La responsabilità penale dell’amministratore di fatto nel fallimento della società

07 Marzo 2013

Alcune recenti sentenze della S. Corte di cassazione hanno riacceso le luci su un problema spesso sottoposto al vaglio della giurisprudenza, quello della responsabilità dell'amministratore di fatto e della applicabilità a questo soggetto della disciplina penalistica in materia di bancarotta.
Premessa. L'evoluzione della dottrina e della giurisprudenza

Alcune recenti sentenze della S. Corte di cassazione hanno riacceso le luci su un problema spesso sottoposto al vaglio della giurisprudenza, quello della responsabilità dell'amministratore di fatto e della applicabilità a questo soggetto della disciplina penalistica in materia di bancarotta.

È interessante notare che, in tema di amministratore di fatto, nel tempo, a quesiti più generali si sono aggiunti, come affluenti di un corso d'acqua, problemi più specifici, nascenti dall'intreccio di disposizioni differenti e dalla rilevazione, nella pratica, di fattispecie non del tutto chiare. Vale la pena, pertanto, tentare di analizzare alcuni di questi aspetti, per evidenziare, alla luce delle suddette pronunce, i risultati dell'analisi giurisprudenziale e le eventuali zone d'ombra ancora esistenti.

A questo scopo ritengo che in primo luogo occorra dar conto, seppure in modo necessariamente sintetico, dell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale relativa al problema dell'inquadramento generale della figura dell'amministratore di fatto di una società. Evoluzione che è stata caratterizzata dal passaggio da una posizione decisamente restrittiva, che negava in modo quasi assoluto la possibilità anche solo di concepirne la configurabilità sotto il profilo giuridico, ad una più permissiva.

Fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso ha trovato quasi costante accoglimento la posizione secondo cui, colui che si fosse ingerito nella gestione della società senza il consenso dell'assemblea non poteva essere considerato amministratore e, pertanto, in caso di danni arrecati, avrebbe dovuto rispondere nei limiti e secondo i principi dell'

art. 2043 c.c.

Tale impostazione derivava dalla convinzione che, nell'ambito del diritto societario, l'assunzione delle responsabilità legate allo svolgimento della funzione amministrativa richiedeva come passaggio imprescindibile e preliminare l'instaurazione di un rapporto organico con la società; di un atto, dunque, quanto meno implicito, ma collegiale, di preposizione, atto proveniente dal competente organo societario e assolutamente non sostituibile con un qualsiasi altro tipo di consenso, anche se unanime, manifestato individualmente dai singoli soci (

V. G. Cottino, Le Società

-

Diritto Commerciale, Padova, 1999, 411

).

Col passare del tempo, però, imprescindibili esigenze di giustizia sostanziale hanno spinto la giurisprudenza a riconoscere la configurabilità in concreto della figura dell'amministratore di fatto, affermando che le norme concernenti l'attività degli amministratori, regolando il corretto svolgimento dell'amministrazione della società, devono risultare applicabili anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza avere ricevuto da parte dell'assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita.

La Corte di cassazione, in particolare, con una fondamentale decisione del 14 settembre 1999 (

n. 9795/1999

) ebbe modo di affermare che la sussistenza di un amministratore di fatto è configurabile, ma soltanto qualora il soggetto svolga in via di fatto funzioni gestorie con carattere sistematico, e che pertanto tali funzioni, per essere rilevanti, non possono esaurirsi nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale (v. anche

Cass. 6 marzo 1999, n. 1925

).

È noto che, nella maggior parte dei casi, l'esistenza di un soggetto che esercita di fatto funzioni gestorie è motivata o dall'impossibilità per costui di assumere la qualifica di amministratore vero e proprio (per esempio in presenza di cause di ineleggibilità preesistenti o sopravvenute) (

N. Abriani, Gli amministratori di fatto nelle società di capitali, Milano, 1998; A. Guerrera, Gestione di Fatto e funzione amministrativa nelle società di capitali, in Riv. Dir. Comm., 1999, 1, 131 ss.

), oppure dalla volontà di sfuggire in qualche modo alla responsabilità che dall'attività di gestione deriva. E proprio la rilevazione della sempre maggiore frequenza di queste ipotesi ha indotto a delimitare prima, e sanzionare poi adeguatamente, i tentativi di elusione, soprattutto sotto il profilo penale, anche in considerazione del fatto che, già alla fine del XIX secolo, l'espressione “amministratore di fatto” era pacificamente utilizzata dalla giurisprudenza penalistica per indicare quei soggetti che, pur non essendo formalmente degli amministratori con valida e regolare nomina, avevano di fatto esercitato dei poteri direttivi di gestione.

In ambito civilistico, invece, fino alle sentenze della

Cassazione del 1999

, le opinioni erano sostanzialmente divise in due correnti opposte: mentre in giurisprudenza si negava decisamente la possibilità di ricorrere alla figura dell'amministratore di fatto se non nei casi in cui un'investitura vi fosse, anche se irregolare o implicita, una parte consistente della dottrina contestava tale ricostruzione, affermando la necessità di tutelare altri interessi meritevoli di tutela (

N. Abriani, Dalle nebbie della finzione al nitore della realtà: una svolta nella giurisprudenza civile in materia di amministratore di fatto, in Giur. Comm., 2000, II, 167; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Milano, 1992

).

Il cambiamento di rotta adottato dalla Cassazione nel 1999 testimoniò la volontà di condividere le perplessità della dottrina relativamente alla difficoltà di ricorrere alla controversa categoria delle deliberazioni implicite e ricondusse la fattispecie dell'amministratore di fatto nell'alveo dei rapporti contrattuali di fatto, ossia di rapporti che assumono rilevanza, sul piano giuridico, a prescindere dall'esistenza della corrispondente fattispecie negoziale, e danno luogo “al sorgere di vincoli che vanno al di là del semplice dovere di rispetto dei diritti altrui, indipendentemente dalla ricorrenza di un conforme intento negoziale delle parti interessate” (

Cass. 14 settembre 1999, n. 9795

, cit.

). Rimaneva ancora incerta però la individuazione dei parametri più adeguati per l'identificazione dell'amministratore di fatto, vista l'obiettiva difficoltà di dimostrare il compimento di atti che, per numero e natura permettano di ritenere dimostrata la fattispecie.

Fatte queste doverose premesse, si tratta ora di addentrarsi un po' più nello specifico per individuare alcuni nodi interpretativi che sono stati evidenziati recentemente.

L'amministratore di fatto nelle società di persone

Primo fra tutti, quello della configurabilità dell'amministratore di fatto nelle società di persone. La Corte di cassazione, in particolare, con una sentenza del

2007

(

Cass. 20 luglio 2007

,

n. 29337

) ha individuato alcuni indici da cui si potrebbe desumere l'esistenza di un amministratore di fatto all'interno di una società di persone ed ha poi concluso per l'applicabilità allo stesso del reato di bancarotta fraudolenta documentale

ex ar

t. 216, comma 1, n. 2 l. fall

.

Con riferimento al problema dell'amministratore di fatto di società di persone, sembra necessario rilevare preliminarmente che è ancora dominante la tesi secondo cui nelle società di persone solo i soci possono assumere la carica di amministratori. Tale soluzione trova conforto in due considerazioni.

  • La prima, di carattere normativo, attiene al tenore letterale delle disposizioni previste agli

    artt. 2257

    e

    2258 c.c

    .

    L'

    art. 2257 c.c.

    , come è noto, stabilisce che, “Salva diversa pattuizione (2258), l'amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri”. La diversa pattuizione cui ci si riferisce è prevista all'art. 2258, che prevede appunto l'amministrazione congiuntiva, ma sempre ad opera di soci. Con riferimento poi, in particolare alla disciplina della società in accomandita semplice, l'

    art. 2318, comma 2, c.c.

    , stabilisce che l'amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari.

  • La seconda considerazione è che l'attribuzione della carica di amministratori ai soli soci della società di persone è giustificata nella misura in cui soltanto ad essi sono riservati la direzione e il rischio dell'impresa, e in definitiva la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (F. Galgano, Diritto Commerciale, Le Società, XVI ed., Bologna, 2006,. 66 ss.; F. Belviso, Contratto di società e contratto di amministrazione nelle società di persone, in Riv. Soc., 2001, 716 ss.). Il conferimento a soggetti estranei alla compagine sociale è ammessa soltanto per singoli affari, in base ad un mandato institorio, espresso o tacito. Si tratta, a ben vedere, di una situazione analoga a quella prevista per il socio accomandante che venga, tramite una procura ad hoc, incaricato di compiere uno o più affari, sempre determinati e isolati nel tempo. Ne consegue che, come appunto nel caso del socio accomandante, anche in quello del non socio è da ritenere esclusa la possibilità che a costui venga attribuito il potere di compiere tutti gli atti relativi all'amministrazione sociale, senza che il preponente possa interferire né opporsi alle sue operazioni, così come l'altra possibilità che tutti gli amministratori rinuncino al potere di amministrazione in favore di un estraneo che, per giunta, non assume il rischio di impresa.

In considerazione di quanto sopra, mi pare molto difficile che si possa giungere alla conclusione che, nel caso di un soggetto che svolge attività gestoria di fatto in una società di persone, si tratti di amministratore di fatto non socio. Lo svolgimento di un'attività gestoria da parte di un soggetto non socio, a mio parere, innesca quel particolare meccanismo di attribuzione automatica della responsabilità illimitata e solidale per le obbligazioni sociali che sta alla base del fenomeno del socio di fatto ovvero del socio occulto di società palese. Con il che si giunge a ricondurre la fattispecie dell'amministratore di fatto di società di persone nell'alveo applicativo dell'

art. 147 l. fall

. che prevede appunto la fattispecie del socio occulto o del socio di fatto, estendendo automaticamente la dichiarazione di fallimento anche a costoro. Ritengo pertanto che il problema della disciplina dell'amministratore di fatto di una società di persone sia in definitiva un non problema, visto che, comunque, costui va considerato un vero e proprio socio della società a tutti gli effetti, anche a quello penale.

Sotto tale ulteriore profilo, allora, l'attribuibilità del reato di bancarotta troverà fondamento in due norme differenti. Per le società di persone, posto che, accettando le considerazioni appena formulate, tutti i soci illimitatamente responsabili (compresi quelli di fatto, amministratori o meno) sono dichiarati falliti, la norma cui fare riferimento è l'

art. 222 l. fall

. secondo cui “nel fallimento delle società con soci in nome collettivo e in accomandita semplice le disposizioni del presente capo (reati commessi dal fallito) si applicano ai fatti commessi dai soci illimitatamente responsabili”. La norma, nonostante la sua linearità è stata spesso oggetto di interpretazioni differenti, soprattutto con riferimento alla sua applicabilità ai fatti commessi dal socio sul patrimonio della società oppure anche ai fatti commessi da costui sul patrimonio personale (

V. Antolisei, Manuale di diritto penale, leggi complementari, II, 142

).

L'amministratore di fatto nelle società di capitali

Per le società di capitali il discorso è un po' più complesso, e in quanto tale va considerato alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza. In merito alla applicazione all'amministratore di fatto di società di capitali delle norme sui reati fallimentari sono attualmente rilevabili due distinti orientamenti dottrinali: il primo afferma che un soggetto privo di una regolare investitura può essere chiamato a rispondere per reati di bancarotta soltanto in quanto extraneus, ossia concorrente in un reato proprio (

M. Romano, Profili penalistici del conflitto di interesse dell'amministratore di società per azioni, Milano, 1967, 20 ss.; A. Alessandri, Impresa (responsabilità penali), in Dir. Dis. Pen., 1992, 206; A. Fiorella, I principi generali del diritto penale dell'impresa, in Il diritto penale dell'impresa, a cura di L. Conti, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia diretto da F. Galgano, vol. XXV, Padova, 2001, 56 ss.

). Questo sulla base del fatto che, trattandosi di un reato attribuibile, secondo la

legge fallimentare

, soltanto all'amministratore vero e proprio, la qualifica soggettiva connessa all'investitura è indispensabile per la configurazione del reato.

Altri, invece, a favore di una teoria meno restrittiva, sostengono la necessità che venga chiamato a rispondere a titolo di diretto destinatario della norma colui che si trova concretamente nella posizione tale da poter ledere il bene giuridico tutelato dalla norma stessa (A. Pagliaro, Problemi attuali del diritto penale fallimentare, in Ind. Pen., 1985, 20 ss.; A. Rossi Vannini, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico, cit., 314; R. Bricchetti, Tipologia della bancarotta con riguardo ai soggetti attivi del reato, in Bancarotta e reati societari). Nella sentenza n. 29337 del 2007 la Corte di Cassazione ritenne che l'amministratore di fatto rispondesse sia dei reati commissivi che di quelli omissivi e che la sua responsabilità penale andasse esclusa soltanto per quelle condotte incentrate sull'esercizio di poteri connessi alla formale investitura, ovvero per le ipotesi in cui fosse provata la sua estraneità all'amministrazione societaria.

La linea interpretativa che attribuisce rilevanza al mero esercizio di fatto delle funzioni, superando così la fictio iuris della necessità della nomina implicita per l'attribuzione dei reati fallimentari, si è estesa fino ad oggi: nel 2009 prima, e nel 2011 poi, alcune sentenze della Cassazione sono tornate sul tema della bancarotta, ribadendo che la circostanza di essere un semplice amministratore di fatto non esime dalla responsabilità per bancarotta (

Cass

.

P

en. 11 novembre 2009, n. 43036

e

Cass. 13 aprile 2011 n. 15065

).

Con le pronunce del 2011, in particolare i Giudici si sono occupati anche di aspetti più specifici della responsabilità dell'amministratore di fatto: nella sentenza n. 15061 si legge, in particolare, che “Se è vero che il reato di bancarotta fraudolenta suppone, di regola, le definitività della decisione fallimentare, è del pari certo che l'azione penale può essere esercitata anche prima del passaggio in giudicato delle pronuncia, essendo già stata a suo tempo presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta”.

Infine, una recentissima pronuncia della

Cassazione penale, la n. 11649 del 27 marzo 2012

, ha confermato la decisione della Corte di merito con cui era stato condannato per bancarotta fraudolenta per distrazione l'amministratore di fatto di una s.r.l. precedentemente dichiarata fallita.

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