La responsabilità civile dell’attestatore nel fallimento

Danilo Galletti
11 Marzo 2013

Le leges artis, già codificate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, all'interno del documento del 2006, nel successivo documento divulgato dal CNDEC nel febbraio del 2009, e poi nel 2010, codificano il sapere “tecnico” degli operatori quanto alla “tecnica” di redazione delle attestazioni (Riva, L'attestazione dei piani delle aziende in crisi, Milano, 2011, passim).
I presupposti della responsabilità civile dell'attestatore

Le leges artis, già codificate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, all'interno del documento del 2006, nel successivo documento divulgato dal CNDEC nel febbraio del 2009, e poi nel 2010, codificano il sapere “tecnico” degli operatori quanto alla “tecnica” di redazione delle attestazioni (

Riva

, L'attestazione dei piani delle aziende in crisi, Milano, 2011, passim

).

La loro violazione appare altamente indiziante circa la violazione da parte dell'esperto dei doveri a lui riconducibili, siccome idonea a far presumere che il comportamento del redattore fosse da ritenersi “negligente” o comunque “imperita” ai sensi dell'

art. 1218 c.c.

L'attività professionale svolta dagli attestatori configura in realtà non un'obbligazione di mezzi, come spesso si ritiene, bensì di risultato.

Il professionista infatti assume con la consulenza un obbligo di informare attivamente il cliente circa i rischi e soprattutto gli ostacoli che impediscano la realizzabilità del risultato prospettato o “sperato” (

Cass., 14 novembre 2002, n. 16023

); tale obbligo è sicuramente suscettibile di estensione all'attestatore.

Anche la distinzione fra obbligazione di mezzi e di risultato, enfatizzata spesso dalla letteratura, è oggetto di un evidente ripensamento da parte della giurisprudenza più recente (

Cass., Sez. Un.,

11 gennaio 2008, n. 577

;

Cass., Sez. Un., 28 luglio 2005

, n. 15781

), la quale ha superato in modo deciso la distinzione, di matrice dogmatica francese ed abbastanza fuorviante (non esiste infatti prestazione che non abbia per oggetto un “risultato”, benché in taluni casi quest'ultimo possa coincidere con l'approntamento di un apparato strumentale idoneo al conseguimento di un risultato ulteriore, cfr.

Mengoni

, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi [studio critico], in Riv. dir. comm., 1954, I, 274 ss.

).

E così pure per la limitazione della responsabilità “professionale” derivante dall'

art. 2236 c.c.

, che nell'applicazione giurisprudenziale ormai stratificata non trova applicazione ai casi di negligenza/imprudenza, né ai casi di responsabilità extracontrattuale, e comunque presuppone la prova certa da parte del debitore della ricorrenza nel caso di specie di quelle ragioni specifiche che giustificano l'attenuazione del regime di responsabilità (

Cass., 22 aprile 2005, n. 8546; in dottrina Marino, Accordi di ristrutturazione dei debiti e responsabilità del professionista attestatore, in La resp. civ., 2012, 502

).

In un'attività caratterizzata da un'intensa procedimentalizzazione, grazie alla “codificazione” delle regole tecniche da parte degli organismi di categoria, vedo scarsi spazi per l'operatività concreta dell'

art. 2236 c.c.

(anche in conseguenza della gravità dell'inadempimento); ed in ogni caso spesso il comportamento dell'attestatore è caratterizzato più dai tratti della negligenza/imprudenza che della semplice imperizia.

Come è noto, incombe poi sui convenuti in responsabilità l'onere di dimostrare di aver adempiuto ai propri doveri, dimostrando quali specifici fatti lo abbiano reso impossibile; alla Curatela spetta solo provare il titolo, il danno ed il nesso eziologico fra condotta e pregiudizio (

Cass., 11 novembre 2010, n. 22911; conf. Cass., 29 ottobre 2008, n. 25977

), sulla base dei noti principi generali (

art. 1218 c.c.

), anche come interpretati dalle Sezioni Unite (

sent. 30 ottobre 2011, n. 13533

).

Infine, circa il nesso di causalità, l'applicazione giurisprudenziale più accreditata (

Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, nn. 576-577-581-582-583-584

) reputa utilizzabile il criterio della causalità “naturale”, soltanto temperata in alcuni casi dallo “scopo della norma violata”, per cui le conseguenze addossabili all'agente sono tutte quelle prevedibili ex ante secondo la miglior scienza ed esperienza, e dunque in termini rigorosamente oggettivi, non già secondo le propensioni soggettive o la capacità previsionale dell'agente.

La conseguita prova positiva della deviazione dagli standards tecnici di condotta fa inoltre presumere la responsabilità.

In letteratura (

Zanichelli

, La responsabilità civile del professionista e dell'attestatore, in Il ruolo del professionista nei risanamenti aziendali, a cura di Guiotto e Fabiani; Milano, 2012, 436 ss.; Munari

, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, Milano, 2012, 359 s.

) si rinviene non di rado l'affermazione per cui se il concordato viene ammesso dal Tribunale, nonostante la deviazione della relazione dal modello legale, e viene poi revocato, o comunque se esso non consegue l'effetto omologatorio, ma si imputa all'attestatore precipuamente di aver rilasciato una relazione positiva in carenza dei requisiti, la responsabilità dello stesso dovrebbe risultare attenuata od addirittura “assorbita” dal ruolo causale determinante del Giudice.

Tale ultimo aspetto viene altresì spesso considerato di efficacia proporzionale all'ampiezza del controllo esercitabile dallo stesso, efficacia esimente che aumenterebbe nel caso fosse legittimato un controllo “di contenuto”, se del caso esteso anche alla fattibilità del piano concordatario.

Prescindendo da tale ultima questione giuridica, che ci condurrebbe assai lontano, non mi pare che tali conclusioni siano condivisibili, alla luce della sistematica generale del diritto della responsabilità civile.

L'asserto viene sostenuto in realtà fondandosi ora sulla rilevanza dell'

art. 2236 c.c.

, per cui la violazione che sfuggisse al controllo giudiziale in fase di ammissione non potrebbe essere agevolmente considerata “grave”; ora sul ruolo “assorbente” dell'operato del Giudice sotto il profilo della selezione degli antecedenti concausali.

Ma il ruolo sistematico dell'

art. 2236 c.c.

appare assai più limitato di quanto si tenda a credere, alla luce di quanto si diceva sopra; e la normale equivalenza degli antecedenti concausali nella teoria della causalità giuridica fa sì che non si possa semplicemente elidere il ruolo dell'attestatore nella causazione del danno soltanto perché il Tribunale eserciti un controllo che non consegua l'esito sperato, anche al limite in forza della superficialità del controllo stesso (

Trib. Roma, 13 marzo 2012

).

D'altro canto il giudizio di ammissione è caratterizzato dall'assenza per il Giudice di qualsiasi assistenza tecnica qualificata, ottenibile soltanto in forza della nomina del Commissario.

E proprio la nomina del Commissario consente spesso di svelare non soltanto la difformità della relazione dal modello legale tipico, bensì anche le omissioni di contenuto nel lavoro degli attestatori, e la falsità di taluni fatti rilevanti assunti nell'attestazione in modo acritico.

La legittimazione ad agire del curatore fallimentare

Non può nascondersi tuttavia come sia potenzialmente critica la questione della legittimazione del curatore fallimentare ad azionare in giudizio tali responsabilità.

E' da escludersi che il Curatore possa vantare espressamente in giudizio il danno subito dalla Massa creditoria in sé, come lesione del diritto al riparto cagionata attraverso il danneggiamento del patrimonio della società debitrice.

Tale assunto infatti urterebbe contro la struttura e l'assetto dei poteri conferiti al Curatore nella

legge fallimentare

, ove la legittimazione “sostitutiva” del primo, rispetto alle azioni normalmente spettanti ai creditori (qualunque sia la loro qualificazione, in termini extracontrattuali o contrattuali), è specifica ed eccezionale (arg. ex

artt. 66-146 l.

f

all

., 2497 ult. cpv. c.c.), e quindi insuscettibile di estensione analogica.

A tale conclusione d'altro canto è già giunta la S.C. (

Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, nn. 7029

-

7030

-

7031

;

Cass., 9 luglio 2008, n. 18832

;

Cass.,

S

ez. Un

., 18 maggio 2009, n. 11396

;

Cass., 3 giugno 2010, n. 13465

; App. Bari, 17 giugno e 2 luglio 2002; Trib. Monza, 31 luglio 2007. In dottrina cfr. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004, passim, spec. 180 ss.), quanto al danno da c.d. abusiva concessione del credito, e l'orientamento non mi pare, sotto questo specifico aspetto, reversibile.

Diversa potrebbe essere, a mio avviso, la soluzione qualora si prospettasse la pretesa azionata in giudizio come diritto al risarcimento del danno subito dalla società decotta, per effetto dei comportamenti posti in essere dagli attestatori, che hanno concorso a cagionare una diminuzione patrimoniale (

Esposito, La legittimazione del curatore fallimentare all'esercizio delle azioni per danni da abusiva concessione del credito: una breve analisi dei percorsi possibili, in Fall., 2006, 1128 ss.

). La situazione pertanto si atteggerebbe in modo non troppo diverso da quanto avviene quotidianamente nelle azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci, ove il curatore può ben reclamare il diritto della società al ristoro del danno inferto al patrimonio sociale, per effetto del compimento di “nuove operazioni” (rectius, di atti non conformi all'esigenza di conservare il patrimonio dopo l'insorgere di una causa di scioglimento).

Anche tale ipotesi ricostruttiva tuttavia incontra forti resistenze nella letteratura, e parrebbe altresì esclusa da un obiter dictum della stessa citata sentenza delle Sezioni Unite, la quale ha osservato come alla causazione del danno partecipi consapevolmente la società che poi lamenterebbe il danno (stavolta rappresentata e/o “sostituita” dal Curatore), attraverso l'operato dei suoi organi, che non può esserle integralmente imputato tramite il nesso di immedesimazione organica.

Dovrebbe escludersi altresì la possibilità di fare applicazione dell'

art. 1227 c.c.

, poiché il danneggiato avrebbe così concorso consapevolmente alla produzione dell'evento lesivo, mettendo fuori gioco qualsiasi bilanciamento fra colpe.

In considerazione tuttavia del fatto che un medesimo evento di danno (nella specie, diminuzione del patrimonio sociale e conseguente depauperamento della garanzia patrimoniale) può essere il frutto dall'azione concomitante di diversi soggetti che, anche a diverso titolo ed involontariamente, vi abbiano concorso (cfr.,

art. 2055 cod. civ.

), la condotta dell'istituto di credito (come di qualsiasi altro soggetto) che illecitamente abbia contribuito alla diminuzione del patrimonio sociale ben può concorrere con il colpevole operato degli amministratori della società stessa.

L'applicazione dei principi in materia di corresponsabilità nella causazione del fatto lesivo altrui (

art. 2055 c.c.

) e di lesione del credito (in specie, rispetto alla c.d. induzione all'inadempimento) possono e, mi sembra, debbono trovare applicazione nella fattispecie, non potendo il danneggiante eccepire nei confronti della società il concorso anche doloso del fatto dei suoi organi (amministratori), se non al fine di far valere un eventuale concorso, stavolta colposo ma della società,

ex

art. 1227 c.c.

, derivante dalla omessa vigilanza sull'operato dei propri gestori.

D'altro canto, anche in materia di rappresentanza “legale” deve escludersi che il concorso, in danno del rappresentato, del fatto illecito doloso del rappresentante legale e del terzo possa escludere la responsabilità di quest'ultimo, posto che diversamente verrebbe meno la stessa esigenza di tutelare l'interesse del rappresentato (

Bianca, Commento all'art. 1227, in Comm. c.c. Scialoja- Branca, Bologna- Roma, 417 ss.

).

Ed è difficile non condividere l'osservazione per cui, essendo la banca (ma non diversamente l'attestatore) un soggetto dotato di specifica e “qualificata” (anche in forza del titolo amministrativo di legittimazione all'esercizio dell'attività tipica) professionalità, e quindi destinatario di puntuali obblighi di “cura” dell'interesse altrui, la questione del contributo causale del danneggiato alla verificazione del danno non può essere riguardata allo stesso modo di come avverrebbe nell'ambito dei rapporti fra soggetti posti in posizione paritaria, soprattutto sotto il profilo informativo (

Inzitari, L'abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito

).

Ancora, la osservazione delle norme come l'

art. 2497 c.c.

, ove il danno alla società controllata scaturisce da un comportamento sicuramente (nella maggior parte dei casi) “collusivo” fra la società controllante e gli amministratori della società controllata, dimostra che è ben possibile l'operare del concorso nei termini che abbiamo illustrato (

Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, cit., 104, nota 11; cfr. anche Bonfatti, La responsabilità civile della banca locale nell'erogazione del credito alle imprese di rete, in La crisi d'impresa nelle reti e nei gruppi, a cura di Cafaggi e Galletti, Padova, 2005, 137 ss.

).

Indizi di una volontà di superare l'astrattezza dei principi formulati nel 2006 si rinvengono in una più recente decisione della I

Sezione

(

Cass., 1 giugno 2010, n. 13413

), la quale ha giudicato possibile un'azione di responsabilità esercitata da una Curatela fallimentare, a tutela del patrimonio della società fallita, nei confronti di una banca, sulla base del concorso dannoso del funzionario di quest'ultima e dell'amministratore della società decotta, sanzionato anche dalla condanna penale per bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito.

La motivazione si rifà espressamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del 2006, dichiarando di volerle recepire, e stigmatizza la “peculiarità” della fattispecie, insita nella pregressa condanna penale.

Ma è evidente che l'accertamento del reato può essere condotto tanto in sede civile quanto in sede penale, e che la rilevanza dannosa del fatto in concorso

ex

art. 2055 c.c.

prescinde dalla stigmatizzazione penale della condotta.

D'altro canto l'affermazione circa la implausibilità di un danno subito dalla stessa società fallita, nelle sentenze del 2006, costituiva solo un obiter dictum.

Dunque, parrebbe ipotizzabile, pur in presenza di indicazioni apparentemente contrarie nella giurisprudenza più recente (che tuttavia non mi risulta si sia mai occupata direttamente del problema specifico), la legittimazione della Procedura ad agire contro gli attestatori al fine di ottenere il ristoro, eventualmente in concorso con gli organi della società.

Un'altra perplessità, rispetto alla legittimazione del Curatore, discende dalla qualificazione della responsabilità degli attestatori come discendente da un obbligo legale specifico, insito nell'accettazione della carica e di un ruolo prefissati dal Legislatore.

Sarebbe plausibile infatti un'interpretazione degli obblighi dell'attestatore come rivolti alla tutela dell'interesse dei creditori, attesa la situazione di asimmetria informativa, e non già anche del patrimonio del debitore.

In tal modo, infatti, difetterebbe radicalmente un titolo per fondare la legittimazione della società fallita, le cui ragioni risarcitorie potrebbero essere esercitate soltanto dai singoli creditori, così come in altre ipotesi simili (art. 2395, artt. 2449-2362 ante riforma).

Mi pare tuttavia che tale riduzione dei compiti dell'attestatore non trovi certa collocazione nella legge: egli infatti assume un ruolo all'interno di un processo ove anche la società ammessa è parte, al pari delle altre, sicché i suoi compiti vengono espletati nell'interesse anche dello stesso ricorrente.

Non mi pare pertanto che l'eventuale fatto illecito dell'attestatore non possa essere azionato come fonte di responsabilità da parte della società in concordato; ciò sarebbe evidente nell'ipotesi in cui egli assumesse la condotta opposta a quella qui esaminata, ossia affermasse falsamente (per mala fede o negligenza) la inattendibilità dei dati esposti dal debitore, o la infattibilità del piano concordatario, così provocando l'impossibilità del concordato, od il ritardo nell'ammissione dello stesso.

Dunque anche la società debitrice è titolare di una posizione giuridica tutelata al corretto espletamento dei doveri dell'attestatore.

In ogni caso, mi pare poi che anche se gli obblighi legali del medesimo fossero da ritenersi ristretti all'ambito delle posizioni dei creditori, ciononostante il “contatto sociale” che si instaura fra attestatore e debitore fondi comunque un affidamento di quest'ultimo sul comportamento del primo, azionabile ex

artt. 1218

-

1223 c.c.

o comunque

ex

art. 2043 c.c.

, in base al principio del neminem laedere.

Il danno risarcibile

Gli attestatori dovrebbero rispondere, in concorso con gli organi sociali, del deterioramento del patrimonio della società per il periodo intercorrente fra il deposito della domanda di concordato (rectius, la firma della attestazione) e la dichiarazione di fallimento.

Su ciò la tecnica giuridica ha già partorito strumenti “pratici” di semplificazione dell'operazione di liquidazione del danno, quanto alle azioni di responsabilità contro gli organi sociali, che appaiono agevolmente “importabili” nel contesto di riferimento.

L'ampiezza degli scenari prospettabili può rendere tale operazione assai complessa, soprattutto quando vi fossero soluzioni ristrutturative possibili, alternative al fallimento, che siano così risultate pregiudicate.

Può comunque farsi a mio avviso riferimento specifico, in via di ulteriore semplificazione, all'incremento degli interessi sui crediti privilegiati durante la procedura, alle maggiori spese di procedura (in sostanza al compenso del Commissario), ed a tutti gli elementi del passivo successivamente maturati, che non potessero essere considerati inevitabili anche nell'ipotesi alternativa dell'apertura immediata del fallimento (si pensi agli eventuali compensi degli organi sociali, se ammessi allo stato passivo).

Va aggiunto che la proposizione in giudizio dell'azione di risoluzione per inadempimento del contratto stipulato dagli attestatori con la società consentirebbe di ottenere in molti casi, oltre al risarcimento del danno, la restituzione degli acconti percepiti prima dell'apertura del concorso.

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