Trasferimento di ramo d'azienda e ammissione al passivo della quota di TFR maturata alle dipendenze della società fallita

Aldo Fittante
25 Settembre 2013

Il tema dell'ammissione al passivo fallimentare di crediti relativi alle quote del trattamento di fine rapporto maturate dai lavoratori alle dipendenze della società fallita, in caso di trasferimento di ramo d'azienda, appare sempre più centrale nella prassi operativa. L'Autore analizza, quindi, gli aspetti più problematici della materia, relativi all'individuazione dell'insorgenza del diritto dei lavoratori a percepire la quota di TFR, e all'intervento del Fondo di Garanzia dell'Inps, soffermandosi, infine, sull'ipotesi di cessione di ramo d'azienda successiva alla dichiarazione di fallimento.
La giurisprudenza sull'obbligo di versamento del TFR in caso di cessione di ramo d'azienda

Recentemente, e sempre con maggiore frequenza, i Tribunali si trovano ad affrontare la questione dell'ammissione al passivo fallimentare del credito relativo al trattamento di fine rapporto dei lavoratori il cui rapporto di lavoro non sia cessato a causa del trasferimento del ramo di azienda.

Anzitutto, deve rilevarsi che, secondo la più recente giurisprudenza, in caso di cessione del ramo di azienda assoggettata al regime di cui all'

art. 2112 c.c.

, posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale.

Il datore di lavoro cessionario

, invece, è obbligato per la medesima quota in forza di un vincolo di solidarietà, e rimane unico obbligato in ordine alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione (

Cass. 22 settembre 2011,

n. 19291

).

Tale giurisprudenza ha superato un precedente orientamento secondo cui, a norma dell'

art. 2112 c.c.

nel testo vigente anteriormente alla modifica di cui all'

art. 32

d.lgs. n. 276/

2003

, poiché i rapporti di lavoro con i dipendenti proseguono con il cessionario o con l'affittuario, questi ultimi debbono considerarsi unici debitori del trattamento di fine rapporto, anche per il periodo passato alle dipendenze del precedente datore di lavoro, atteso che solo al momento della risoluzione del rapporto matura il diritto del lavoratore al suddetto trattamento, del quale la cessazione del rapporto è fatto costitutivo. Una cosa è, infatti, il diritto del lavoratore ad ottenere le necessarie informazioni sulle quote (e sulle componenti) del trattamento da accantonare, altra cosa è il diritto del medesimo lavoratore a conseguire l'emolumento (o parte dello stesso, nei casi previsti dai commi sesto e seguenti dell'

art. 2120 c.c.

), dal momento che l'accantonamento delle quote, opportunamente rivalutate, è uno strumento solo contabile, che non vale a mettere a disposizione del dipendente la somma relativa (cfr.

Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548

e

Cass. 27 agosto 1991, n. 9189

; v. pure, in generale, in ordine al giorno di maturazione del diritto al trattamento,

Cass. 19 gennaio 2000, n. 600

).

La più recente giurisprudenza sembrerebbe accogliere, dunque, il principio secondo cui il diritto del lavoratore in ordine alla quota di tfr

dovuta dall'azienda cedente matura con il trasferimento del ramo di azienda senza che sia necessaria la cessazione del rapporto di lavoro presso il cessionario. In particolare, secondo tale orientamento la tesi che nega la maturazione di alcuna pretesa del lavoratore, quanto al trattamento di fine rapporto, prima della cessazione del rapporto di lavoro sarebbe errata in quanto contrasta con il meccanismo di accantonamento previsto dall'

art. 2120 c.c.

, che permette di ravvisare diritti soggettivi del lavoratore anche nel corso del rapporto, tutelati sia con l'azione di mero accertamento, sia con l'azione di condanna al pagamento delle anticipazioni permesse dallo stesso

art. 2120 c.c.

(

Trib. Torino

,

5 marzo 2010

).

In altri termini,

ciascuna delle due tesi trova fondamento nel diverso modo di individuare l'insorgenza del diritto.

In ipotesi di trasferimento di azienda, nel caso in cui si sposi la tesi secondo la quale il TFR è un diritto che nasce al momento della cessazione del rapporto di lavoro, in quanto il lavoratore prima di tale momento si trova in una condizione di aspettativa, vi risponde unicamente il datore di lavoro acquirente (cessionario) in quanto il diritto al TFR si perfeziona a trasferimento già verificato.

In caso, invece, di accoglimento dell'altra tesi, secondo la quale il TFR sorge con la costituzione del rapporto di lavoro, matura con lo svolgimento e diventa esigibile con la cessazione del rapporto stesso, il lavoratore in caso di trasferimento di azienda sarà garantito, per la quota di TFR maturata nel periodo precedente la data del trasferimento, dalla responsabilità solidale dell'alienante e dell'acquirente.

L'obbligo di versamento del TFR in sede di procedura concorsuale

A questo punto si pone l'interrogativo se, accogliendo la tesi sostenuta dal più recente orientamento giurisprudenziale, possa essere ammessa allo stato passivo di una procedura fallimentare della società cedente la quota di TFR maturata presso quest'ultima prima del trasferimento del ramo di azienda.

Sul punto è interessante richiamare una pronuncia del Tribunale di Roma (

Trib. Roma, 30 dicembre 1998, n. 12680

) che, alla luce di una specifica contestazione da parte della procedura convenuta circa l'impossibilità di dare luogo ad accertamenti potenziali dei crediti in sede di verifica, ha osservato che la normativa fallimentare appare ben precisa nell'indicare che la domanda di ammissione al passivo, in sede di verifica dei crediti, può essere proposta soltanto da chi vanta un credito nei confronti dell'imprenditore soggetto alla procedura concorsuale, ma non limiterebbe la possibilità alla condizione che il credito sia immediatamente esigibile. Quanto al TFR (

Cass.

17 novembre

1989, n

.

4933

), esso sarebbe esigibile soltanto al momento della cessazione del rapporto di lavoro; pertanto, secondo il Tribunale di Roma, ben può il lavoratore essere ammesso allo stato passivo per il TFR che si ritenga dovuto, anche se il rapporto non sia cessato, ferma restando l'inesigibilità immediata del proprio credito.

Secondo una tale impostazione, qualora fosse impedito al lavoratore di far valere nei confronti della procedura concorsuale il proprio credito per TFR fino alla cessazione del rapporto, sarebbe sostanzialmente elusa la normativa sulla responsabilità solidale in materia di obbligazioni, in quanto il creditore perderebbe la facoltà, in caso di chiusura della procedura concorsuale prima della cessazione del rapporto di lavoro, di far valere un suo diritto, nonché la possibilità di scegliere su chi far valer il diritto maturato in ordine alla quota di TFR. Sarebbe, inoltre, falsata la verifica del passivo dell'impresa insolvente in quanto un debito, sia pur solidale, ma certo, non verrebbe iscritto al passivo.

In altri termini, come osservato dal Tribunale di Roma, ben potrebbe essere nel contempo accertato il credito, facendo salva in un

secondo momento la possibilità per il lavoratore di ottenere l'assegnazione o solo l'accantonamento delle somme dovute e ripartite.

Sul tema non può non richiamarsi una recente sentenza della Suprema Corte (

Cass. 23 marzo 2012 n. 4736

) la quale (in ipotesi di cessione del ramo di azienda sottoscritto dalla curatela del fallimento) ha avuto modo di osservare che il credito da TFR maturato fino al momento della vendita dell'azienda “non solo è passibile di immediata azione di accertamento verso il datore di lavoro cedente (che, nel regime ordinario dell'

art. 2112 c.c.

, resta obbligato per la quota di sua spettanza, salva la solidarietà del cessionario) - pur se esigibile dopo la futura cessazione rapporto di lavoro subordinato che funge da termine per l'adempimento – ma, per di più, è azionabile contro il cessionario solo se risulti dallo stato passivo del fallimento del dante causa (

Cass.

23 novembre 2009 n. 24

635

;

Cass., 13 novembre 2009, n. 24

098

)”.

Tale pronuncia sembra pertanto aver fissato due importanti principi.

  • In primo luogo, il credito del lavoratore avente ad oggetto la quota di TFR maturata presso l'azienda cedente, pur se esigibile dopo la cessazione del rapporto, è comunque azionabile in via di mero accertamento.

  • In secondo luogo, con la pronuncia in esame la Cassazione sembra estendere l'applicazione del principio - sino ad oggi ristretto all'ipotesi di liquidazione coatta amministrativa di un istituto di credito e di cessione delle attività e passività o dell'azienda ad altro istituto - in forza del quale il credito dei lavoratori dipendenti avente ad oggetto il trattamento di fine rapporto maturato fino al momento della cessione (possibile oggetto d'una azione di accertamento ed esigibile solo alla futura cessazione del rapporto, salve le eccezioni di cui all'

    art. 2120 c. c., commi

    dal 6 all'11) può essere fatto valere in giudizio contro l'istituto cessionario solo se lo stesso credito, ai sensi dell'art. 90 del

    D.Lgs. n. 385 del 1993

    , risulti dallo stato passivo.

L' intervento da parte del Fondo di Garanzia dell'INPS

E' altresì opportuno chiedersi se il Fondo di Garanzia istituito dall'Inps possa intervenire in merito alla quota di tfr

maturata presso il soggetto fallito fino alla data di trasferimento del ramo di azienda.

Volendo corrispondere alle esigenze di tutela nei riguardi dei lavoratori, oltre che a quelle di adeguamento dell'ordinamento giuridico interno alle disposizioni dell'Unione europea, il

D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80

(di attuazione della

direttiva Cee n. 987/80

), prevede, per il lavoratore dipendente di impresa fallita, il diritto di chiedere al fondo di garanzia, istituito presso l'Inps dalla

legge 29 maggio 1982, n. 297

, il pagamento del TFR e di altri crediti di lavoro non corrisposti (mensilità, festività, ferie non godute ecc.) relativi agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo, rientranti nei dodici mesi precedenti la dichiarazione di fallimento. Per ottenere il pagamento dal fondo, il credito deve essere stato accertato, nel suo esatto ammontare, secondo le modalità e le regole del “concorso formale e sostanziale”. L'importo da erogare non può, comunque, essere superiore a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile, al netto delle trattenute previdenziali e non può essere cumulato con altri importi (retribuzioni, indennità ecc.), così come previsto dal

D.Lgs. n. 80/1992.

Ebbene, con specifico riguardo alla tematica in esame, una interessante pronuncia del Tribunale di Pistoia (10 settembre 2007, n. 827) ha stabilito il principio secondo cui

il Fondo di Garanzia non può intervenire allorquando il rapporto di lavoro non sia cessato.

In particolare, il Giudice ha osservato che l'istituzione del Fondo di Garanzia ha il preciso

scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso d'insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all'

art. 2120 del codice civile

, spettante ai lavoratori o loro aventi diritto.

È, dunque, evidente che il primo e sostanziale presupposto che giustifica l'intervento dell'ente pubblico (e quindi l'impiego di risorse pubbliche) per fronteggiare in tempi ragionevolmente rapidi l'esigenza del lavoratore di poter disporre delle somme che non ha conseguito a causa dell'insolvenza del datore di lavoro, è proprio la cessazione del rapporto, quale che ne sia la causa (

art. 2120 c.c.

).

L'art. 2 sopra citato, inoltre, pone a carico del lavoratore l'onere di insinuarsi nel passivo del datore di lavoro (quando, come nella specie, quest'ultimo sia assoggettato alle disposizioni della

legge fallimentare

) e individua, ai fini della proposizione della domanda al Fondo, il termine dilatorio di quindici giorni decorrenti dal deposito dello stato passivo, reso esecutivo ai sensi dell'

art. 97 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267

, ovvero dalla pubblicazione della sentenza di cui all'art. 99 dello stesso decreto, per il caso siano state proposte opposizioni o impugnazioni riguardanti il suo credito, ovvero dalla pubblicazione della sentenza di omologazione del concordato preventivo.

Tale onere di attivarsi all'interno della procedura endo-fallimentare di accertamento dei crediti rappresenta, nel sistema normativo delineato dall'art. 2 cit., condizione necessaria, al fine di consentire all'INPS, una volta che abbia versato al lavoratore le somme pretese, di surrogarsi di diritto al lavoratore o ai suoi aventi causa nel privilegio spettante sul patrimonio dei datori di lavoro ai sensi degli

artt. 2751-

bis

e

2776

c.c.

per le somme da esso pagate.

Cessione di ramo d'azienda successiva alla dichiarazione di fallimento

Infine, merita un breve cenno l'ipotesi della cessione del ramo di azienda successiva alla dichiarazione di fallimento.

A tal riguardo negli

artt. 104-

bis

,

104-

ter

,

105

l. fall

. sono contenute alcune delle più importanti innovazioni del nuovo diritto fallimentare. Per la prima volta è entrata espressamente nell'ordinamento concorsuale la possibilità di effettuare l'affitto dell'azienda, che già la prassi aveva imposto come uno dei modelli più efficaci per conservare il valore residuo dell'impresa in crisi.

Le esigenze di continuità aziendale hanno indotto il legislatore a prevedere che il curatore possa stipulare il contratto di affitto d'azienda anche prima di avere predisposto il programma di liquidazione dell'attivo di cui all'

art. 104-

ter

.

l. fall

.

Il curatore propone l'affitto dell'azienda al giudice delegato dopo avere acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori. Il giudice lo autorizza con proprio decreto. La stima del canone da richiedere spetta al curatore. L'affitto dell'azienda può riguardare anche singoli rami e deve essere giustificato con il fatto che sia strumentale ed utile ad una più proficua valorizzazione della azienda, o di suoi rami, che successivamente devono essere alienati.

Il curatore non può procedere alla scelta dell'affittuario sulla base di una trattativa privata, ma deve tenere conto del disposto di cui all'

art. 107

l. fall

. che regola, in modo più snello che nel passato, le modalità di vendita dei beni fallimentari.

Egli quindi deve assicurare adeguate forme di pubblicità in modo che sia raggiunto il massimo numero di possibili interessati. Sebbene il criterio generale previsto dall'

art. 107

l. fall

. sia sempre quello della procedura competitiva, non è solo la migliore offerta sulla misura del canone d'affitto che deve essere tenuta in considerazione durante il procedimento di assegnazione, ma anche le garanzie prestate, il business plan dell'affittuario con specifico riguardo all'azienda locata e soprattutto la conservazione dei livelli occupazionali.

Ai fini che più interessano in questa sede va ricordato l'ultimo comma dell'

art. 104-

bis

l. fall

., il quale

regola il caso della retrocessione dell'azienda al curatore e, quindi, alla procedura fallimentare. Con evidente eccezione alla regola generale in tema di circolazione delle aziende, viene previsto che i debiti sorti durante il tempo in cui l'azienda è stata locata non la seguono, ma rimangono in capo all'affittuario. Ciò in esplicita deroga agli

artt. 2112

e

2560 c.c.

(il primo dei due articoli, come è noto, regola il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento dell'azienda).

Il fatto che la norma richiami solo i debiti porta a ritenere che i debiti per stipendi e TFR maturati durante l'affitto d'azienda rimangono dunque in capo all'affittuario, mentre il lavoratore continua il proprio rapporto di lavoro con l'azienda anche in caso di retrocessione al curatore.

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