Il fallimento dell'appaltatore e la solidarietà del committente per il pagamento dei debiti contributivi

Anna Gaglioti
Michele Vigna
11 Gennaio 2013

i pagamenti effettuati dal committente pubblico in favore degli enti previdenziali (lavoratori) nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento sono revocabili nel caso in cui la curatela possa provare che la stazione appaltante conosceva lo stato di insolvenza dell'appaltatore;per quanto corrisposto successivamente alla dichiarazione di fallimento, tanto la stazione appaltante, quanto l'Ente Previdenziale, sono tenuti a restituire le somme alla massa, trattandosi di pagamento inefficace ex art. 44 l. fall.
Premessa

La posizione del fallimento dell'appaltatore in rapporto alle azioni esercitabili dagli Enti Previdenziali nei confronti dei committenti, solidalmente responsabili per il pagamento dei crediti contributivi del fallito, rappresenta un tema operativo di rilevante interesse, non disgiunto da profili sistematici complessi ed articolati a causa, tra l'altro, di una disordinata stratificazione legislativa.

L'intervenuto fallimento dell'appaltatore determina l'insorgere, infatti, di interessanti questioni.

Ci si chiede, in particolare, se il pagamento del residuo prezzo effettuato dal committente - in pendenza del fallimento dell'appaltatore - direttamente in favore degli Enti Previdenziali sia opponibile alla procedura fallimentare e se gli Enti Previdenziali possano agire - sempre in pendenza del fallimento - nei confronti del committente al fine di ottenere il pagamento dei contributi previdenziali dovuti dall'appaltatore.

Il quadro normativo. Appalti privati

La prima e risalente disposizione di specifica salvaguardia dei diritti degli ausiliari dell'appaltatore è rappresentata dall'

art. 1676 c.c.

, in base al quale “coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

L'azione diretta esperibile dai lavoratori si fonda su quattro presupposti:

  • l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un imprenditore;

  • l'esecuzione della prestazione lavorativa per il compimento di quella particolare opera o di quello specifico servizio commissionati da quel determinato committente;

  • l'esistenza di un credito di lavoro in capo ai suddetti lavoratori, inadempiuto da parte dell'appaltatore o datore di lavoro;

  • l'esistenza di un credito dell'appaltatore verso il committente in relazione al compimento dell'opera o del servizio commissionatogli.

Sembra opportuno sottolineare come la disciplina in esame abbia ad oggetto i soli crediti retributivi vantati dai lavoratori e non si estenda - per contro - agli obblighi contributivi, né tanto meno a quelli fiscali (novità, quest'ultima, introdotta - come vedremo - dal c.d. decreto Bersani: D.L. n. 233/2006).

E' fissato un limite quantitativo alla responsabilità del committente, consistente nell'importo da quest'ultimo ancora dovuto all'appaltatore al momento della domanda formulata dai lavoratori.

Non esiste, invece, alcun limite temporale, potendo i lavoratori agire nei confronti del committente in qualsiasi momento, salvo il decorso del termine di prescrizione, naturalmente alla condizione che sussista ancora un debito del committente nei confronti dell'appaltatore.

Tale norma - come si vedrà - ha oggi soltanto una valenza residuale, dal momento che le leggi successive hanno ampliato (e non poco) il vincolo di solidarietà tra le parti del contratto d'appalto.

Di alcuni anni successiva al Codice Civile (e legata ad una valutazione particolarmente cauta, se non addirittura negativa, del legislatore circa il fenomeno del decentramento produttivo), la disciplina della

L. n. 1369/1960

conteneva ulteriori norme di protezione dei lavoratori impiegati negli appalti. Una breve disamina di tale normativa può essere utile a chiarire punti di continuità e profili di discontinuità con le disposizioni in materia di responsabilità solidale verso i lavoratori adottate dal legislatore nel corso degli ultimi anni.

In particolare, l'art. 3 della

L. n. 1369/1960

prevedeva una disciplina specifica per gli appalti di opere e servizi da eseguirsi nell'interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore. In caso di stipula di questi contratti d'appalto (che spesso si rivelavano essere a bassa intensità organizzativa e ad alta intensità di lavoro), l'imprenditore appaltante era tenuto in solido con l'appaltatore a corrispondere ai lavoratori da quest'ultimo dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo (e ad assicurare un trattamento normativo) non inferiore a quello spettante ai lavoratori dipendenti dell'appaltante. Inoltre, gli imprenditori appaltanti erano tenuti in solido con l'appaltatore, relativamente ai lavoratori da quest'ultimo dipendenti, all'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza ed assistenza. Tali diritti spettanti ai prestatori di lavoro potevano essere esercitati nei confronti dell'imprenditore appaltante - ex art. 4

legge n. 1369/1960

- durante l'esecuzione dell'appalto e fino ad un anno dopo la data di cessazione dell'appalto stesso.

La legge in esame, attraverso un meccanismo di integrazione legale, garantiva ai dipendenti dell'appaltatore un trattamento minimo inderogabile retributivo e un trattamento normativo non inferiore a quello dei dipendenti dell'appaltante e, conseguentemente, sostituiva il trattamento normalmente in essere tra l'appaltatore ed i suoi dipendenti. Si trattava di una misura volta ad equiparare temporaneamente i dipendenti dell'appaltante e quelli dell'appaltatore, in modo da evitare il ricorso al contratto d'appalto da parte dell'impresa committente in funzione puramente contenitiva del costo del lavoro.

Da tali strumenti di tutela erano, tuttavia, esclusi i lavoratori impiegati negli appalti “esterni”, ovvero quegli appalti non incidenti sul ciclo produttivo dell'appaltante.

L'

art. 85, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 276/2003

(c.d. Decreto Biagi) ha abrogato integralmente la

legge n. 1369/1960

e dunque anche l'art. 3 dedicato alla tutela del lavoro nei c.d. “appalti interni”.

L'

art. 29, comma 2, del medesimo D.Lgs. n. 276/2003

riproduceva solo parzialmente - nel testo originario - il contenuto dell'art. 3 della

legge n. 1369/1960

e ne limitava comunque l'operatività agli appalti di servizi. Si stabiliva, infatti, che “in caso di appalti di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”. Si tratta, quindi, di un regime di tutela dei lavoratori dell'appaltatore che si colloca a metà strada tra la disciplina dell'

art. 1676 c.c.

e quella - abrogata - della

legge n. 1369/1960

.

Quanto al campo di applicazione, si superava l'ambigua distinzione fra appalti interni ed esterni; a quel criterio si sostituiva, tuttavia, la distinzione fra appalti di opere e di servizi. Sulla base di questa nuova disciplina, i lavoratori operanti in un appalto di servizi (interno o esterno all'impresa) fruivano della tutela della coobbligazione solidale fra appaltante e appaltatore per i trattamenti retributivi e i contributi dovuti (venivano, invece, esclusi - a differenza di quanto previsto dall'art. 3

legge n. 1369/1960

- i contributi assistenziali), ma non avevano più alcun diritto ad un trattamento retributivo minimo inderogabile e ad un trattamento normativo non inferiori a quelli spettanti ai lavoratori dipendenti dell'appaltante.

Per i lavoratori impiegati negli appalti di opere permaneva, peraltro, esclusivamente la tutela generale prevista dall'

art. 1676 c.c.

La norma in esame ha comunque il merito di aver introdotto il principio di solidarietà in materia contributiva che non era (e non è) prescritto dalla norma codicistica, la quale - limitando la solidarietà ai crediti maturati dal lavoratore nei confronti dell'appaltatore - esclude appunto i contributi, che non sono crediti del lavoratore, ma crediti dell'ente previdenziale, anche se il beneficiario del versamento è il lavoratore medesimo.

Veniva, poi, eliminato ogni limite quantitativo al credito del lavoratore dell'appaltatore che poteva, quindi, anche eccedere l'ammontare del residuo debito del committente nei confronti dell'appaltatore.

Successivamente, l'

art. 6 D.Lgs. n. 251/2004

riformava l'

art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003

, prevedendo che, sia in caso di appalto di opere, sia in caso di appalto di servizi, “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”. La disciplina in esame faceva, peraltro, salve “diverse previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”.

Si affermava, quindi, una generalizzata solidarietà tra committente ed appaltatore per ogni tipologia di contratto d'appalto. Il vincolo, tuttavia, non era assoluto, in quanto - secondo la novella del 2004 - poteva essere derogato dalla contrattazione collettiva nazionale. Stante il richiamo alla contrattazione collettiva nazionale, nessun potere derogatorio - rispetto alla previsione legale - veniva attribuito alla contrattazione collettiva decentrata o aziendale (alla quale, secondo i principi generali in materia, può essere invece riservata la possibilità di derogare in melius la disciplina nazionale, stabilendo quindi condizioni di miglior favore per i lavoratori).

Sempre l'

art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003

- così come modificato dall'

articolo 6 del D.Lgs. n. 251/2004

- prevedeva che il lavoratore, nel caso di contratto di appalto stipulato in violazione della legge, potesse chiedere al giudice del lavoro la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne aveva utilizzato la prestazione.

Un ulteriore rafforzamento del vincolo di solidarietà si registrava con il

D.L. n. 223/2006

(c.d. Decreto Bersani) che, nei commi da 28 (unico comma - come si vedrà infra - ancora oggi in vigore) a 34 dell'art. 35, introduceva anche un particolare regime di solidarietà passiva tra appaltatore e subappaltatore con riferimento al versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente, dei contributi previdenziali ed assicurativi. Il comma 30 dello stesso articolo prevedeva peraltro specificamente che “gli importi dovuti per la responsabilità solidale di cui al comma 28 non possono eccedere complessivamente l'ammontare del corrispettivo dovuto dall'appaltatore al subappaltatore”.

Il vincolo di solidarietà veniva meno, inoltre, nel caso in cui l'appaltatore - al quale veniva riconosciuto il diritto di sospendere il pagamento sino all'esibizione da parte del subappaltatore di tutta la documentazione - avesse verificato “acquisendo la relativa documentazione prima del pagamento del corrispettivo” che gli adempimenti di cui al comma 28, connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l'opera, la fornitura o il servizio, fossero stati regolarmente pagati dal subappaltatore. A propria volta, il committente - ex art. 35, comma 32, del Decreto Bersani - era tenuto a pagare il corrispettivo in favore dell'appaltatore solo previa esibizione da parte di quest'ultimo della documentazione attestante il corretto adempimento delle prestazioni di lavoro relative all'appalto. Il committente si trovava dunque al vertice del sistema dei controlli a tutti i livelli dell'appalto; sistema rafforzato dalla pesante sanzione amministrativa (da cinquemila a duecentomila euro) stabilita in caso di inosservanza delle regole sul versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assicurativi.

Nell'attesa dell'emanazione del decreto interministeriale che individuasse la documentazione attestante l'assolvimento degli adempimenti fiscali, previdenziali e contributivi - provvedimento a cui il Decreto Bersani subordinava l'applicazione della stessa normativa in tema di responsabilità solidale e controlli -, l'

art. 1, comma 911, legge n. 296/2006

(c.d. Legge Finanziaria 2007) riformulava ancora una volta l'art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2002, disponendo che “in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, entro il limite dei due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”.

L'elemento maggiormente dirompente di tale formulazione dell'art. 29, comma 2, era (ed è) è rappresentato dalla moltiplicazione dei centri di imputazione della responsabilità patrimoniale solidale, tale per cui il lavoratore impiegato nell'ultimo subappalto può rivolgere le proprie pretese creditorie nei confronti - oltre che del proprio datore di lavoro - anche del committente imprenditore o datore di lavoro, nonché dell'appaltatore e di tutti i subappaltatori collocati a monte del subappalto per il quale il lavoratore ha prestato la propria opera.

Di rilievo era (ed è) è anche l'estensione temporale della soggezione alla responsabilità solidale, essendo previsto un termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell'appalto. La solidarietà si estendeva (e si estende) a tutto il credito retributivo e contributivo e non era (e non è) contenuta nel limite del debito che il committente ha verso l'appaltatore al tempo della domanda (come, invece, accade ai sensi dell'

art. 1676 c.c.

): si tratta, quindi, di una responsabilità rafforzata in quanto prescinde da situazioni debitorie in essere tra le parti.

A distanza poi di circa due anni dall'ultimo intervento legislativo di cui si è dato conto, veniva approvato - prima che il corpus normativo derivante dal decreto Bersani trovasse concreta applicazione - il

D.L. n. 97/2008, il cui art. 3,

comma 8, stabiliva che “i commi da 29 a 34 dell'articolo 35 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, nonché il decreto del Ministro dell'economia e delle Finanze 25 febbraio 2008, n. 74, sono abrogati”.

Restava, quindi, in vigore soltanto l'art. 35, comma 28, del Decreto Bersani in base al quale “l'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore della effettuazione e del versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali a cui è tenuto il subappaltatore”.

Il principale effetto collaterale di tale stratificazione normativa è rappresentato dalla sussistenza di due regimi di responsabilità solidale parzialmente differenti in caso di appalto e subappalto. A seguito degli interventi legislativi di cui si è accennato, ci si trovava infatti al cospetto di un regime di responsabilità “asimmetrico”: dal combinato disposto del comma 2 dell'

art. 29 D.lgs. n.

276/2003

e dell'art. 35, comma 28,

L. n. 248/2006

si profilava una responsabilità che risaliva dal subappaltatore al committente per i crediti di natura retributiva, previdenziale ed assicurativa (responsabilità piena, in quanto priva di alcun limite quantitativo) ed una responsabilità che dal subappaltatore si fermava all'appaltatore per il versamento all'erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto.

Da ultimo, l'art.

21

D.L. 9 febbraio 2012, n. 5

(come modificato dalla

legge di conversione 4 aprile 2012, n. 35

) ha sostituito il comma 2 dell'articolo 29 riscrivendolo con modifiche sostanziali rilevanti. Il vigente articolo 29, comma 2, così recita: « In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. Ove convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore, il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore. L'eccezione può essere sollevata anche se l'appaltatore non è stato convenuto in giudizio, ma in tal caso il committente imprenditore o datore di lavoro deve indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore sui quali il lavoratore può agevolmente soddisfarsi. Il committente imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il pagamento può esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali”.

Si tratta di rilevanti modifiche che introducono nella fattispecie in esame il beneficio della preventiva escussione a favore del committente nel caso in cui lo stesso sia convenuto in giudizio per il pagamento dei trattamenti retributivi e delle contribuzioni previdenziali dei lavoratori in relazione al contratto di appalto, nonché l'azione di regresso nei confronti dell'appaltatore e subappaltatore per le somme pagate.

Viene, inoltre, chiarito che la responsabilità solidale riguarda anche le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, senza limitazione alcuna rappresentata dal prezzo dell'appalto.

Ed ancora, il comma 5-bis dell'art.

2

D.L. 2 marzo 2012, n. 16

(nel testo integrato dalla

legge di conversione 26 aprile 2012, n. 44

) ha riscritto anche l'

art. 35, comma

28, D.L. n. 223/2006

(c.d. Decreto Bersani), prevedendo l'estensione della responsabilità del committente - unitamente a quella dell'appaltatore e di ciascuno degli eventuali subappaltatori - entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto anche relativamente alle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto.

Il vigente

art. 35, comma 28, D.L. n. 223/2006

introduce altresì una sorta di esonero da responsabilità che scatta ove il committente/appaltatore dimostri di “avere messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l'inadempimento”. Si tratta di una prova - gravante sul committente - certamente non di semplice soluzione, soprattutto per quanto riguarda l'iva.

Per il versamento delle ritenute fiscali il committente potrà dimostrare la propria diligenza nell'aver acquisito i modelli F24.

Con riferimento all'iva

dovuta in relazione alle prestazioni effettuate ai sensi del contratto d'appalto e delle ritenute, l'Agenzia delle Entrate - con la recentissima

Circolare 8.10.2012 n. 40/E

- ha fornito chiarimenti in merito a quale sia l'idonea certificazione necessaria per comprovare la regolarità del versamento. L'Amministrazione Finanziaria ha, infatti, precisato che la prova del regolare versamento da parte dell'appaltatore (o subappaltatore) dell'iva

e delle ritenute può essere fornita a mezzo di una dichiarazione che dovrà indicare:

  • il periodo nel quale l'iva

    relativa alle fatture concernenti i lavori eseguiti è stata liquidata, con specificazione se dalla suddetta liquidazione sia scaturito un versamento d'imposta, ovvero se in relazione alle fatture oggetto del contratto sia stato applicato il regime dell'

    iva

    per cassa, oppure la disciplina del reverse charge;
  • il periodo nel quale le ritenute sui redditi di lavoro dipendente sono state versate, mediante scomputo totale o parziale;

  • riportare gli estremi del modello F24 con il quale i versamenti dell'iva

    e delle ritenute scomputate, totalmente o parzialmente, sono stati effettuati;
  • contenere l'affermazione che l'iva

    e le ritenute versate includono quelle riferibili al contratto di appalto/subappalto per il quale la dichiarazione viene resa.

In conclusione, la normativa vigente prevede un regime di solidarietà rigido fra committente/appaltatore/subappaltatore funzionale a garantire l'effettività della tutela per i lavoratori (e per gli Enti Previdenziali e l'Agenzia delle Entrate)

quale che sia il punto nella filiera degli appalti in cui si colloca l'impresa o il datore di lavoro da cui dipende il singolo lavoratore (cfr.

Imberti,

Responsabilità solidali negli appalti e subappalti dopo il D.L. n. 97/2008: una disciplina in continuo movimento

, in Lavoro nella Giur., 2008, 659)

.

Alla normativa in esame si affianca, ancora, l'

art. 1676 c.c.

avente un'applicazione residuale ai soli casi in cui non possa trovare applicazione la disciplina di cui all'

art. 29

D.lgs. n. 276/2003

(a titolo esemplificativo: committente che non sia imprenditore o datore di lavoro; decorso del termine biennale; ovvero al fine di ottenere il pagamento di somme o trattamenti non inclusi tra quelli oggetto della responsabilità solidale di cui all'

art. 29 D.lgs. n. 276/2003

. In tal senso

Greco,

L'obbligazione solidale negli appalti dopo la riforma del mercato del lavoro, in Lav. Giur., 2004, 924, di diverso avviso è Trib. Bologna, 19 marzo 2007

).

Appalti pubblici

L'

art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003

(c.d. Decreto Biagi) stabilisce che l'intera riforma del mercato del lavoro non interessa le pubbliche amministrazioni ed il loro personale. Stante l'assenza nell'art. 29 del decreto n. 276/2003 di qualsiasi riferimento all'applicabilità della disciplina degli appalti alla P.A., il regime di responsabilità ivi delineato non dovrebbe trovare applicazione qualora il ruolo di committente sia rivestito da un'amministrazione pubblica, potendosi invocare solo la disciplina residuale contenuta nell'

art. 1676 c.c.

L'esclusione della P.A. committente dal regime di solidarietà è stata sottolineata anche dal Ministero del Lavoro con la risposta all'interpello n. 25/2009 -interpretazione sostanzialmente ribadita anche dalla circolare ministeriale n. 5/2011 - ove si chiarisce che l'unica forma di solidarietà che sussiste tra committente pubblico e appaltatore privato è quella prevista dal solo

art. 1676 c.c.

D'altra parte, la tutela dei lavoratori negli appalti pubblici sarebbe garantita da diverse disposizioni speciali di settore.

Rileva, in primo luogo, la previsione dell'

art. 118, comma 6, D.Lgs. n. 163/2006

, secondo il quale “l'affidatario (…) è, altresì, responsabile in solido dell'osservanza delle norme anzidette da parte dei subappaltatori nei confronti dei loro dipendenti per le prestazioni rese nell'ambito del subappalto. (…) Ai fini del pagamento degli stati di avanzamento dei lavori o dello stato finale dei lavori, l'affidatario e, suo tramite, i subappaltatori trasmettono all'amministrazione o ente committente il documento unico di regolarità contributiva”.

Rilevano, poi, le previsioni di cui agli

artt. 4

e

5 DPR n. 207/2010

in forza delle quali la stazione appaltante - nel caso di ottenimento da parte del responsabile del procedimento del documento unico di regolarità contributiva che segnali un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione dell'appalto, ovvero in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore - può trattenere dal certificato l'importo corrispondente all'inadempienza e disporre il pagamento direttamente in favore degli Enti Previdenziali ed Assicurativi, o nei confronti dei dipendenti dell'appaltatore.

Rileva, ancora, l'

art. 48-

bis

d.P.R. n. 602/1973

(introdotto dall'

art. 2, comma 9, del D.L. n. 262/2006

, convertito con modificazioni dalla

Legge n. 286/2006

), in forza del quale “le amministrazioni pubbliche e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all'agente della riscossione competente per territorio, al fine dell'esercizio dell'attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”.

In una prospettiva opposta è stato, peraltro, rilevato che l'

art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003

, deve essere interpretato facendo riferimento alle pubbliche amministrazioni solo là dove rivestano la qualità di “datori di lavoro” e non anche nella diversa ipotesi in cui esse rivestano il ruolo di committente istituzionale (

Mainardi,

D.lgs. 10 settembre 2003 n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l'esclusione del pubblico impiego

, in Lav. nelle p.a., 2003, 1072; Mainardi - Salomone,

L'esclusione dell'impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, art. 1 - 19, a cura di Miscione - Ricci, nel Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276

, Milano, 2004,

36

; contra Varva,

Tutela del lavoratore mediante la moltiplicazione dei centri di imputazione delle responsabilità. Il caso degli appalti pubblici, in Lavoro nella Giur., 2011, 45

): la disposizione andrebbe quindi letta in senso restrittivo, come implicante la sola impossibilità per le amministrazioni di utilizzare le nuove formule contrattuali di cui alla riforma del 2003.

Diverse pronunce giurisprudenziali - rese in giudizi promossi dai dipendenti dell'appaltatore nei confronti del committente pubblico al fine di ottenere il pagamento della retribuzione in casi in cui non era più utilmente esperibile l'azione di cui all'

art. 1676 c.c.

(ad esempio per pregresso intervenuto pagamento integrale del prezzo dell'appalto a favore dell'appaltatore, ovvero precedente pignoramento delle somme presso la stazione appaltante ad opera di altri creditori) - hanno fatto proprie queste argomentazioni, ritenendo che la disciplina della solidarietà

ex

art. 29 D.Lgs. n. 276/2003

vada estesa anche alle pubbliche amministrazioni che stipulano contratti di appalto per l'esecuzione di opere o per la realizzazione di servizi, posto che in situazioni del genere la P.A. committente non rivestirebbe il ruolo di datrice di lavoro e che quindi non sarebbe giustificabile l'esclusione di cui all'

art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003

. I dipendenti dell'appaltatore (e degli eventuali subappaltatori) potrebbero quindi usufruire della garanzia solidale nei confronti della stazione appaltante pubblica (

Trib. Busto Arsizio, 29 marzo 2010 e Trib. Milano, 22 gennaio 2010,

Trib. Bolzano, 6 novembre 2009

,

Trib. Milano, 27 maggio 2009

).

Sulla base dell'esame dei precedenti giurisprudenziali citati, non può infatti non rilevarsi come l'art. 118 Codice degli Appalti Pubblici lasci fuori dal campo applicativo della solidarietà (prevista fra appaltatore e subappaltatore) il primo anello della catena: la pubblica amministrazione committente. Si è in presenza, quindi, di un regime di responsabilità asimmetrico: accanto ad un sistema di responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore avente ad oggetto l'intero ambito dei trattamenti economico - normativi contrattuali, vi è una implicita esenzione da responsabilità della pubblica amministrazione committente, la quale al più potrebbe decidere di risolvere il contratto a fronte di gravi inadempienze dell'appaltatore nei confronti dei propri dipendenti (

Montesarchio,

Appalto, Lavoro e responsabilità solidali

,

in Nuova Giur. Civ. Comm., 2011, I, 230

).

Fallimento dell'appaltatore sopravvenuto all'azione ex art. 1676 c.c. già esperita dai lavoratori nei confronti del committente

Il primo caso che occorre considerare è quello in cui il fallimento dell'appaltatore venga dichiarato in data successiva alla proposizione dell'azione

ex

art. 1676 c.c.

promossa dai lavoratori dello stesso nei confronti del committente.

Costituisce principio giurisprudenziale pressoché pacifico che l'apertura della procedura fallimentare (o di altra procedura concorsuale) nei confronti dell'appaltatore non comporti l'improcedibilità dell'azione

ex

art. 1676 c.c.

esperita precedentemente dai dipendenti nei confronti del committente.

L'azione in esame - costituendo azione diretta exlege fra terzi rispetto al fallito - non risulterebbe assoggettabile alla disciplina dell'

art. 52 l.

fall

., che inquadra nel sistema concorsuale solo le azioni e i diritti contro il fallito.

La Suprema Corte precisa, infatti, che - una volta venuti in essere tutti gli elementi indicati dall'

art. 1676 c.c.

- “immediatamente si determina la nascita di un rapporto diretto fra i lavoratori e il committente, che si aggiunge, sovrapponendosi, all'originario rapporto e che impedisce a quest'ultimo, una volta che il committente ne sia stato reso edotto tramite la domanda rivoltagli, di spiegare l'efficacia sua propria (…) Dal giorno in cui è proposta la domanda e fino a quello del definitivo pagamento, all'iniziale rapporto di credito fra l'appaltatore e il committente si affianca un nuovo e connesso rapporto, quello fra gli ausiliari dell'appaltatore e il committente: soggetto quest'ultimo, che per espressa volontà della legge diventa diretto debitore dei lavoratori (come garante ex lege, come si afferma da taluno, o in virtù di un accollo ex lege, come si sostiene da altri) in aggiunta all'appaltatore-datore di lavoro, unico originario debitore” (

Cass., 10 marzo 2001, n. 3559

;

Cass., 24 ottobre 2007, n. 22304

e Trib. Bologna, 29 marzo 2011).

La Corte prosegue il proprio iter argomentativo osservando che il fatto stesso che la legge parli di azione diretta contro il committente e che la legittimazione attiva sia attribuita ai lavoratori “per conseguire quanto è loro dovuto”, sta a significare che si verte in un'ipotesi diversa da quella prevista dall'azione surrogatoria di cui all'

art. 2900 c.c.

: al contrario dell'azione surrogatoria (che è caratterizzata dalla sostituzione del creditore al proprio debitore per far valere un diritto appartenente a quest'ultimo e per ottenere che il bene oggetto del giudizio possa rientrare nel patrimonio del soggetto sostituito), con l'azione prevista dall'

art. 1676 c.c.

“i lavoratori fanno valere un diritto proprio, che la legge loro riconosce non in sostituzione del loro debitore, ma direttamente: tanto è vero che, come è stato precisato dalla dottrina, gli effetti economici dell'azione si trasmettono automaticamente nella sfera giuridica degli ausiliari e non nel patrimonio dell'appaltatore”.

Trattandosi di un'azione diretta incidente, in quanto tale, direttamente sul patrimonio di un terzo (il committente) e solo indirettamente su un credito del debitore fallito (del quale proprio a causa di quell'azione è impedito il realizzo), l'apertura del procedimento fallimentare non può spiegare - secondo la giurisprudenza in esame - effetti sulle ragioni vantate dai lavoratori, né varrebbe in contrario invocare gli

artt. 51

e

52 l.

fall

., “essendo del tutto estranea al fallimento una iniziativa già intrapresa da una particolare categoria di creditori (ai quali dalla legge è accordata una specifica tutela) e tendente al conseguimento di una somma che, non essendo stata ancora corrisposta all'originario creditore, fa parte del patrimonio non già del datore di lavoro fallito, ma del committente (il quale, come è stato sottolineato dalla dottrina, è terzo rispetto al fallimento)” (

Cass., 10 marzo 2001, n. 3559

).

La ratio dell'

art. 1676 c.c.

va ricercata - secondo la giurisprudenza in esame - nell'esigenza di garantire agli ausiliari dell'appaltatore, proprio in relazione ad un'attività lavorativa prestata per l'esecuzione dell'opera o del servizio appaltati al datore di lavoro, il pagamento della retribuzione dovuta per quella determinata attività, “in modo da sottrarre il soddisfacimento del relativo diritto al rischio dell'insolvenza del debitore, dando la possibilità di agire direttamente nei confronti del committente. Orbene, da tale premessa non può farsi discendere la conseguenza, indicata dal ricorrente, secondo cui l'azione, il cui esercizio trova la specifica previsione nella legge, sia destinata a cedere di fronte alla procedura concorsuale, nel frattempo intervenuta nei riguardi del datore di lavoro. Sotto tale profilo non assumono decisivo rilievo le deduzioni della difesa del ricorrente riguardanti la specialità della disciplina fallimentare nei vari profili esposti e ciò proprio in relazione alla concreta finalità perseguita dal legislatore, che, come già detto, ha voluto riconoscere in maniera diretta ai lavoratori ausiliari dell'appaltatore uno strumento processuale per il pagamento da parte del committente della retribuzione dovuta per l'attività relativa all'esecuzione dell'opera o del servizio appaltati. Né si riscontrano ragioni per differenziare la speciale tutela in esame dei lavoratori dell'appaltatore insolvente, a seconda che sia dichiarato o meno il fallimento, tanto più che, in caso di fallimento dello stesso appaltatore, l'azione in questione incide, come puntualizzato dall'orientamento richiamato, non sul patrimonio dell'appaltatore fallito, ma su quello di un terzo (il committente)” (

Cass., 24 ottobre 2007, n. 22304

).

In conclusione, l'azione diretta prevista dall'

art. 1676 c.c.

sarebbe assolutamente “insensibile” al fallimento dell'appaltatore trattandosi di un'azione diretta ed autonoma fra terzi estranei alla procedura fallimentare e, come tale, non lesiva del principio della par condicio creditorum. Sotto tale ultimo profilo la Suprema Corte osserva, infatti, che l'

art. 3 della Costituzione

non può ritenersi violato in considerazione del fatto che l'

art. 1676 c.c.

individuerebbe una categoria eccezionale di creditori a cui viene accordato uno specifico beneficio, anche rispetto ad altri lavoratori, e ciò in considerazione dell'attività lavorativa dai medesimi espletata e dalla quale un altro soggetto (il committente) ha ricavato un particolare vantaggio.

Il carattere di autonomia dell'azione di cui all'

art. 1676 c.c.

rispetto al rapporto d'appalto viene ulteriormente “valorizzato” dalla giurisprudenza che giunge alla conclusione che l'azione diretta

ex

art. 1676 c.c.

, per le sue caratteristiche di autonomia e specialità, non dà luogo ad una situazione processuale di litisconsorzio necessario tra committente ed appaltatore con la conseguenza che i lavoratori, quando agiscono nei confronti del solo committente non devono necessariamente chiamare in causa anche l'appaltatore

ex

art. 102 c.p.c.

(

Cass., 4 settembre 2000, n. 11607

; Trib. Gorizia, 13 ottobre 2004

).

Azione ex art. 1676 c.c. esperita dai lavoratori nei confronti del committente in data successiva alla dichiarazione di fallimento dell'appaltatore

Le pronunce giurisprudenziali sin qui esaminate parrebbero tutte riferirsi al caso in cui il fallimento dell'appaltatore sia sopravvenuto alla già avvenuta instaurazione di un'azione giudiziaria del lavoratore diretta ad ottenere dal committente quanto dovutogli dall'appaltatore.

Ed infatti tali pronunce - nel dare atto dell'autonomia dell'azione ex art. 1676 c.c. - fanno comunque sempre riferimento al “sopravvenuto fallimento” del datore di lavoro.

Il caso in cui il fallimento dell'appaltatore sia antecedente all'azione del dipendente creditore risulta, invece, essere stato esaminato specificamente - a quanto consta - solo da un precedente giurisprudenziale ed affrontato da un'unica dottrina (

Casili,

Fallimento dell'appaltatore e art. 1676 c.c. .

, in Fallimento e crisi d'impresa, 2008

). Entrambi evidenziano come le due fattispecie - azione

ex

art. 1676 c.c.

promossa prima della declaratoria di fallimento e azione promossa dopo la declaratoria di fallimento - debbano essere necessariamente tenute distinte.

In tale ultima fattispecie non si potrebbe prescindere, infatti, dal coordinamento con l'

art. 52 l.

fall

. che - come è noto - prescrive che tutte le posizioni creditorie verso il fallito siano sottoposte al concorso sostanziale (partecipazione proporzionale alla distribuzione del ricavo nella liquidazione fallimentare) e formale (accertamento unitario concorsuale di tutte le posizioni) (

Caiafa,

Fallimento: risarcimento del danno al lavoratore ed azione diretta nei confronti dell'assicuratore

, in Dir. Fall., 2009, 453; Marelli,

sub. art. 52, in Il nuovo Diritto fallimentare, Commentario

Jorio

, Tomo I, Bologna, 2006, 770

).

Il fallimento dell'appaltatore antecedente all'azione del dipendente dell'appaltatore comporta, quindi, l'inammissibilità dell'azione diretta dei dipendenti dell'appaltatore.

Si osserva, a tal proposito, che “il patrimonio del fallito, invero, ivi compresi i crediti vantati verso terzi, si è ormai consolidato nella massa fallimentare, rimanendo vincolato al soddisfacimento di tutti i creditori del fallimento. E' questo un principio di carattere generale, sancito dagli

artt. 42,

44

e

52 l.

f

all

., che - a parere del collegio - non trova eccezione neppure nel caso previsto dall'

art. 1676 c.c.

(….) Una volta dichiarato il fallimento, però, l'esercizio da parte dei dipendenti dell'azione ex art.

1676 c.c.

nei confronti del committente è ormai precluso dalla procedura di esproprio in atto; diversamente verrebbe posta in essere una palese violazione del principio della par condicio creditorum, principio che non trova alcuna deroga nel nostro ordinamento, eccetto nei casi in cui la legge non lo dica espressamente” (Trib. Lecce, 12 aprile 1999).

Tale orientamento sembra condivisibile.

La sentenza dichiarativa di fallimento può, pertanto, segnare il confine oltre il quale il credito vantato dall'appaltatore nei confronti del committente non può essere appreso - attraverso la proposizione dell'azione ex art. 1676 c.c. esperita in pendenza della procedura fallimentare - dagli ausiliari dell'appaltatore, dovendo lo stesso credito essere ricompreso nel patrimonio sottoposto alla procedura concorsuale.

Fallimento dell'appaltatore ed azione ex art. 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003. La qualificazione giuridica

Preliminare alla soluzione delle questioni su cui verte il presente paragrafo è l'accertamento della qualificazione giuridica della responsabilità delineata dall'

art. 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003

.

Va innanzitutto chiarito che gli

artt. 1676 c.c.

e 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003 disciplinano due distinti meccanismi giuridici, con la conseguenza - come si è osservato in precedenza - che si deve escludere che la seconda disposizione abbia abrogato la prima (

Maresca

- Alvino,

Il rapporto di lavoro nell'appalto

,

in I contratti di appalto privato, Trattato dei Contratti, diretto da Rescigno e Gabriellli, 2011, 443

).

L'

art. 1676 c.c.

accorda, invero, una tutela speciale ai lavoratori al fine di garantire agli stessi, proprio in relazione ad un'attività lavorativa prestata per l'esecuzione dell'opera o del servizio appaltati al datore di lavoro, il pagamento della retribuzione dovuta.

La specialità dell'

art. 1676 c.c.

emerge ancora più chiaramente se si considera che la norma - per pacifico orientamento dottrinale e giurisprudenziale (

Sandulli,

Sui diritti degli ausiliari dell'appaltatore verso il committente

, in Riv. Giur. Edil., 1969, I, 23

) - non introduce un'obbligazione fra appaltatore e committente riconducibile nella categoria delle obbligazioni solidali.

Si tratta di un'obbligazione a sé stante rispetto alle obbligazioni solidali in senso proprio, che configurerebbe un “abbinamento” di rapporti realizzato dalla legge (

Betti

, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1955, 235

), o una surrogazione dell'ausiliario dell'appaltatore nell'esercizio del suo diritto di credito, ovvero una sostituzione di un debitore ad un altro.

La specialità dell'

art. 1676 c.c.

induce a ritenere che le conclusioni a cui giunge la giurisprudenza in merito all'irrilevanza del fallimento sopravvenuto rispetto all'azione di cui all'

art. 1676 c.c.

non possano estendersi sic et simpliciter all'azione prevista dall'

art. 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003

.

Una tale considerazione discende proprio dalla diversa natura giuridica delle azioni in esame.

L'

art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003

, infatti, configura - e ciò contrariamente all'

art. 1676 c.c.

- un'obbligazione (solidale) di garanzia fra appaltatore e committente relativamente ai trattamenti retributivi, contributivi ed assicurativi: “la solidarietà, invero, si atteggia con evidenza alla stregua di una mera garanzia che il legislatore ha voluto prevedere ex lege in favore dei lavoratori. Sarebbe fuori da ogni ratio pensare che il dipendente di un appaltatore (solvibile) possa richiedere fin dall'inizio della sua attività il pagamento dei salari correnti all'imprenditore committente” (

Trib. Torino, 5 febbraio 2011

).

Una tale natura emerge ancora più chiaramente soprattutto in seguito alle modifiche apportate dal Decreto Semplificazioni che - come già osservato - ha introdotto in favore del garante (committente) il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del debitore principale (appaltatore) ed il diritto di surroga.

Strutturalmente, l'obbligazione che l'

art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003

pone a carico del committente potrebbe essere configurata quale una sorta di fideiussione ex lege.

Tale obbligazione di garanzia, inoltre, appare - nel sistema delineato dal Decreto Semplificazioni - assolutamente slegata dal pagamento del prezzo dell'appalto. Ed invero, il committente - a cui è riconosciuto il diritto di preventiva escussione e di regresso nei confronti dell'appaltatore - è tenuto alla prestazione di garanzia (per il periodo dei due anni successivi alla cessazione del rapporto di appalto) anche nel caso in cui abbia già pagato integralmente in favore dell'appaltatore il prezzo dell'appalto.

Si tratta, quindi, di un'obbligazione di garanzia che diventa esigibile solo dalla data di inadempimento dell'obbligazione principale gravante sull'appaltatore ed in seguito alla richiesta di pagamento formulata dai lavoratori ovvero dagli Enti Previdenziali nei confronti del committente.

Ed ancora, l'obbligazione di garanzia appare del tutto autonoma e distinta rispetto all'obbligazione di pagamento del prezzo dell'appalto gravante sul committente (tanto è vero che - a differenza di quanto previsto nell'

art. 1676 c.c.

- non è previsto alcun limite quantitativo circoscritto a quanto sia ancora dovuto a titolo di prezzo; ed ancora, il pagamento integrale del prezzo dell'appalto non fa venire meno tale obbligazione di garanzia).

Sulla base delle considerazioni che precedono, è possibile esaminare quali effetti abbia il fallimento sui rapporti obbligatori sopra delineati.

Relativamente alla fattispecie in esame, possono distinguersi tre diverse ipotesi:

  • pagamenti effettuati dal committente in favore degli Enti Previdenziali prima della dichiarazione di fallimento dell'appaltatore;

  • intervenuto fallimento dell'appaltatore ed esistenza di ragioni di credito del fallimento dell'appaltatore nei confronti del committente in ragione del rapporto d'appalto inter partes;

  • intervenuto fallimento dell'appaltatore ed insussistenza di ragioni di credito del fallimento dell'appaltatore nei confronti del committente, in ragione del rapporto d'appalto inter partes.

Pagamenti effettuati dal committente in favore degli Enti Previdenziali prima della dichiarazione di fallimento dell'appaltatore

Si ipotizza il caso in cui, nel corso del rapporto contrattuale, il committente si avveda - in conseguenza, ad esempio, della ricezione di un Durc da cui emergano irregolarità, ovvero a seguito della formale richiesta di pagamento formulata dagli Enti Previdenziali - che l'appaltatore in bonis sia inadempiente ai propri obblighi contributivi.

In tale fattispecie il committente potrebbe sospendere nei confronti dell'appaltatore - tanto nel caso in cui il contratto ricolleghi specificamente una tale facoltà all'inadempimento dell'appaltatore in materia contributiva, quanto nel caso in cui sia assente una specifica clausola contrattuale, atteso che la posizione del committente è comunque riconducibile a quella di un garante ex lege - il pagamento del prezzo e provvedere al pagamento in favore dell'Ente stesso.

Il pagamento effettuato dal committente in favore degli Enti Previdenziali - a fronte dell'inadempimento dell'appaltatore - è certamente liberatorio anche nei confronti dell'appaltatore in bonis rispetto al pagamento del prezzo dell'appalto.

Ci si chiede, invece, quale sia la sorte di tale pagamento (relativamente al prezzo dell'appalto o alla quota di prezzo) nel caso in cui intervenga nel frattempo il fallimento dell'appaltatore.

Considerato che - come osservato in precedenza - la posizione del committente è assimilabile a quella del fideiussore (anche se, nel caso specifico, trattasi di una sorta di fideiussione ex lege), si è dell'avviso che nella fattispecie in esame non possano che richiamarsi i relativi principi elaborati dalla giurisprudenza.

In tale ambito risulta consolidato l'orientamento (

Cass., Sez. Unite

12 agosto 2005, n. 16874

;

Cass. 10 gennaio 2003, n. 142

;

Cass.

16 settembr

e 2002, n. 13479

; Trib. Bologna 10 maggio 2010

), secondo cui il pagamento del debito del fallito da parte di un terzo può essere revocato soltanto qualora abbia comportato una lesione della par condicio creditorum, ossia quando il terzo abbia eseguito il pagamento avvalendosi - direttamente o indirettamente - del denaro del fallito (ovvero quando, prima del fallimento, il terzo abbia utilmente effettuato la rivalsa).

Alla base di tale indirizzo si trova il principio secondo cui il pagamento da parte del solvens - il quale non abbia utilizzato denaro del fallito e non abbia esercitato la rivalsa prima del fallimento - non determina un depauperamento del patrimonio dell'insolvente e non modifica l'ammontare dei crediti concorrenti nella ripartizione, perché, qualora proponga istanza di ammissione al passivo, si insinuerà al posto dell'originario creditore, per lo stesso importo e nei medesimi diritti, onde rispetto alla massa viene a trovarsi nell'identica situazione dell'accipiens.

La Suprema Corte precisa, poi, che “nel rapporto fideiussorio (causalmente diretto a rafforzare la tutela dell'interesse del creditore all'attuazione del suo diritto attraverso l'estensione della garanzia patrimoniale ai beni del fideiussore, il quale aggiunge la propria obbligazione accessoria a quella del debitore principale), il fideiussore stesso di regola è obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito e quindi è titolare passivo di un'obbligazione autonoma propria, ancorché accessoria e di contenuto identico rispetto all'obbligazione principale. Egli, pertanto, ha un interesse ad adempiere la propria obbligazione di garanzia, allo scopo di evitare le conseguenze cui resterebbe esposto per effetto dell'inadempimento. Ne consegue che il pagamento eseguito dal garante al creditore - nel quadro del rapporto di garanzia, con denaro proprio e senza esercizio dell'azione di rivalsa - si riferisce alle posizioni giuridiche di quei soggetti, non incide negativamente sul patrimonio del debitore principale poi fallito e non viola la par condicio creditorum” (

Cass., Sez. Unite, 12 agosto 2005, n. 16874

).

Ai fini della sussistenza della violazione della par condicio creditorum è irrilevante la circostanza che il pagamento sia stato effettuato in favore di un creditore privilegiato (

Cass., Sez. Unite, 28 marzo 2006, n. 7028

).

Applicando tali principi al caso in esame, vi è da ritenere che il pagamento effettuato dal committente in favore degli Enti Previdenziali prima della dichiarazione di fallimento possa essere soggetto a revocatoria qualora - ricorrendo i requisiti di cui all'

art. 67 l.

fall

. - lo stesso pagamento sia stato effettuato utilizzando indirettamente somme di competenza dell'appaltatore (il corrispettivo dell'appalto).

Fallimento dell'appaltatore ed esistenza di ragioni di credito nei confronti del committente in ragione del rapporto d'appalto inter partes

Più complessa è l'ipotesi in cui la procedura fallimentare vanti ancora un credito nei confronti del committente a titolo di prezzo dell'appalto.

Nell'ambito dei rapporti fra le parti si ritiene opportuno esaminare distintamente - per una migliore comprensione - il rapporto fra procedura fallimentare e committente ed il rapporto fra committente ed Enti Previdenziali.

Ci si chiede, preliminarmente, se il committente possa rifiutare il pagamento del prezzo dell'appalto in favore della procedura fallimentare sul rilievo di dover corrispondere - in ragione della posizione di garanzia rivestita ex lege - quelle somme agli Enti Previdenziali.

Si è dell'opinione che ad un tale quesito non possa che darsi risposta negativa.

Ed infatti, il committente - pur consapevole dell'esistenza di un debito contributivo dell'appaltatore - non può rifiutare il pagamento del prezzo dell'appalto in favore della procedura fallimentare.

In conseguenza dell'intervenuto fallimento dell'appaltatore, infatti, il credito relativo al prezzo dell'appalto è acquisito alla massa fallimentare, con la conseguenza che il pagamento eventualmente compiuto in favore degli Enti Previdenziali è da ritenersi inefficace

ex

art. 44 L.

fall

., essendo qualificabile quale pagamento effettuato dal terzo con denaro del fallito.

Né il committente - che abbia pagato, in luogo del fallimento, gli Enti Previdenziali - può far valere nei confronti della procedura la compensazione dei reciproci rapporti di debito (il prezzo dell'appalto) e di credito (nascente dall'esercizio dell'azione di regresso). Ed infatti, l'

art. 56 l.fall

. deve essere interpretato - così come precisato dalla giurisprudenza (

Trib. Mondovì 12 gennaio 2005

) - nel senso di impedire la compensazione dei crediti, seppure scaduti, acquistati dopo la dichiarazione di fallimento.

Sulla base delle considerazioni che precedono, si deve quindi concludere che il committente che - in pendenza della procedura fallimentare - corrisponda agli Enti Previdenziali la quota di prezzo ancora dovuta all'appaltatore in ragione del contratto d'appalto, si esponga al rischio di pagare due volte, atteso che quel pagamento è inefficace nei confronti della procedura fallimentare.

Per quanto riguarda invece il rapporto fra committente ed Enti Previdenziali, si ritiene necessario richiamare - ancora una volta - la disciplina in tema di fideiussione.

Ed infatti, la posizione di garanzia del committente è assimilabile, come già osservato, alla posizione del fideiussore.

Da ciò discende che il committente (fideiussore) è legittimato,

ex

art. 1945 c.c.

, a sollevare contro gli Enti Previdenziali (creditori) tutte le eccezioni che spettano al debitore principale (appaltatore fallito).

Sulla base delle considerazioni che precedono, è possibile quindi esaminare la posizione del committente nei rapporti con gli Enti Previdenziali.

Vi è da ritenere che il committente - obbligato a corrispondere, come già visto, il prezzo dell'appalto alla procedura fallimentare - possa sottrarsi al pagamento in favore degli Enti Previdenziali di detta quota opponendo al creditore

ex

art. 1945 c.c.

che un tale pagamento sarebbe lesivo del principio di par condicio creditorum (eccezione che - come osservato - spetterebbe proprio al debitore principale fallito).

Limitatamente alla quota pari al residuo prezzo dell'appalto, il pagamento effettuato in pendenza del fallimento dal committente (fideiussore) sarebbe, infatti, lesivo dell'ordine di graduazione dei privilegi.

Per tale quota di credito, l'Ente Previdenziale non può che soddisfare la propria pretesa sulla base delle regole del concorso.

Si tenga, infatti, presente che il credito vantato dagli Enti Previdenziali gode di un privilegio di grado inferiore rispetto ai crediti in prededuzione; ai crediti garantiti da ipoteca o privilegio mobiliare; ai crediti per retribuzioni, etc.

Per quanto riguarda, invece, la quota di credito vantata dagli Enti Previdenziali ed eccedente la quota residua di prezzo dell'appalto ancora dovuta, il committente dovrà provvedere al pagamento in favore dell'Ente richiedente.

Si ritiene che gli Enti Previdenziali - al fine di non pregiudicare la posizione del committente - siano tenuti a depositare tempestiva domanda di ammissione al passivo ed azionare, successivamente, l'azione

ex

art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003

nei confronti del committente.

La soluzione qui proposta - oltre che poggiare sulla natura dell'obbligazione gravante sul committente quale obbligazione riconducibile ad una sorta di fideiussione ex lege - consente di contemperare, altresì, i contrapposti interessi.

Si contempera, infatti, da un lato, l'interesse degli Enti Previdenziali ad ottenere in tempi celeri il pagamento da parte del committente della quota di credito contributivo eccedente l'eventuale prezzo dell'appalto ancora dovuto e, dall'altro, l'interesse della procedura fallimentare ad ottenere da parte del committente il pagamento del residuo prezzo dell'appalto in favore della massa dei creditori.

Fallimento dell'appaltatore ed insussistenza di ragioni di credito del fallimento dell'appaltatore nei confronti del committente in ragione del rapporto d'appalto intercorso inter partes

Tale fattispecie è molto più lineare rispetto a quella esaminata al punto che precede, considerato che il fallimento non vanta alcuna ragione di credito nei confronti del committente.

Quest'ultimo - a fronte della richiesta di pagamento formulata dagli Enti Previdenziali

ex art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003

-

dovrà provvedere al pagamento, surrogandosi poi all'Ente nell'ambito della procedura fallimentare.

Non pare, inoltre, che il committente possa eccepire nei confronti degli Enti Previdenziali il beneficio della preventiva escussione; istituto che è incompatibile con il carattere dell'universalità oggettiva che qualifica le procedure concorsuali liquidatorie.

Appalti pubblici: le peculiarità

Le norme su cui è necessario prestare particolare attenzione sono gli

artt. 4

e

5 D.P.R. n. 207/2010

, che - come già osservato - legittimano la stazione appaltante a sostituirsi all'appaltatore ( in caso di consegna di Durc che segnali un'inadempienza contributiva; ovvero nel caso in cui lo stesso appaltatore non abbia provveduto al pagamento delle retribuzioni) e conseguentemente a disporre il pagamento di quanto dovuto direttamente agli enti previdenziali e assicurativi, nonché in favore dei dipendenti dell'appaltatore stesso.

Qualora intervenga il fallimento dell'appaltatore, si pone il problema se il committente pubblico - quale debitore del residuo prezzo dell'appalto - sia ancora legittimato ad effettuare tale pagamento direttamente in favore degli enti previdenziali ed assicurativi (nonché in favore dei dipendenti dell'appaltatore).

Un tale pagamento effettuato dal committente pubblico in pendenza del fallimento dell'appaltatore integrerebbe - facendo applicazione dei principi in tema di procedure concorsuali - una violazione dell'

art. 52 l.

fall

. e potrebbe essere ritenuto inefficace ai sensi dell'art. 44 della stessa legge. Costituisce principio pacifico che anche i pagamenti eseguiti da un terzo, dopo la dichiarazione di fallimento, in favore dei creditori del fallito costituiscono atti solutori e, pertanto, sono soggetti alla declaratoria di inefficacia.

A seguito della dichiarazione di fallimento, la stazione appaltante dovrebbe quindi provvedere al pagamento in favore della procedura, spettando agli enti previdenziali l'onere di insinuarsi al passivo per il recupero del loro credito.

Si osserva, infatti, che gli

artt. 4

e

5 d.P.R. n. 207/2010

non possono essere interpretati nel senso che - verificandosi le circostanze di fatto in essi dedotte - il credito dell'appaltatore verso il committente pubblico si trasferirebbe in automatico agli Enti Previdenziali (

Galletti,

Il pagamento diretto agli enti di previdenza da parte delle stazioni appaltanti in caso di Durc negativo

, in

ilFallimentarista.it

), né tanto meno si potrebbe parlare di una surroga degli Enti nella posizione dell'appaltatore. Ed infatti, la surrogazione presuppone “sempre un fatto preesistente che giustifica il subentro del surrogato nella pretesa del creditore

(artt. 1201 c.c.

). Il trasferimento del credito, poi, appare oltre l'intenzione del legislatore, che vuole soltanto che la stazione appaltante paghi direttamente l'Ente di previdenza, indicandolo come semplice legittimato a ricevere le somme (

art. 1188 c.c.

) o instaurando una delegazione di pagamento legale (

art. 1269 c.c.

). Il fine perseguito dal Legislatore con la disciplina del Durc non è poi quello di assicurare comunque all'Ente la garanzia del pagamento di ciò che è dovuto, a tutela del lavoro, ma di garantire la parità competitiva fra le imprese che contrattano con la Pubblica Amministrazione, impedendo alla stesse di finanziarsi attraverso la dilazione dei propri debiti contributivi” (

Galletti,

cit.

).

Da tali argomentazioni discendono le seguenti conclusioni:

In senso diametralmente opposto si è osservato, per contro, che la disciplina speciale in tema di appalti pubblici introduce “una surrogazione legale” dell'ente previdenziale e assistenziale nel credito dell'appaltatore. Tale surrogazione si perfezionerebbe “con il rilascio del Durc, dunque prima del fallimento, la cui sopravvenuta dichiarazione non sembra avere effetto caducatorio. Di conseguenza risulterebbe indifferente che la società debitrice sia in bonis o coinvolta in una procedura concorsuale. La disciplina, infatti, pare imporre un comportamento alla stazione appaltante consistente nel diretto versamento del dovuto agli enti previdenziali, a prescindere dall'evento giuridico del fallimento” (

Vignoli

, Durc e surrogazione legale nel credito dell'appaltatore, in

ilFallimentarista.it

) .

In proposito vi è da ritenere che il potere attribuito ex lege alla stazione appaltante - nel caso in cui l'appaltatore si sia reso inadempiente al pagamento dei propri obblighi contributivi e retributivi - di provvedere direttamente al pagamento in favore degli Enti Previdenziali e/o dei lavoratori dell'appaltatore stesso sostituendosi a quest'ultimo, sia strutturalmente sovrapponibile all'obbligo gravante negli appalti privati dall'

art. 1676 c.c.

sul committente in favore dei dipendenti dell'appaltatore.

Considerata la sovrapponibilità degli istituti giuridici in esame, si ritiene che anche nel caso di appalti pubblici il fallimento dell'appaltatore segni il confine - così come osservato dalla giurisprudenza con riferimento all'

art. 1676 c.c.

-

oltre il quale il credito vantato dall'appaltatore nei confronti del committente non possa più essere appreso dagli Entri Previdenziali e/o lavoratori, dovendo lo stesso credito essere ricompreso nel patrimonio sottoposto alla procedura concorsuale.

Considerato che all'atto della dichiarazione di fallimento dell'appaltatore il patrimonio del fallito - ivi compresi i crediti vantati verso terzi - si consolida nella massa fallimentare, rimanendo vincolato al soddisfacimento di tutti i creditori del fallimento, il pagamento effettuato direttamente dalla stazione appaltante agli Enti Previdenziali costituirebbe una violazione del principio della par condicio creditorum, “principio che non trova alcuna deroga nel nostro ordinamento, eccetto nei casi in cui la legge non lo dica espressamente”.

Una tale interpretazione appare maggiormente coerente, altresì, con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'

art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003

deve trovare applicazione anche nel caso di appalti pubblici.

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