Brevi riflessioni sul concordato in continuita' e sulle sue implicazioni fiscali

17 Luglio 2013

Nelle incertezze circa il trattamento dei debiti sorti nella fase di prosecuzione dell'attività, essendo la prededuzione dapprima regolata esclusivamente in via generale nell'art. 111 l. fall. e poi disciplinata, ma solo con riguardo alle fonti finanziarie, con l'introduzione dell'art. 182-quater l.fall.; nel pericolo che la continuazione potesse celare un indebito vantaggio a favore dell'imprenditore in crisi che così avrebbe potuto sottrarsi alla responsabilità patrimoniale discendente dagli articoli 2740 e 2741 c.c.
Concordato in continuità dopo la riforma del c.d. Decreto Sviluppo

Con la riforma del concordato preventivo attuata nell'estate del 2012 il Legislatore ha inteso venire incontro all'esigenza di stabilizzare lo strumento concordatario soprattutto con riferimento ai modelli di redazione del piano, dettando nuove regole in tema di concordato in continuità. Sebbene, infatti, la riforma introdotta a partire dal 2005 avesse liberato la proposta di concordato dai ferrei vincoli cui soggiaceva lo strumento, disponendo che il debitore fosse libero di adottare qualunque forma di proposta ai creditori, la prassi formatasi successivamente aveva individuato alcune criticità nella gestione dei piani di ristrutturazione e gli operatori facevano fatica ad intravedere un percorso sicuro che non si ponesse in contrasto con le norme riguardanti soprattutto la tutela dei diritti di credito. Allo stesso tempo le spinte di tipo sociale alla liberalizzazione delle proposte di concordato vedevano sempre più affermarsi l'idea che le soluzioni delle crisi e dell'insolvenza dovessero porre al centro la possibilità di una continuazione dell'attività, a protezione degli interessi, non necessariamente omogenei a quelli dei creditori, che ruotavano intorno alle realtà economiche imprenditoriali.

I punti critici che non trovavano adeguata risposta normativa si potevano riassumere:

In altre parole, la proposta di concordato attuata attraverso la prosecuzione dell'attività, se da una parte si assume coerente all'obiettivo di riallocare nel mercato l'impresa in crisi, dall'altra, nella fase attuativa, pone il problema del possibile incremento del passivo, con effetto prededuttivo, conseguente ad una gestione non economica dell'impresa nella fase concordataria, mentre, quale risultato ultimo, la stessa potrebbe costituire un indebito vantaggio a favore del debitore, nel senso che egli potrebbe trattenere integralmente il proprio patrimonio nonostante, soprattutto nella fase di insolvenza, questo sia destinato a soddisfare i creditori, frustrando così la loro legittima aspirazione all'apertura di un concorso di tipo liquidatorio.

Per favorire la proposizione di concordati in continuità, che hanno quale obiettivo ultimo quello di non disperdere i valori aziendali e conservare la capacità dell'impresa di auto-sostenersi, il legislatore ha quindi introdotto ulteriori norme di favore, tra le quali si segnalano:

  • la possibilità di sospendere o sciogliersi dai contratti in corso, in una prospettiva di migliore resa economica del complesso economico; il regime prededuttivo dei finanziamenti concessi per proseguire o sostenere l'attività;

  • la possibilità di ottenere una fase utile all'elaborazione dei piani di ristrutturazione senza l'assillo delle possibili azioni esecutive a cui potrebbe andare incontro il patrimonio del debitore;

  • la prosecuzione dei contratti pubblici e la sostanziale eliminazione del divieto di gareggiare in pubblici appalti;

  • il ribadito regime di prededuzione a favore dei crediti sorti dopo l'ammissione alla procedura e durante la fase esecutiva del programma in continuità, distinti tra quelli sorti in un ambito di ordinaria gestione, per i quali non sorge l'obbligo di autorizzazione da parte degli organi fallimentari, e quelli che nascono in situazioni straordinarie per i quali è prevista invece la preventiva autorizzazione;

  • la possibilità di pagare in via prededuttiva anche crediti concorsuali qualora risultino, in base ad apposita attestazione, necessari alla prosecuzione concordataria dell'attività.

A ben vedere queste ulteriori norme tese a favorire la prosecuzione dell'attività del debitore in crisi sottostanno alla presenza necessaria di due elementiche il piano deve contenere e per i quali, come detto in precedenza, il legislatore pone estrema attenzione, tanto da assumerli quali presupposti indefettibili sia per l'ammissione alla procedura sia per il suo mantenimento.

Contenuto essenziale del piano

Non vi è dubbio che il concordato preventivo possa avere legittimità solo se il suo piano programmato in continuità aziendale preveda, con ragionevole certezza, che la gestione economica sia in grado di produrre nuova ricchezza e, quindi, non potrà ammettersi la proposta, ovvero andrà interrotta quella procedura di concordato preventivo, il cui piano non sia in grado di dimostrare la creazione di flussi monetari da destinare ai creditori concorsuali, o, quanto meno, che gli stessi non siano posti nella condizioni di subire il rischio di una gestione negativa o addirittura dissennata.

Oltre all'ovvietà della conclusione, ciò è ricavabile in modo inequivoco sia dal primo comma dell'

art

.

186-

bis

l.

f

all

., che dall'ultimo comma dello stesso articolo. Il primo richiama l'attenzione nella redazione del piano affinché questo esponga in modo analitico e dettagliato i costi e i ricavi previsti per la prosecuzione dell'attività, e riferisca altresì sulle risorse necessarie a finanziarla; il secondo, introducendo una fattispecie apparentemente nuova dell'

art

.

173

l. fall

., impone la cessazione della procedura, qualora questa si manifesti dannosa. Va da sé che, sulla base della stessa norma, nessuna ammissione sarebbe consentita ai concordati che manifestassero da subito nel proprio piano un effetto dannoso per i creditori concorsuali. Per la verità, l'ipotesi di interruzione della procedura poteva già ricavarsi dalla formulazione dell'ultimo comma dell'

art

.

173 l

.

f

all

., nella parte in cui disponeva farsi luogo alla revoca dell'ammissione ogni qual volta nella proposta fosse venuto meno il requisito della fattibilità. Ad ogni modo, con il citato ultimo comma dell'art. 186-bis il requisito della sostenibilità economica della gestione dei concordati in continuità viene elevato a criterio di fattibilità giuridica, sebbene, in via del tutto astratta, si potrebbe annoverare tra le valutazioni di fattibilità economica.

Ulteriore elemento che il legislatore ha preso a cuore fissando un principio imperativo è che la proposta di piano in continuità non potrebbe dimostrarsi degradante rispetto alla liquidazione del patrimonio, sia attuata secondo un criterio atomistico, ossia con la vendita parcellizzata dei beni, sia, a nostro giudizio, realizzata attraverso la cessione unitaria dei complessi aziendali. In tal senso dovrebbe essere letta la lettera b) del comma 2 dell'art. 186-bis, laddove richiede all'attestatore che la prosecuzione dell'attività debba dimostrarsi funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Appare evidente che la norma non si limita ad introdurre un mero elemento di tipo informativo, da sottoporre al vaglio dei creditori alla stregua di un dato valutativo di tipo economico, perciò rientrante nella sfera di un giudizio di convenienza, ma imponga alle proposte di concordato un vincolo inderogabile fondato sul principio, come già detto sopra, per il quale la proposta di concordato ed il piano non potrebbero generare indebite utilità a favore del debitore e consentire allo stesso, attraverso la presentazione di un concordato in continuità, di trattenere nella propria sfera giuridica valori maggiori rispetto a quelli ricavabili dalla liquidazione. Sarebbe come sottrarre beni ovvero quote di valore all'esecuzione individuale o collettiva. In sede di ammissione, quindi, il Tribunale non potrebbe consentire l'apertura della procedura laddove l'attestazione dicesse che dalla continuazione dell'attività i creditori potrebbero ricavare valori inferiori rispetto all'ipotesi liquidatoria. Si può in questa prospettiva affermare che il legislatore abbia elevato, anche un questo caso, un aspetto economico della proposta, in astratto rientrante in una valutazione comparativa, e quindi di convenienza, a requisito di fattibilità giuridica.

Norme fiscali come fattori determinanti nella scelta tra continuità e liquidazione

Ciò premesso, quello che qui interessa è vedere se al di là del dato economico, ossia dell'analisi dei possibili risultati attesi dalla continuità o dalla liquidazione giudiziale dei beni, sussistano dei fattori esogeni che possano influire sulla valutazione comparativa. E proprio da questa indagine si scopre che sono le norme tributarie dettate in tema di concordato preventivo che potrebbero, in astratto, favorire una delle due ipotesi.

Va detto che il legislatore, ancor prima della riforma tributaria del 1973 aveva preso in considerazione la disciplina del concordato preventivo, all'epoca caratterizzata da stingenti vincoli che ne limitavano, spesso, l'accesso. Ad ogni modo, anche allora il superamento dell'insolvenza si concretizzava con la possibilità per il debitore di proporre il pagamento in percentuale dei crediti, che oggi chiameremo, come recita l'

art. 160 l.

f

all

. ristrutturazione del debito, attuabile, prevalentemente, con la cessione di tutti i suoi beni, destinando il realizzo a soddisfare il pagamento della percentuale offerta.

Ora come allora, quel tipo di proposta ruota intorno a due eventi di tipo economico che, come tali, implicano una conseguenza sul piano contabile, a cui si associa un effetto fiscale. Stiamo parlando della riduzione del diritto di credito e della cessione dei beni il cui verificarsi si riverbera sulla dinamica contabile andando ad incidere sulla modalità di determinazione del risultato economico conseguito nella fase di attuazione della procedura.

Innanzitutto va ricordato che con l'ammissione alla procedura di concordato preventivo non si assiste ad una mutazione del soggetto a cui imputare la produzione del reddito, e ciò in ragione del fatto che il debitore, anche se sotto la vigilanza degli organi della procedura, non perde la gestione del suo patrimonio, rectius della sua azienda. Non cessano, infatti, gli obblighi di tenuta ed aggiornamento della contabilità, così come vanno regolarmente rispettate le scadenze fiscali, provvedendo all'invio delle dichiarazioni di natura tributaria.

Ciò premesso, com'è noto agli aziendalisti, con la riduzione del debito si genera un valore contabile positivo pari alla differenza tra l'ammontare originario e il debito risultante dall'accordo, denominata sopravvenienza attiva che andrà ad incidere sulla determinazione del reddito di periodo con effetto incrementale. Nel caso di imprenditore in bonis l'abbattimento negoziato del proprio debito rappresenta un evento straordinario, del tutto estraneo al conseguimento dello scopo economico e la sua inclusione tra i componenti positivi si giustifica, in astratto, perché elimina un debito che si è originato, verosimilmente, da un costo, a sua tempo trattato come un componente negativo nella determinazione del reddito fiscale.

Nel concordato preventivo si assiste ad una riduzione generalizzata della massa debitoria, che è l'effetto principale della proposta, e ciò produce, in linea di massima, un notevole volume di sopravvenienze pari al valore assoluto della parte di debito stralciato. E' evidente che, se questo volume dovesse essere assoggettato all'imposizione, il debitore sarebbe costretto e reperire risorse aggiuntive per poter soddisfare i creditore nella misura promessa, sottraendo le nuove risorse alla massa, o alternativamente, la percentuale di soddisfazione dovrebbe ulteriormente ridursi per far spazio alla somma dovuta all'Erario. Allo stesso tempo le sopravvenienze attive generatesi dal concordato producono un ulteriore effetto positivo, nell'ottica di superamento dell'insolvenza, che consiste nel rigenerare il patrimonio netto contabile eroso dalle perdite, in misura tale da eliminare, per i soggetti societari, la causa di scioglimento, permettendone la fuoriuscita dallo stato di liquidazione e il riposizionamento sul mercato, realizzando così lo scopo ultimo a cui tende la disciplina in esame, senza bisogno di iniezioni aggiuntive di capitale.

In questo scenario il legislatore fiscale, nel soppesare le esigenze di gettito e l'interesse a favorire un accordo tra il debitore ed i creditori finalizzato a superare l'insolvenza, ha optato a favore di quest'ultimo, evitando di mortificare gli obiettivi di soddisfazione dei creditori. Sono state rese pertanto fiscalmente irrilevanti le sopravvenienze attive generatesi dalla riduzione dei debiti d'impresa in sede di concordato preventivo (

art. 88, comma 4, Tuir

-

ex art. 55, comma 5, TUIR

-).

Peraltro, sullo stesso piano, il Decreto Sviluppo 2012 ha ampliato la portata della norma includendo anche le sopravvenienze attive conseguite a seguito degli accordi di ristrutturazione

ex art. 182-

bis

l.

f

all

. o dei piani di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), differenziandoli tuttavia, a livello quantitativo, poiché limitati alla somma eccedente le perdite fiscali utilizzabili.

Passando ora al secondo effetto economico rinvenibile nei concordati liquidatori, comunque da valutarsi in una prospettiva comparativa nei concordati che si poggiano su basi diverse, possiamo notare come il legislatore fiscale abbia mantenuto fede all'obiettivo di agevolare gli accordi tra debitore e creditore finalizzati al superamento dell'insolvenza. Anche in questo caso, infatti, il prelievo fiscale fa un passo indietro e la ricchezza generatasi dalla cessione del patrimonio risulterà esente dall'imposizione diretta lasciando spazio all'assegnazione integrale del prezzo di realizzo a favore dei creditori.

Va tuttavia rilevato che il legislatore ha formulato la norma per esentare le plusvalenze in un modo piuttosto ambiguo, denotando una scarsa dimestichezza con le dinamiche ed i principi di natura concorsuale. L'attuale comma 5 dell'

art. 86 TUIR

, che ha ereditato la formulazione originaria e risalente alla riforma tributaria del 1973, ipotizza di esentare la plusvalenze conseguite dalla cessione dei beni ai creditori, evento che, anche stando alla formulazione precedente dall'

art. 182 l.

f

all

., non si verificava mai, essendo la liquidazione devoluta agli organi nominati dal Tribunale e non direttamente eseguita a favore dei creditori. Sembrava quindi che l'agevolazione non fosse in concreto attuabile. Il dubbio è stato risolto dalla S. Corte, la quale ha chiarito che la ratio di tale norma è quella di “ridurre l'onere fiscale delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concordataria”; tale disposizione, pertanto, “malgrado le ambiguità della sua formulazione (…) riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato”

(

Cass., 4 giugno 1996, n. 5112

).

Ne consegue che l'agevolazione tributaria concessa dalla predetta disposizione ha ad oggetto non solo la “cessione dei beni ai creditori”, ma anche le vendite dei beni ceduti, effettuate (nei confronti di terzi) dal commissario giudiziale al fine di ricavare i mezzi liquidi necessari per soddisfare i creditori.

Favor fiscale per i concordati liquidatori

Chiarito il contesto in cui agisce la norma agevolativa, non ci resta che constatare che la sua portata non sembra operare al di fuori dei concordati di tipo liquidatorio, seppure intesi in senso lato, e dedurre che per i concordati in continuità non sembra siano applicabili sconti d'imposta della medesima portata.

I piani concordatari in continuità, in linea di principio, rispondono, infatti, ad un'ottica opposta rispetto ai piani liquidatori, poiché tendono ad assegnare ai creditori concorsuali la ricchezza prodotta dalla gestione del patrimonio aziendale, che, pertanto, viene trattenuto dal debitore per essere destinato a quello scopo. Saranno quindi gli utili futuri, ritraibili dall'andamento dei flussi reddituali, a garantire il pagamento dei crediti concorsuali, in un quadro di ragionevole aspettativa espressa nel piano attraverso l'analisi dei ricavi e costi a cui fa riferimento il comma 2 dell'

art.

186-

bis l

. fall

. Comparando tali fattori nel corso del tempo entro il quale il debitore intende completare il pagamento offerto, si evidenzieranno gli utili, o ancora meglio, le risorse finanziarie o i flussi di cassa a ciò destinati, che non origineranno da plusvalenze da cessione del patrimonio, ma dal conseguimento di volumi di fatturato, ossia da quei fattori economici individuati, nella tecnica contabile, tra i ricavi.

Ed è proprio nell'elaborazione del piano in continuità che il redattore si imbatterà nell'effetto fiscale e dovrà porsi il problema dell'assoggettamento degli utili di periodo all'imposizione, problema al quale non potrà che dare una risposta positiva, decidendo per la loro tassazione.

Ma se questa è la risposta, come pare inevitabile, dobbiamo prendere atto dell'esistenza di un fattore esterno che, nella medesima realtà aziendale, contaminerà il raffronto tra l'ipotesi di un concordato in continuità e quella di un concordato liquidatorio, facendo pendere la bilancia a favore di quest'ultimo, con l'effetto di non rendere praticabile, in quanto meno conveniente, la proposizione di un concordato in continuità tutte le volte in cui il prelievo fiscale eroda la quota di ricchezza generata dalla gestione fino a ridurla rispetto al realizzo ottenibile della vendita dei cespiti, anche se il maggior risultato della liquidazione non sia attribuibile direttamente al debitore. Unica salvezza per il concordato in continuità è che il debitore abbia accumulato perdite fiscali in misura sufficiente da coprire i redditi futuri, circostanza che, per la verità, si verifica di frequente, ma che non può essere definita una regola. Peraltro il meccanismo di riporto delle perdite pregresse, introdotto nel 2011, prevede sì che le stesse siano integralmente utilizzabili, ma con un limite dell'80% degli utili di periodo, stando a significare che almeno una quota del 20% degli utili conseguiti nei primi esercizi dovranno comunque scontare l'imposta.

La conseguenza è che sembra di assistere ad un'evidente ed irrimediabile disparità, poiché mentre nel concordato liquidatorio i creditori potranno usufruire integralmente e senza restrizioni (salvo ovviamente i costi della liquidazione) dei flussi monetari conseguiti dalla liquidazione del patrimonio, nel concordato in continuità essi vedranno ridursi quel flusso per effetto del prelievo fiscale, e ciò indipendentemente dalla dinamica con cui il debitore intenda proseguire l'attività.

Vi è però un dato normativo sul quale vale la pena soffermarsi prima di rassegnarsi definitivamente a prendere atto dell'evidente disparità. Il comma 5 dell'

art. 86 Tuir

, nell'individuare le fattispecie di beni la cui cessione potrebbe dar luogo a plusvalenze esenti, include quelle originatesi dalla vendita del magazzino, mettendo sullo stesso piano, a livello contabile, i corrispettivi della cessione dei beni alla cui produzione o scambio è diretta l'attività dell'impresa, che rappresentano ricavi, ed i corrispettivi dei beni diversi, principalmente destinati a costituire le immobilizzazioni materiali. E' evidente che l'anomalo accostamento tra ricavi e plusvalenze risponda all'idea che nei concordati liquidatori, qualsiasi tipologia di trasformazione monetaria dei beni inclusi nel patrimonio debba avere lo stesso trattamento fiscale essendo comunque indistintamente destinate al pagamento, parziale, dei creditori concorsuali. In altre parole, anche nell'ambito del conseguimento dei ricavi concordatari il legislatore fiscale antepone le ragioni dei creditori a quelle di gettito, in una prospettiva che vede la necessità di dotare il sistema delle imprese di uno strumento di composizione negoziata della crisi, sotto la tutela giurisdizionale.

Ma proprio l'apparente diretto riferimento ai concordati con cessione dei beni, e quindi liquidatori, sembra circoscriverne la portata della norma, lasciando fuori i concordati in continuità, anche se nell'ambito del piano di prosecuzione dell'attività dell'impresa fosse prevista la dismissione del magazzino, ovvero la sua rigenerazione attraverso la nuova produzione.

Stando cosi le cose, non resta che auspicare un intervento legislativo che equipari sotto il profilo fiscale il concordato in continuità con il concordato liquidatorio, escludendo dall'imposizione gli utili di periodo destinati al pagamento dei creditori concorsuali.

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