 35, comma

2

, l.

f

all.

) nel richiedere l'autorizzazione.

I parametri per la determinazione dell'equo indennizzo cui far riferimento sono rappresentati dalla durata del contratto e, nel caso in cui a sciogliersi sia l'affittuario, è dato dal mancato guadagno dei canoni maturandi in ragione della durata residua, senza che l'indennizzo coincida con essi, avendo ritenuto il legislatore di dover limitare il risarcimento, tanto che, altrimenti, questi non avrebbe fatto riferimento al criterio dell'equità quante volte esso avrebbe dovuto essere integrale.

La sorte dei contratti in corso: i rapporti di lavoro

Sotto il profilo delle conseguenze deve tenersi conto, peraltro, oltre che degli obblighi che in via diretta discendono dall'esercizio del diritto potestativo di recesso, anche di quelli indiretti conseguenti alla sorte dei contratti in essere.

L'

art. 79 l. fall.

non chiarisce, difatti, quale sorte debba essere riservata ai contratti in corso inerenti l'esercizio dell'attività di impresa, qualora l'apertura della procedura concorsuale non riguardi l'affittuario e, in particolare, se per quelli di lavoro si avrà retrocessione alconcedente, come invero deve ritenersi in applicazione del costante orientamento, in proposito, della Suprema Corte (in dottrina Spano, Il trasferimento di azienda, affitto e cessione delle procedure concorsuali, in Dir.fall., 1994, II, 1193; Caiafa A., I rapporti di lavoro nelle crisi di impresa, Padova, 2004, 88).

In particolare, i giudici di legittimità, chiamati ad individuare il momento di raccordo tra la fase di accesso e quella di uscita dal rapporto di affitto, hanno ritenuto ricorrere l'ipotesi della retrocessione tutte le volte che la sostituzione tra i due soggetti titolari del rapporto negoziale avvenga senza soluzione di continuità, così come, d'altronde, accade qualora il proprietario, a seguito della risoluzione del contratto di affitto, rientri nel possesso dell'azienda per trasferirla ad altri (Cass., 21 maggio 2002, n.7548; Corte di Giustizia, 15 giugno 1988, n.101/87; Trib. Milano, 4 luglio 2001).

Laddove, pertanto, la procedura concorsuale venga aperta a carico del concedente, in applicazione dei principi sin qui illustrati, e della cui validità non può dubitarsi, attesa l'autorevolezza dell'insegnamento, si avrà la retrocessione dei rapporti di lavoro pendenti e, tra questi, di quelli di lavoro, al curatore, la cui decisione di sciogliersi dal contratto di affitto non potrà che essere conseguenza della valutata convenienza di procedere, pur se con l'autorizzazione del giudice delegato, alla continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa, o di quello specifico ramo, ai sensi dell'

art.

104, comma

2

, l.

f

all.

E difatti, poiché l'affitto costituisce una condizione transitoria, e non già definitiva, e determina, peraltro, una sostituzione soggettiva nella titolarità del complesso aziendale, per effetto della retrocessione dell'azienda, potrà aversi la conclusione di una successiva vicenda circolatoria, temporanea o definitiva, attraverso la quale la gestione risulti affidata ad un altro soggetto, e senza che l'eventuale spazio temporale possa implicare alcuna variazione organizzativa nell'utilizzo del complesso dei beni organizzati, in funzione dell'esercizio dell'attività cui essi erano, originariamente, destinati.

E' evidente che nell'ipotesi ora considerata si avrà una automatica successione nel contratto di lavoro, con conseguente responsabilità per i debiti da esso nascenti, situazione questa diversamente regolata dal legislatore allorché l'affitto dell'azienda, o di rami di essa, venga concluso dal curatore una volta aperta la procedura concorsuale.

L'interesse alla conservazione del posto viene ad assumere significativa rilevanza qualora non sia possibile, a seguito dello scioglimento del contratto, per il curatore, realizzare una nuova vicenda traslativa, temporanea o definitiva, in tempi tali da consentire la successione dei rapporti, senza soluzione di continuità, e ciò in quanto questi, nella ricorrenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi - indicati dall'

art.

3

l.

n.

223 del 1991

, per come modificato dall'

art.

46-

bis

del d.l. n.

83 del 2012

, che è intervenuto sull'

art.

2, comma

70

,

l.

n.

92 del 2012

- deve ora richiedere il trattamento di integrazione salariale quante volte “sussistano prospettive di continuazione o ripresa dell'attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione.

Il curatore sarà, dunque, tenuto a presentare la domanda, che fa scattare, immediatamente, il procedimento di concessione, essendo stata modificata dal legislatore la procedura dei licenziamenti per le imprese fallite aventi i requisiti per accedere all'intervento straordinario.

L'art. 3 regola, difatti, il beneficio della integrazione salariale nei casi in cui le procedure concorsuali siano entrate nella fase liquidatoria, nel tentativo di agevolare la ripresa produttiva, attraverso il successivo trasferimento del complesso aziendale, che peraltro può giustificare la richiesta di proroga, su domanda del curatore, corredata da una relazione "...approvata dal giudice delegato"

(art. 3, secondo comma), requisito oggi richiesto anche dallo stesso primo comma per poter presentare la domanda.

Conclusivamente:

Le conclusioni, sin qui in estrema sintesi ricostruite, discendenti dall'esercizio del diritto potestativo di scioglimento del contratto, lasciano ritenere, fondatamente, essere condizionato esso da una attenta valutazione degli oneri correlati ad una siffatta scelta, anche in termini di costi sociali, quante volte il curatore non sia in grado di assicurare la continuità aziendale e si trovi a dover richiedere per il personale, nel cui rapporto di lavoro subentrerà a seguito della c.d. vicenda regressiva, il trattamento integrativo concorsuale, rappresentando l'esistenza di quelle prospettive di continuazione dell'attività che, difficilmente, potranno essere giustificate dalla operata scelta di consentire la prosecuzione attraverso il subentro nel contratto di affitto.

Ben diversa è la situazione qualora nessuna delle parti receda, nel termine previsto di sessanta giorni, dal contratto di affitto e, quindi, questo prosegua, senza soluzione di continuità, sino alla sua naturale scadenza, dal momento che qualora sia stato dichiarato il fallimento del concedente, il curatore, allo spirare del termine del concluso contratto di affitto, una volta verificatasi la retrocessione dei rapporti, non potrà richiedere, nei confronti del personale che passerà alle sue dipendenze, il trattamento di integrazione salariale previsto dall'

art. 3, comma

1

,

l.

n. 223 del 1991

, in quanto diretto, esso, a disciplinare le conseguenze derivanti dall'apertura della procedura concorsuale sui rapporti pendenti, al momento dell'intervenuta dichiarazione di fallimento, e per il periodo di dodici mesi da tale evento, e non già su quelli proseguiti con l'affittuario o da questi instaurati e, poi, trasferiti al concedente (Villani, Relazioni industriali e procedure concorsuali, Torino, 1996, 198).

Ne deriva, pertanto, che qualora il rapporto si dovesse risolvere e non fosse, quindi, possibile trasferire, contestualmente, l'azienda ad altri, il curatore si verrà a trovare nella situazione di dover subentrare nei rapporti di lavoro, ferma rimanendo, tuttavia, l'impossibilità per questi di richiedere il trattamento di integrazione salariale, per l'evidente assenza, ormai, dei presupposti individuati dalla norma (

art. 3,

commi 1 e 2

,

l.

n.

223 del 1991

).

Naturalmente, perché la retrocessione dall'affittuario al concedente, in conseguenza dello scioglimento, possa configurare una vicenda traslativa, ai fini previsti dagli artt. 2112, 2558 e 2560 c.c., è necessaria la oggettiva materiale restituzione del complesso dei beni organizzato per l'esercizio dell'attività di impresa, non essendo sufficiente né lo scioglimento, così come lo spirare del termine, che, in sé, non comporta la prevista sostituzione soggettiva nella gestione dell'azienda.

La retrocessione, ancora, nei termini ora riferiti, opera solo con riguardo ai rapporti di lavoro in corso in quel momento e non anche per quelli in precedenza risolti, anche se le obbligazioni da questi nascenti determino una responsabilità solidale.

E', però, evidente che il rapporto deve essere stato legittimamente risolto prima della retrocessione, dal momento che, diversamente, questo è destinato a proseguire ope legis con il concedente, cui faranno carico le conseguenze stesse derivanti dall'illegittimo recesso (

Cass., 10 dicembre 1986, n.7338

).

Ove, pertanto, il rapporto sia assistito dalla tutela reale, ancorché la risoluzione sia intervenuta prima della retrocessione, la pronunciata reintegrazione, in conseguenza dell'accertata invalidità, inefficacia, nullità o illegittimità del recesso, è destinata a spiegare i suoi effetti anche in danno del concedente, con il quale il rapporto proseguirà senza soluzione di continuità indipendentemente dalla conoscenza dell'esistenza di esso, ciò per effetto della sua ricostituzione di diritto, in quanto giuridicamente mai venuto meno (Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell'azienda, nel Commentario al codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, 1993, 165).

Ne consegue che ove la vicenda traslativa

si realizzi nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, intimato in data anteriore al trasferimento per ragioni non connesse ad essa ed ignote al concedente, attese le conseguenze derivanti dalla retrocessione, gli effetti della decisione lo vincoleranno, ai sensi dell'

art.

111, comma

4, c.p.c

.

, laddove, al contrario, ove la retrocessione sia avvenuta dopo la formazione del giudicato, questi ne rimane vincolato ai sensi dell'

art.

2909 c.c

.

Diverse, ancora, le conseguenze qualora il rapporto sia assistito, al contrario, da stabilità obbligatoria, dovendosi distinguere, in tal caso, a seconda che il recesso sia stato intimato per ragioni che hanno determinato l'annullamento, per inesistenza del dedotto giustificato motivo soggettivo o dell'indicata giusta causa o, ancora, in ragione di un vizio specifico che ne ha determinato la nullità o inefficacia.

Ed infatti, nel primo caso il recesso ha estinto il rapporto e, pertanto, non può ritenersi pendente al momento dell'attuata vicenda circolatoria, con la conseguenza, quindi, che la relativa condanna, in via alternativa, alla riassunzione o al risarcimento, può essere pronunciata solo nei confronti dell'imprenditore che ha attuato il recesso.

Nel secondo caso, al contrario, in applicazione dei principi generali, il rapporto deve considerarsi come mai interrotto, sicchè il concedente sarà tenuto alla corresponsione della retribuzione sino a quando il rapporto non verrà validamente risolto.

E', pertanto, fondamentale, nel caso della tutela obbligatoria,

la qualificazione giuridica del vizio che colpisce l'atto di recesso (

Cass., Sez.

Un., 18 maggio 1994, n.4844

).

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