Effetti fiscali della nuova disciplina della chiusura del fallimento

Enrico Stasi
03 Febbraio 2016

L'art. 118 l. fall., come modificato dal d.l. n. 83/2015, consente la chiusura della procedura di fallimento anche nel caso in cui vi siano ancora delle cause pendenti. Tale previsione è destinata ad impattare sulla fase estintiva della società con la cancellazione dal Registro delle Imprese, nonché sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare, temi in riferimento ai quali l'Autore propone un'ipotesi interpretativa in grado di risolvere inconvenienti e potenziali complicazioni derivanti dall'applicazione della norma.

Com'è noto, l'

art. 7 del

d.l.

27 giugno 2015, n. 83

(convertito con modificazioni nella

legge 6 agosto 2015, n. 132

) ha introdotto significative modificazioni nel testo originario dell'art. 118 fall., prevedendo la possibilità di chiudere formalmente la procedura di fallimento anche quando vi siano ancora delle cause pendenti diverse da quelle già previste dall'

art. 117, comma 2, l. fall

.

Infatti, in base novellato secondo comma dell'art. 118, “La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3 (ndr: ossia quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo) non è impedita dalla presenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'art. 43. In deroga all'art. 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'art. 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'art. 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti

dai giudizi pendenti non si fa luogo alla riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'art. 142, il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato”.

Secondo l'interpretazione che a parere di chi scrive appare preferibile, la chiusura anticipata del fallimento è possibile soltanto nell'ipotesi in cui i giudizi pendenti non postulino lo svolgimento di una successiva attività di liquidazione, non prevista dalle nuove disposizioni dettate dal secondo comma dell'art. 118, le quali sembrerebbero limitare il potere dispositivo del tribunale, da esercitarsi con il decreto di chiusura

ex

art. 119 l.

fall

., alle somme oggetto di futuri riparti supplementari e non già alle vendite dei beni acquisibili a seguito della vittorioso esito dei giudizi in corso (in senso conforme cfr. D. GALLETTI, La chiusura del fallimento con prosecuzione dei giudizi in corso: uno strumento da incentivare o osteggiare?, in IlFallimentarista.it).

A questa modifica si accompagna anche quella relativa alla ultrattività del curatore e del giudice delegato, sancita dal nuovo terzo comma dell'

art. 120 l.

fall

., a tenore del quale “Nell'ipotesi di chiusura in

pendenza di giudizi ai sensi dell'art. 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi”.

Prima di passare all'esame dell'impatto di tali modifiche sugli adempimenti fiscali finali del curatore fallimentare, è opportuno rammentare, anzitutto, che la chiusura del fallimento di società per riparto finale dell'attivo (art. 118, n. 3) fa sorgere a carico del curatore fallimentare l'obbligo di chiedere la cancellazione della società fallita dal registro delle imprese. E, in secondo luogo, che è ormai fermo e consolidato principio presso la giurisprudenza del Supremo collegio quello per cui i residui attivi non risultanti dal bilancio finale di liquidazione e non espressamente o tacitamente rinunciati da parte del liquidatore, nonché le sopravvenienze attive della liquidazione di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese, si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o di comunione indivisa. Alla stessa stregua dei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all'esito della liquidazione, per i quali i soci di società di capitali rispondono nei limiti dell'attivo loro distribuito a norma del disposto dell'ultimo periodo dell'

art. 2495, comma 2, c.c.

(cfr., tra le tante,

Cass.

,

Sez. U

n., 12 marzo 2013, n. 6071

;

Cass.,

S

ez.

U

n., 22 febbraio 2010, nn. 4060

,

4061

,

4062

;

Cass., 2 aprile 2015, n. 6743

).

Alla luce di queste premesse, si tratta, dunque, di verificare l'impatto di tali modifiche sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare.

a) Secondo una prima ipotesi interpretativa, nulla sarebbe mutato rispetto al passato, con la conseguenza che il curatore dovrebbe provvedere, a seguito della chiusura del fallimento e della cancellazione della società

ex

art. 118, comma 2, primo periodo, l .

fall.

, (a) alla presentazione della dichiarazione di cessata attività e di chiusura della partita Iva

(

art. 35 d.

p.r.

n. 633/1972

); (b) ai fini delle imposte dirette, alla presentazione della dichiarazione relativa al risultato finale delle operazioni compiute nel periodo fallimentare entro l'ultimo giorno del nono mese successivo a quello di chiusura del

fallimento (

art. 5, comma 4, d.

p.r

. n. 322/1998

); (c) alla presentazione, nei termini di scadenza ordinari, della c.d. dichiarazione Iva

relativa al segmento temporale compreso tra il 1° gennaio e la data di chiusura del fallimento.

Gli inconvenienti ed i problemi operativi sollevati da questa scelta interpretativa sono tuttavia evidenti e di non agevole soluzione, soprattutto nel caso di fallimento di società. Ed infatti, una volta stabilito, in coerenza con il principio enunciato dalla dinanzi citata sentenza n. 6071 del 2013 delle Sezioni Unite della Cassazione, che la titolarità tanto delle somme accantonate ai sensi del nuovo quinto periodo dell'art. 118, comma 2, quanto quelle rivenienti dalle sopravvenienze attive generate dall'esito vittorioso dei giudizi in corso, siano da riferire ai soci, per coerenza logica si dovrebbe parimenti ritenere, in primo luogo, che le somme stesse vadano versate su un conto corrente bancario o postale nella disponibilità del curatore fallimentare ma cointestato a coloro che della società costituivano il substrato personale; e, in secondo luogo, che le ritenute fiscali sugli interessi attivi maturati sulle giacenze di tale conto corrente bancario debbano essere operate (a titolo d'imposta o a titolo d'acconto, a seconda della differente natura del soggetto sostituito), dalla banca sostituto d'imposta, a nome e con il codice fiscale degli ex soci, i quali, anche se operanti in regime d'impresa, non potrebbero tuttavia disporre di tale credito (gli interessi attivi riscossi da soggetti che non rivestono lo status di imprenditore sono tassati a titolo d'imposta) essendo anch'esso soggetto al vincolo di destinazione esecutiva di cui all'

art. 51 l.

fall.

E si dovrebbe altresì ritenere, per un verso, che, con la chiusura del fallimento, il curatore perda lo status di sostituto d'imposta e, quindi, non sia più tenuto ad operare le ritenute fiscali sulle somme successivamente ripartite, né a compilare il mod. 770 per gli importi corrisposti; per altro verso, che l'Iva

esposta sulle fatture emesse dai creditori beneficiari di queste ripartizioni non possa essere più dedotta, al pari di quella relativa al compenso finale del curatore e di tutti di altri compensi corrisposti dalla curatela ai professionisti per le attività prestate successivamente alla chiusura del fallimento.

Infine, si dovrebbe reputare che le sopravvenienze attive eventualmente derivanti dalla vittoriosa conclusione dei giudizi pendenti al momento della chiusura del fallimento, non essendo imputabili alla società estinta (perché sorte successivamente alla chiusura del fallimento), non possano entrare nel computo del residuo attivo

ex

art. 182, comma 2, d.

p.r.

n. 917/1986

, ma possano semmai rilevare come componenti reddituali in capo agli ex soci (allo stesso modo della quota parte dei debiti sociali non estinti), pur non avendone essi la disponibilità.

Se poi si condividesse l'opinione di chi ritiene che i giudizi pendenti di cui all'

art. 118 l. fall.

possano avere ad oggetto anche l'acquisizione di beni da liquidare (M. MONTANARI, La recente riforma della normativa in materia di chiusura del fallimento: primi rilievi, in ilcaso.it), si dovrebbe conseguentemente concludere, dal punto di vista fiscale, che i beni in questione, ove di pertinenza di soci estranei all'Iva

, vadano alienati scontando l'imposta di registro, mentre saranno da assoggettare all'I

va

le vendite delle quote di essi di spettanza del socio che rivesta anche la qualifica di soggetto passivo del tributo, ferma restando la rilevanza delle eventuali plusvalenze ai fini delle imposte dirette.

Nel caso di chiusura di fallimento di imprenditore individuale le cose sarebbero più semplici, perché tutti questi adempimenti dovrebbero essere posti in essere utilizzando il codice fiscale dell'ex fallito.

b) Tutti questi inconvenienti e complicazioni operative sono destinati a cadere qualora si ritenga – come a chi scrive pare preferibile – che l'obbligo di cancellazione della società fallita scatti soltanto allorché sia stata compiuta la liquidazione dell'attivo e non vi siano più somme da ripartire tra i creditori, neppure in prospettiva, e non già nell'ipotesi assimilata in cui le attività del curatore e del giudice delegato proseguano anche dopo la chiusura del fallimento

per l'acquisizione di ulteriore attivo da ripartire tra i creditori. Tale interpretazione, oltre ad essere rispettosa del principio secondo il quale la cancellazione della società ex

art. 2495 c.c.

non può essere disposta quando nel bilancio finale di liquidazione (a cui è assimilabile, in sede fallimentare, il rendiconto del curatore ex art. 116) figurino iscritti residui patrimoniali attivi non liquidati e non destinati ad essere assegnati ai soci o rinunciati da parte del liquidatore, appare altresì consentita dalla lettera e dalla collocazione della disposizione, inserita dopo quella che pone a carico del curatore l'obbligo di chiedere la cancellazione della società fallita dal registro delle imprese nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4) del primo comma dell'art. 118.

Ed è inoltre coerente con la sua ratio, da individuarsi nel proposito di velocizzare la chiusura della procedura fallimentare al fine di sfuggire ai rigori della

legge Pinto

, senza alcuna pretesa di influire sulla durata della vita della società, la quale può benissimo proseguire sino alla effettiva definizione di tutte le pendenze.

L'accettazione di questa impostazione comporta, sul piano fiscale, che (a) il curatore continui ad operare con la partita Iva

ed il codice fiscale della società già fallita; (b) i termini per l'espletamento degli adempimenti dichiarativi e comunicativi previsti dalla legge ai fini delle imposte dirette e dell'I

va

decorrano non già dall'emissione del decreto di chiusura di cui all'

art. 119 l.

fall.

, bensì dalla data del riparto finale post-fallimento previsto dal sesto periodo dell'art. 118, comma 2; (c) quest'ultima data rappresenti anche il momento finale del maxi periodo fallimentare; (d) il curatore conservi lo status di sostituto d'imposta sino al momento dell'effettuazione dell'ultimo riparto supplementare.

Questa soluzione, a mio modo di vedere, dovrebbe valere anche nel caso di chiusura di fallimento di un'impresa individuale, laddove si condivida l'idea che, in linea generale, il momento finale della vita fiscale dell'impresa coincida con quello dell'effettuazione dell'ultimo pagamento in favore dei creditori (cfr. Consiglio Nazionale Notariato, studio n. 226-211/T, approvato dalla Commissione “Studi Tributari” il 14 dicembre 2011), considerato che anche in questa fase potrebbero generarsi delle sopravvenienze attive tassabili.

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