Speciale Decreto Sviluppo-bis: composizione delle crisi da sovraindebitamento: il profilo della fattibilità nell'accordo e nel piano

25 Gennaio 2013

La composizione delle crisi da sovraindebitamento, nella nuova disciplina introdotta dal c.d. Decreto Sviluppo-bis, che ha significativamente modificato la l. n. 3/2012, offre una diversificazione degli strumenti per affrontare distinte situazioni di crisi, a seconda che si tratti di consumatore o di debitore civile non fallibile.L'Autore si sofferma sull'attestazione di fattibilità del piano o dell'accordo, ad opera dell'organismo di composizione della crisi, che costituisce la fase centrale in entrambe le procedure.
Premessa: l'“accordo” e il “piano”, ovvero genus ad speciem

Il legislatore ci riprova. Dopo l'evidente fallimento della prima versione della disciplina della crisi da sovraindebitamento individuale, il cosiddetto "Decreto Sviluppo-bis" viene ad operare una profonda ristrutturazione della

legge 3/2012

, al punto da poter tranquillamente dire che ci si trova di fronte a un testo normativo del tutto diverso e, auspicabilmente, finalmente idoneo a costituire uno strumento per la risoluzione quanto meno parziale di quel problema ormai gravemente diffuso che è il sovraindebitamento dei "piccoli" imprenditori, dei consumatori e, non si dimentichi, anche dei professionisti.

Una delle ragioni del naufragio della prima versione della legge era indubbiamente costituita (come riconosciuto dalla stessa relazione accompagnatoria del decreto) dalla scarsa versatilità dell'unico procedimento in essa contemplato, ricalcato alla lontana sull'accordo di ristrutturazione, ed imperniato su una soluzione di tipo negoziale fortemente dipendente dalla adesione degli altri creditori.

Il Decreto Sviluppo-bis tenta di porre un rimedio a questi evidenti limiti muovendosi su una pluralità di direzioni. Da un lato, nella consapevolezza di una comunque persistente diversità tra il consumatore e le altre categorie di soggetti non fallibili, esso viene ad operare una diversificazione degli strumenti per affrontare le distinte situazioni di crisi, introducendo la nuova figura del “piano del consumatore”. Dall'altro lato, nel ridefinire i caratteri di quello che era l'originario unico procedimento di composizione della crisi (e che adesso diventa invece il cosiddetto "accordo di composizione della crisi"), ne modifica significativamente i tratti somatici facendone una figura più affine al concordato, e quindi in grado di vincolare anche i creditori non aderenti, riconducendo tale procedura (sia pure nella profonda diversità tra le procedure disciplinate dalla

legge fallimentare

) nell'ambito di quelle concorsuali.

I due procedimenti si caratterizzano per un rapporto di genere a specie sul piano soggettivo, nel senso che mentre l'accordo può essere promosso da tutti i soggetti sovraindebitati, il piano è invece riservato al solo consumatore (come definito dall'art. 6, comma 2, lett. b, ricalcando peraltro in modo significativo la definizione già fornita dal Testo Unico sul consumo) con la conseguenza che quest'ultimo costituisce l'unica tipologia soggettiva che può godere di una facoltà di scelta tra le due procedure.

La differenza fondamentale tra l'accordo ed il piano consiste nel fatto che il primo rimane ancora imperniato su una fase centrale di consultazione dei creditori, il cui voto favorevole nella misura minima stabilita dalla legge continua a condizionare la definitiva possibilità di omologare l'accordo, ma presenta, rispetto alla prima versione della legge, la novità fondamentale della idoneità dell'accordo a vincolare anche i creditori non aderenti. Diversamente, il piano non presenta come passaggio intermedio quello della votazione dei creditori, ma approda direttamente all'omologazione del tribunale, cui viene quindi attribuito il rilevante potere di "decidere per i creditori", potendo questi ultimi intervenire nella procedura solo nel momento della formulazione delle "contestazioni".

È proprio l'affinità esistente tra le due procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, da un lato, e le procedure di risoluzione della crisi di impresa diverse dal fallimento, dall'altro, che ha indotto il legislatore a mutuare non solo diversi profili procedurali, ma anche fondamentali presupposti strutturali di queste ultime. Tra tali presupposti si deve indubbiamente annoverare quello della fattibilità, la quale, conseguentemente, viene a condizionare non solo la proponibilità dell'accordo e del piano, ma anche la stessa sopravvivenza delle procedure sino al momento dell'omologazione.

La fattibilità come presupposto dell'accordo e del piano

Che la fattibilità costituisca presupposto comune dell'accordo e del piano, emerge in modo univoco da ben due previsioni. La prima è costituita dal comma 2 dell'art. 9, che indica, tra i documenti che devono essere depositati a supporto della proposta, anche l'attestazione sulla fattibilità del piano. La seconda è costituita dal comma 6 dell'art. 15, che attribuisce espressamente agli organismi di composizione della crisi il compito di verificare non solo "la veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati" ma anche di attestare "la fattibilità del piano ai sensi” - appunto - “dell'articolo 9, comma 2".

Può apparire quasi una superflua puntualizzazione, ma non sembra inopportuno chiarire che il riferimento alla fattibilità del piano coinvolge sia la procedura di accordo di composizione della crisi sia il piano del consumatore. Entrambe le procedure, infatti, si imperniano su un piano, laddove ciò che le differenzia è il fatto che nell'accordo il piano costituisce elemento costitutivo di una proposta che deve riscuotere il voto favorevole della maggioranza dei creditori, mentre nel caso del piano del consumatore ci si trova di fronte al solo piano, appunto, giacché l'omologazione dello stesso non è subordinata ad una consultazione collettiva dei creditori bensì al giudizio diretto del tribunale. Si deve, anzi, rilevare che il riferimento - contenuto in diverse norme - alla "proposta di piano del consumatore" appare linguisticamente improprio, dal momento che una proposta è indirizzata al perfezionamento di un accordo, mentre il tribunale - ovvio dirlo - non raggiunge alcun accordo con il consumatore, ma semmai accoglie un ricorso indirizzato a conseguire l'omologazione del piano.

Conferma indiretta, ma eloquente della puntualizzazione poc'anzi svolta è costituita dal comma 3-bis dello stesso art. 9, laddove si prevede che alla proposta di piano del consumatore sia "altresì" allegata una ulteriore relazione particolareggiata dell'organismo di composizione della crisi, risultando in tal modo evidente che il piano del consumatore dovrà comunque essere accompagnato da tutta la documentazione accessoria prevista per la proposta di accordo di composizione della crisi, e quindi anche dalla attestazione sulla fattibilità del piano.

Quanto all'oggetto di tale attestazione, esso emerge in modo nitido dall'insieme di previsioni che delineano caratteri e contenuto sia dell'accordo che del piano. Ciò significa che l'attestazione dovrà, tra l'altro, concernere:

Si ripropongono, a questo punto, tutte le acquisizioni compiute dalla giurisprudenza di merito in relazione alla attestazione di fattibilità nel concordato preventivo e nell'accordo di ristrutturazione dei debiti.

Ciò significa, in primo luogo, che l'attestazione di fattibilità redatta dall'organismo di composizione della crisi dovrà necessariamente (come chiarito dallo stesso legislatore) prendere le mosse da una verifica sulla veridicità dei dati forniti dal debitore, per poi approdare in modo argomentato al giudizio prognostico di fattibilità. Giudizio che - non si dimentichi - presenta l'ulteriore profilo di estrema delicatezza costituito dalla sanzione penale per la falsa attestazione di cui al comma 2 dell'art. 16. Né, ovviamente, la possibile responsabilità del soggetto che ha predisposto l'attestazione si arresterà al profilo penale, considerata la possibilità di essere chiamato a rispondere altresì in sede civile da tutti i soggetti che risultino danneggiati da un'attestazione falsa o comunque viziata da una inattendibilità riconducibile a dolo o grave negligenza. Anche in tal caso risultano del tutto applicabili i principi già elaborati in sede teorica sulla responsabilità dell'attestatore, e sul profilo problematico della riconducibilità della medesima all'area della responsabilità extracontrattuale o all'area della responsabilità cosiddetta da "contatto sociale".

Si deve solo aggiungere, infine, che un simile approdo non sembra essere troppo rigido nei confronti degli organismi di composizione della crisi. Non si dimentichi, infatti, il ruolo multiplo svolto da queste innovative figure, le quali non solo hanno il compito di redigere una serie di attestazioni e valutazioni, ma, prima ancora, collaborano con lo stesso editore nella preliminare fase di elaborazione dello stesso piano. Ciò significa che l'organismo di composizione della crisi avrà modo di tutelarsi sin dall'inizio, in primo luogo sovraintendendo alla raccolta di quei dati sulla cui veridicità è successivamente chiamato ad esprimersi; ed in secondo luogo contribuendo in modo determinante alla elaborazione di quel piano la cui fattibilità poi dovrà attestare. Se problemi emergono, quindi, essi concernono non tanto il rischio di un trattamento eccessivamente severo di eventuali mancanze dell'organismo di composizione della crisi, quanto il problema di evitare concrete situazioni di conflitto di interessi (o comunque di feed-back) che potrebbero rivelarsi idonee a minare non semplicemente l'esito di singole procedure, ma soprattutto l'affidabilità delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento come strumenti generali.

In secondo luogo la rilevanza dell'attestazione di fattibilità comporta che la stessa sia oggetto di quel vaglio preliminare che il comma 3-ter attribuisce al giudice già in fase di presentazione. La previsione opera un riferimento espresso unicamente alla richiesta di integrazioni della proposta ed alla sollecitazione alla produzione di nuovi documenti, ma appare del tutto logico e legittimo ritenere che il tribunale possa rilevare in via preliminare la inadeguatezza dell'attestazione quanto meno sotto il profilo logico argomentativo. Si tratta di quel controllo di legittimità formale che è già stato individuato ed esercitato dalla migliore giurisprudenza di merito in sede di presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, richiedendo che l'attestazione stessa risultasse coerente, completa ed immune da vizi logici. Non si dimentichi, del resto, che tale attestazione verrà a costituire profilo fondamentale dell'insieme di informazioni su cui si dovrà formare l'adesione dei creditori alla proposta di accordo, non essendo prevista (a differenza del concordato preventivo, e similmente, invece, all'accordo di ristrutturazione) la nomina di un professionista terzo che segua la procedura quale ausiliario del giudice.

Conseguentemente, il tribunale potrà sicuramente rilevare la incompletezza dell'attestazione (quando la stessa non si soffermi su tutti i punti necessari a consentire di affermare la fattibilità del piano), oppure l'assenza nella medesima della coerenza logica o del diretto riscontro nei dati assunti come base dell'attestazione medesima, assegnando conseguentemente il termine previsto dalla stessa legge per procedere alla integrazione dell'attestazione (cfr. Lamanna, Composizione delle crisi da sovraindebitamento: poteri e funzioni del tribunale, in ilFallimentarista.it).

Correlati a tali considerazioni - ma distinti da esse - sono due interrogativi.

Non è inutile premettere che il controllo effettuato dal giudice nella fase di presentazione della proposta di accordo o di piano presenta profili di particolare delicatezza, che vanno distinti in relazione al tipo di procedura. Nel caso di accordo di composizione della crisi, infatti, il decreto di fissazione dell'udienza per l'omologa ha come conseguenza immediata non solo la trascrizione del decreto stesso qualora il piano preveda la cessione o l'affidamento terzi dei beni immobili o di beni mobili registrati; ma, soprattutto, l'attivazione di quella forma di protezione anticipata che viene disciplinata dall'art. 10, comma 2, lett. c), con il conseguente blocco delle azioni esecutive e dei sequestri conservativi. Nel caso del piano del consumatore, invece, la delibazione preliminare del giudice assume un valore prognostico sull'esito della procedura di notevole rilevanza, dal momento che non vi è fase di voto da parte dei creditori, e che quindi il rovesciamento di tale giudizio in sede di omologa potrebbe essere provocato unicamente o dal sopravvenire di fatti non contemplati all'inizio nel piano o dalla deduzione di fatti prima non conosciuti, da parte dei creditori che si oppongono all'omologazione medesima. Né si dimentichi che, anche nell'ipotesi di fissazione dell'udienza di omologazione del piano del consumatore, al Giudice viene conferito un, seppur limitato, potere discrezionale di concessione di protezione anticipata (art. 12-bis, comma 2), subordinato proprio ad una valutazione di incidenza della singola procedura esecutiva, di cui si dispone del blocco, sulla complessiva fattibilità del piano.

Svolte tali considerazioni, appare evidente che la delibazione preliminare del tribunale presenta conseguenze di notevole impatto sull'interesse dei soggetti coinvolti nella procedura, e che pertanto - passando all'esame del primo dei due quesiti - appare comunque inopportuno procedere ad un arresto immediato della procedura qualora l'attestazione di fattibilità si presenti carente, senza concedere termine alcuno per la sua integrazione. Diverso è il discorso qualora, rilevate criticità dell'attestazione e concesso il termine di legge per l'integrazione del piano, le carenze risultino ancora sussistenti (o addirittura non si sia proceduto alla richiesta integrazione). Poiché, tuttavia, il profilo della fattibilità costituisce presupposto del piano in entrambe le procedure, sembra inevitabile concludere che, qualora il tribunale ritenga insussistente tale profilo anche dopo aver concesso il termine, esso non possa procedere alla fissazione dell'udienza per l'omologazione, ma debba dichiarare inammissibile la proposta, fermo restando, sul piano squisitamente operativo, che una simile decisione dovrebbe essere limitata ai casi di evidente inadeguatezza, e che in caso di dubbio dovrebbe prevalere un certo favore nei confronti dell'apertura delle procedure stesse.

Qualora si ritenga - come si è opinato poc'anzi - che la fattibilità del piano costituisca presupposto della procedura, appare inevitabile concludere nel senso della impossibilità che l'Organismo di Composizione della Crisi possa far accompagnare ad una proposta di accordo o di piano un proprio parere negativo sulla fattibilità, giacché il parere positivo verrebbe ad integrare un presupposto di ammissibilità stessa della proposta. Il che significherebbe, con riferimento al secondo quesito, che appare difficilmente configurabile in radice una situazione di dissenso del giudice rispetto alla valutazione negativa del organismo di composizione della crisi. Qualora, tuttavia, si ritenga sussistente un obbligo di trasmissione della domanda anche quando l'Organismo di Composizione della Crisi esprima un giudizio negativo di fattibilità (Lamanna, Composizione delle crisi, cit.), sembra possibile ipotizzare un margine di dissenso del Tribunale, il quale potrebbe - magari a fronte di controdeduzioni del debitore (o della produzione di una attestazione di fattibilità proveniente da altro professionista esperto) - ritenere di dar comunque corso alla procedura.

La fattibilità nella fase di omologazione dell'accordo

Il decreto con cui il tribunale, verificata la completezza della documentazione, fissa l'udienza per la successiva omologazione costituisce il punto di snodo, a partire dal quale gli sviluppi dell'accordo di composizione della crisi e del piano del consumatore cominciano parzialmente a divergere lungo le rispettive peculiarità.

Qualora la proposta che è alla base dell'accordo riscuota le adesioni tacite o espresse della maggioranza qualificata dei creditori, si apre la fase di omologa del medesimo, la quale vede come passaggio fondamentale, immediatamente anteriore all'udienza vera e propria di omologazione, quello della trasmissione al Tribunale da parte dell'organismo di composizione della crisi di una attestazione "definitiva" sulla fattibilità del piano (art. 12, comma 1).

Si tratta di una previsione di notevole importanza nell'ambito dell'architettura generale della procedura perché, a differenza ad esempio del concordato (

art. 180 l. fall

.), la norma contiene un espresso ed esclusivo riferimento alla valutazione di fattibilità e non ad un generico parere. Ulteriormente si deve rilevare che, poiché le operazioni di manifestazione del consenso dei creditori si sono già esaurite al momento dell'invio di questa attestazione, risulta evidente che la stessa è destinata non ai creditori (affinché gli stessi possano prestare un consenso adeguatamente informato), bensì al tribunale, e cioè al giudice chiamato a definitivamente omologare l'accordo. Ci si trova, pertanto, di fronte a un chiaro segnale ermeneutico favorevole alla tesi della sussistenza di un diretto potere del tribunale in ordine alla verifica e valutazione di fattibilità, la quale quindi (diversamente da quanto opinato da taluni in relazione al concordato preventivo) non può ritenersi riservata ai creditori.

L'attestazione dovrà, in primo luogo, tenere conto del quadro informativo eventualmente ampliatosi a seguito delle operazioni di voto dei creditori e, soprattutto, delle contestazioni che questi ultimi possono muovere dopo aver ricevuto la relazione che l'organismo di composizione della crisi deve predisporre con riferimento ai consensi espressi ed al raggiungimento della percentuale di legge. Questi passaggi, infatti, potranno evidenziare fattori favorevoli oppure ostativi alla attuabilità del piano, come nel caso in cui crediti inizialmente computati risultino inesistenti o di minore ammontare; oppure si rilevi l'esistenza di crediti inizialmente non calcolati nel piano; oppure ancora si debba constatare la natura privilegiata di crediti ritenuti chirografari, o viceversa. In secondo luogo, l'attestazione dovrà tener conto di ulteriori fattori sopravvenuti alla originaria predisposizione del piano, e tali da incidere sulla fattibilità dello stesso.

Che il giudizio di fattibilità rientri nell'ambito delle valutazioni finali del giudice che procede all'omologazione, emerge in modo chiaro dall'art. 12, comma 2, laddove viene previsto che l'omologazione dell'accordo è subordinata alla verifica da parte dello stesso giudice della idoneità del piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili nonché il pagamento integrale dei crediti di cui all'art. 7, comma 1, terzo periodo. Tale valutazione di idoneità coincide infatti con uno degli oggetti della valutazione di fattibilità che deve accompagnare sin dall'inizio la presentazione dell'accordo.

Poiché la verifica viene effettuata dopo il deposito dell'attestazione definitiva ed in presenza di un quadro cognitivo più ampio e completo, è evidente che la stessa potrebbe divergere dall'iniziale valutazione positiva che il tribunale è già venuto a compiere in sede di apertura della procedura. Parimenti, per coloro che ritengono che il tribunale possa dar luogo alla procedura anche in presenza di una attestazione negativa dell'organismo di composizione della crisi, sarà possibile in sede di omologa ribaltare il giudizio favorevole (dissenziente rispetto a quello del organismo) formulato in precedenza, per approdare ad una valutazione definitivamente negativa.

La fattibilità nella fase di omologazione del piano

Come già accennato in precedenza, nel caso del piano del consumatore il profilo della fattibilità si presenta ancora più nevralgico, stante l'assenza del momento di raccolta delle adesioni dei creditori, e la conseguente assenza della possibilità per questi ultimi di valutare in modo autonomo la fattibilità.

Proprio per questo l'art. 12-bis, comma 2, sancisce in modo espresso ed inequivoco il potere del giudice di operare la verifica della fattibilità del piano, con particolare riferimento all'idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili, nonché dei crediti di cui all'art. 7, comma 1, terzo periodo.

È indubbio che la verifica del giudice potrà tenere conto anche delle indicazioni fornite dai creditori, ben potendo la contestazione circa la fattibilità del piano rientrare nell'ambito della locuzione "ogni altra contestazione" di cui all'art. 12-bis, comma 3. La delicatezza del profilo della valutazione del tribunale rende non inopportuna l'eventuale decisione del giudice, in sede di omologazione, di sollecitare all'organismo di composizione della crisi una ulteriore valutazione (anche se non prevista dalla legge), nonché di compiere atti istruttori che consentano di formulare la valutazione con pienezza di cognizione. Risulta conseguentemente evidente che la decisione del giudice dovrà tener conto non solo delle informazioni eventualmente fornite dai creditori opponenti, ma di ogni altro elemento di cognizione che possa essere utilmente acquisito in sede di omologazione; e che dovrà estendersi anche agli eventuali fatti sopravvenuti che rendano non più fattibile un piano originariamente caratterizzato dal idoneità. Anche in questo caso, pertanto, è perfettamente prospettabile una "ripensamento" del Giudice rispetto all'originaria valutazione espressa in sede di apertura della procedura.

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