La derivata fiscale della conclusione dei giudizi dopo la chiusura del fallimento ex art. 118, ultimo comma, l. fall.

07 Gennaio 2016

Il novellato art. 118 l. fall. introduce la facoltà di chiudere il fallimento, anche se risultano pendenti delle controversie. La nuova disposizione ha, però, da subito creato interrogativi. L'Autore analizza i problemi applicativi emersi sotto il profilo tributario, in particolare per quanto concerne la derivata fiscale, concentrandosi sull'assolvimento degli oneri prededuttivi e sul supplemento di riparto erogato ai creditori concorrenti.
Premessa

L'introduzione della facoltà, prevista dall'

art. 118 l.

fall

. novellato, di chiudere anticipatamente il fallimento pur in presenza di controversie pendenti, sta generando un notevole interesse fra gli operatori specializzati.

Lo dimostrano i plurimi interventi da parte dei dirigenti di diverse sedi giudiziarie (v. in particolare in questo sito i recenti provvedimenti dei tribunali di Novara, Pistoia, Roma, Vicenza, Ferrara e Ravenna) con i quali vengono impartite ai curatori precise e stringenti disposizioni finalizzate a far loro cogliere questa nuova opportunità.

Il percorso però non risulta ancora correttamente delineato e così, per effetto della mancata armonizzazione fra i tre articoli coinvolti (l'

art. 43,

l'

art. 118

e l'art.

120 l. fall.

), stanno affiorando fra gli osservatori legittime perplessità in ordine alla facoltà di utilizzo della norma in presenza di giudizi:

  1. avviati per l'esercizio di diritti (non preesistenti ma) derivanti dal fallimento (in particolare le azioni revocatorie);

  2. volti al recupero di beni, in quanto, all'esito positivo, ne conseguirebbe la necessità di promuovere una procedura competitiva che parrebbe non consentita (in quanto, dopo la chiusura, sembrerebbero poter essere eseguiti solo riparti e non liquidazioni).

Anche sul versante tributario emergono dubbi e incognite; qui il tracciato si presenta piuttosto impervio, con interrogativi che si concentrano sulle possibili regole applicabili alla fase terminale delle controversie, in particolare sulla derivata fiscale delle due partizioni in cui essa si suddivide: l'assolvimento degli oneri prededuttivi (ossia la regolazione degli onorari ai legali per l'assistenza prestata nel giudizio e del segmento di compenso dovuto al curatore per effetto dell'introito dell'eventuale sopravvenienza) ed il supplemento di riparto erogato ai creditori concorrenti.

Va infatti considerato che, per effetto del disposto di cui al 2° comma dell'art. 118, l'emissione del decreto di chiusura obbliga il curatore alla cancellazione della società dal registro delle imprese (evento dal quale deriva la contestuale ed irreversibile estinzione preveduta dall'

art. 2495 c.c.

) e tale circostanza ha un'immediata ripercussione in ambito tributario in quanto l'

art. 5, comma 4, d.P.R. 322/98

, per quanto attiene alle imposte dirette, e l'

art. 35, comma 4, d.P.R. 633/72

, per quanto riguarda l'imposta sul valore aggiunto, pongono tali atti come eventi terminali dell'esistenza fiscale delle società, cosi determinando l'avvio del decorso dei termini per la presentazione delle rispettive dichiarazioni finali.

Si rendono quindi necessarie alcune riflessioni sulle possibili opzioni esercitabili che, per praticità espositiva, vengono in seguito suddivise per natura delle imposte dopo una breve richiamo sui profili tributari soggettivi del curatore.

La soggettività fiscale del curatore fallimentare 

Per delimitare correttamente l'ambito degli obblighi tributari del curatore fallimentare, è necessario individuare preliminarmente i principi di carattere generale che presidiano il rapporto tra fallito e obbligazioni tributarie.

Innanzitutto, si rileva l'assenza nell'ordinamento di una disciplina normativa fiscale organica con riguardo alle procedure concorsuali; si rinvengono solo numerose norme speciali, peraltro non coordinate tra loro, che hanno generato un acceso confronto dottrinale e giurisprudenziale.

Da un lato, si riscontrano le posizioni della dottrina e della giurisprudenza prevalenti le quali, in assenza di una norma espressa, negano la possibilità di imporre obblighi specifici al curatore, non potendosi invocare interpretazioni analogiche nell'ambito di normative speciali (Trib. Centr. 02.05.1994, n. 1359;

Cass. 299/1995

;

Brighenti,

Il curatore fallimentare e I redditi sfuggiti a tassazione

, in BT, 1727, 1994;

Cass. 23.06

.80 n. 3926);

dall'altro, si colloca la posizione dell'Amministrazione finanziaria che, viceversa, intravede nell'organo gestorio della procedura un sostituto del fallito, una sorta di rappresentante

ex lege

in ambito tributario a cui ascrivere tutti gli obblighi tributari previsti dalla legge.

Il principio fondamentale elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quello

di tassatività

,

in forza del quale il curatore deve assolvere a tutti, ed ai soli, precetti a lui specificamente ascritti, mentre gravano sul fallito gli obblighi non specificamente traslati alla procedura, facendo discendere tale principio dalla natura stessa del suo ruolo di pubblico ufficiale.

Secondo questa impostazione, il fallimento non genera un soggetto d'imposta autonomo, ossia una sorta di massa patrimoniale soggettivizzata diversa dal fallito, ma il curatore rimane un soggetto terzo senza mai divenirne il rappresentante legale: quale ausiliario di giustizia, per effetto dello spossessamento dei beni subito dal debitore, egli assume il compito specifico di amministrare e liquidare il compendio fallimentare al fine di provvedere al pagamento dei creditori concorrenti. Quale diretta conseguenza ne deriva che il curatore non sostituisce il fallito nell'obbligazione tributaria, rimanendo quest'ultimo il vero e solo soggetto passivo d'imposta, ma gli si sovrappone all'unico scopo di adempiere agli obblighi sanciti dalla legge (o per quelli che, ineludibilmente, egli solo può svolgere).

Non si rinviene dunque all'interno della

legge fallimentare

nessun rapporto di sostituzione o di rappresentanza e quindi, in ultima analisi, non sorge alcun nuovo soggetto d'imposta.

Tali conclusioni sono avvalorate dalla giurisprudenza della Suprema Corte con riferimento all'obbligo, non regolato da alcuna norma, della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno anteriore all'apertura della procedura

ma che scade dopo il suo avvio. A tal proposito, la Cassazione, infatti, è costante nel ritenere “

il fallito...soggetto passivo d'imposta, con riferimento sia al periodo anteriore sia a quello successivo, rimanendo in capo ad esso l'obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi relativamente ai periodi d'imposta anteriori alla sentenza di fallimento

(

Cass. Pen. 19.01.2011, n. 1549

)

;

impostazione che trova analoga conferma nella giurisprudenza relativa alla questione della titolarità del rapporto d'imposta e della legittimazione processuale del fallito, ovvero del curatore, in ordine agli atti notificati dall'amministrazione finanziaria.

D'altra parte che il fallito, con la dichiarazione di fallimento, non perda la soggettività passiva tributaria è confermato dalla stessa Amministrazione finanziaria con la circolare n. 26/E e la risoluzione n. 171/E del 2002.

Il fallimento, conclusivamente, ferma restando la titolarità del rapporto tributario in capo al debitore, determina a suo danno una perdita di legittimazione sostanziale, intesa come limitazione della facoltà dispositiva, e una perdita di legittimazione processuale (limitata), in favore del curatore.

Il discorso si fa ovviamente diverso se ci si muove nell'ambito dei doveri del curatore, come enunciati dall'

art. 38 l. fall.

, di svolgere la propria attività con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico, preservando da conseguenze pregiudizievoli il patrimonio fallimentare acquisito. Ed ecco che, qualora l'inerzia o l'inadempimento del fallito possa cagionare un danno al patrimonio fallimentare, o un peggioramento delle aspettative dei creditori concorrenti, il curatore ha il dovere di attivarsi presso gli altri organi giudiziali per essere autorizzato a svolgere gli adempimenti accessori e complementari, anche di natura tributaria, volti a preservare la dilatazione del passivo concorsuale o il nocumento all'attivo fallimentare, dovendosi altrimenti individuare una fonte di responsabilità nel non aver cercato di evitare tale pregiudizio.

I riflessi della prosecuzione processuale sugli adempimenti ai fini delle imposte sui redditi

Riprendendo allora il tema in esame, osserviamo come, alla conclusione dei giudizi pendenti, tre siano le circostanze che possono produrre un effetto rilevante ai fini delle imposte dirette:

  1. l'introito e la successiva erogazione del provento (che la norma qualifica come "sopravvenienza") generato dalla conclusione positiva del giudizio;

  2. il pagamento (prededucibile) degli onorari ai legali per l'assistenza prestata e del compenso suppletivo al curatore per l'introito del provento medesimo;

  3. il pagamento, in sede di riparto integrativo, dei compensi in favore di creditori titolari di reddito di lavoro dipendente o autonomo.

Ai fini tributari, dai predetti eventi conseguono in capo al curatore i seguenti obblighi:

  1. la necessità di sottoporre ad imposizione l'eventuale quota di sopravvenienza che dovesse configurare il cd.

    residuo attivo

    (così qualifica la legge tributaria il surplus di attività che eccede il pagamento integrale di tutti i creditori prededucibili e concorrenti e che va restituita al fallito previa detrazione,

    ex art. 183, comma 2, T

    .u.i.r

    ., dell'ordinaria imposta sulle società);

  2. la necessità di operare e versare la ritenuta d'acconto prevista dall'

    art. 23 e segg. d.P.R. 600/73

    sul pagamento dei redditi di lavoro dipendente o autonomo;

  3. la necessità di inoltrare una dichiarazione (additiva di quella già trasmessa alla chiusura del fallimento) per confermare all'erario, pur rettificando il risultato finale, il mancato conseguimento del surplus ovvero per dar conto della sua generazione (con il relativo calcolo seguito dal versamento dell'imposta);

  4. la necessità di presentare la dichiarazione annuale dei sostituti d'imposta sempre

    per dar conto all'erario sull'assolvimento dell'obbligo di riversamento delle ritenute operate.

L'assenza di un identificativo fiscale, per effetto della cancellazione della società all'atto della chiusura del fallimento, renderà necessaria la richiesta di una sua riattivazione (o, alternativamente, di una nuova attribuzione) per la quale si attende il rilascio di apposite istruzioni da parte dell'Agenzia (sollecitata a rispondere su questo e sugli altri profili fiscali dal citato quesito recentemente formulato dal Presidente del Tribunale di Novara, reperibile in www.IlFallimentarista).

Gli obblighi e i diritti connessi all'imposta sul valore aggiunto

Gli stessi eventi relativi alla fase finale delle controversie come sopra descritti risultano rilevanti, seppur sotto una diversa prospettiva, anche ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, pur se i pagamenti genereranno obblighi più dal lato dei percipienti che dal lato della curatela.

Va infatti osservato che:

  1. dall'introito della sopravvenienza potrebbe conseguire, anche se in ipotesi relativamente marginali (S. Mancinelli in

    "Brevi note sulla chiusura della procedura

    fallimentare in pendenza di giudizi" ne Il

    caso.it

    ), l'obbligo in capo alla procedura di emettere la fattura;

  2. dalla regolazione degli oneri prededuttivi in favore dei legali della procedura e del curatore conseguirà l'obbligo in capo a questi ultimi di emissione della relativa fattura (con esposizione dell'imposta e successivo di versamento);

  3. dal pagamento dei creditori concorrenti per reddito di lavoro autonomo analogo obbligo conseguirà in capo a tali percipienti;

  4. dal pagamento di altri creditori che, viceversa, avessero già emesso la fattura prima del fallimento e che, dopo la sua chiusura, avessero utilizzato la facoltà di emissione della nota di variazione

    ex art. 26 d.P.R. 633/72

    per l'importo rimasto insoddisfatto, conseguirà l'obbligo di rettificare (in aumento) la precedente nota di variazione per un importo corrispondente a quanto incassato con il riparto integrativo.

In capo al fallimento dalle predette operazioni (salvo la prima, che genera un debito d'imposta, e l'ultima, che risulta neutra come lo era stata l'emissione della nota di variazione originaria) deriverebbero, nell'ipotesi di esistenza della posizione fiscale Iva, diritti al recupero del credito.

Vanno però fatte alcune riflessioni:

  1. il mantenimento della partita Iva dopo la chiusura del fallimento sembra assolutamente precluso (come precisato

    dall'Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 26E/2002 interpretativa dell'

    art. 35, comma 4, d.P.R. 633/72

    );

  2. non pare nemmeno praticabile una sua riapertura, in carenza dell'imprescindibile presupposto rappresentato dall'esercizio dell'attività d'impresa (come richiede lo stesso

    art. 35, comma 1, d.P.R. 633/72

    );

  3. anche se queste due preclusioni risultassero in qualche modo superabili, si porrebbe comunque il problema delle modalità di recupero del credito che né potrebbe essere ceduto, in quanto non pare ammissibile l'avvio di una procedura competitiva dopo la chiusura del fallimento (come già accennato, la prosecuzione sembra consentire solo la gestione dei giudizi ed il riparto finale integrativo) né tantomeno (alternativamente) recuperato, a meno di non voler attendere, dopo la definizione delle controversie, un ulteriore, indefinito lasso di tempo.

Le scelte, conclusivamente, potrebbero ridursi alle seguenti:

  1. nel caso di previsione di crediti IVA in formazione di rilievo marginale, potrà essere avviata la chiusura con prosecuzione dei giudizi previa autorizzazione all'abbandono del credito IVA generato dai pagamenti erogati in sede di riparto integrativo;

  2. nel caso di crediti IVA rilevanti, potrà risultare opportuna la rinuncia alla chiusura anticipata della procedura al fine di mantenere attiva la posizione fiscale e consentire il recupero, o la cessione, del credito;

  3. nel caso infine di crediti dal cui incasso conseguirebbe l'obbligo di emissione di fattura da parte della procedura, la chiusura anticipata non potrà essere effettuata.

Conclusioni

Pur in presenza di un percorso interpretativo di non agevole conformazione, potremmo concludere che, allo stato, non sembrano frapporsi particolari preclusioni di natura tributaria alla chiusura del fallimento in costanza di giudizi.

Sia sul fronte delle imposte dirette, ove si attendono specifiche indicazioni in ordine alle modalità di riapertura della posizione fiscale per ottemperare agli obblighi di sostituzione d'imposta (anche se non è escluso che la soluzione sia già praticabile), sia sul versante dell'imposta sul valore aggiunto, ove si riscontra più la presenza di opzioni che di veri e propri impedimenti, la legislazione e la prassi ministeriale in uso consentono di delineare soluzioni percorribili che risultano coerenti con l'assetto esistente.

Potrà quindi essere liberamente avviato, quantomeno dal lato tributario, il percorso voluto dal legislatore fallimentare che consente, con una vera e propria modifica di paradigma legislativo, la surrogazione della gestione di una procedura con la ben più agevole gestione di uno o più giudizi.

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