La chiusura del fallimento non è impedita dalla pendenza di giudizi

Eros Ceccherini
17 Febbraio 2016

Non è un luogo comune affermare che in ambito fallimentare la durata media delle procedure è realmente troppo lunga. Secondo i dati “Cerved Group” la durata dei processi fallimentari ha sfiorato il picco di nove anni nel 2010 per ridursi solo in modo marginale (otto anni e sei mesi) nel 2011. Ancora più eclatante appare l'inefficienza del sistema se si analizzano gli estremi e si constata ad esempio che il 17,3% dei fallimenti chiusi nel 2011 si riferisce a imprese entrate in procedura prima del 1996, dunque almeno quindici anni prima.
Premessa

Non è un luogo comune affermare che in ambito fallimentare la durata media delle procedure è realmente troppo lunga. Secondo i dati “Cerved Group” la durata dei processi fallimentari ha sfiorato il picco di nove anni nel 2010 per ridursi solo in modo marginale (otto anni e sei mesi) nel 2011. Ancora più eclatante appare l'inefficienza del sistema se si analizzano gli estremi e si constata ad esempio che il 17,3% dei fallimenti chiusi nel 2011 si riferisce a imprese entrate in procedura prima del 1996, dunque almeno quindici anni prima.

La situazione non è però omogena su tutto il territorio nazionale, dove le differenze regionali sono sensibili: tra i dati migliori vi sono quelli del Trentino-Alto Adige (cinque anni e sette mesi) mentre i peggiori appartengono alla Sicilia (undici anni e sei mesi).

È del tutto evidente che l'eccessiva durata di una procedura fallimentare può senza dubbio essere considerata responsabile di provocare un danno patrimoniale e che chi lo subisce può richiedere l'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, come è stato in più occasioni sancito dalla giurisprudenza, ma è altrettanto vero che, secondo ad esempio la decisione assunta dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l'ordinanza 13 giugno 2011, n. 12936 (non ultima in tal senso), ai fini dell'accertamento della violazione del termine ragionevole si deve far riferimento ai criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, criteri che non comportano un automatismo diretto nella quantificazione temporale del termine in questione.

Tutti i soggetti coinvolti nella procedura fallimentare sono consapevoli del fatto che il processo debba essere velocizzato; in primis i giudici delegati, che sollecitano sistematicamente i curatori affinché la procedura prosegua senza soste, così come, a sua volta, il Ministero sollecita gli Uffici perché le procedure si chiudano in tempi ragionevoli.

Le motivazioni addotte per la mancata chiusura delle procedure sono molteplici, le più frequenti riguardano i crediti erariali da incassare e le cause in corso. Lasciando ferma, in questa sede, la prima problematica, cercheremo di analizzare la seconda, per la quale la recente novella ha modificato l'

art. 118 l. fall

. disponendo la possibilità di chiusura della procedura quando ricorrano determinate circostanze.

Il legislatore del

D.L. 27 giugno 2015, n. 83

ha posto particolare attenzione alle problematiche connesse alla lungaggine delle procedure fallimentari ed ha introdotto in più parti della legge presidi atti ad evitare che vi sia assoluta discrezionalità da parte del curatore, seppur sottoposto alla vigilanza degli altri organi, nella gestione della procedura.

L'

art. 104-

ter

l. fall

. prevede che già nel programma di liquidazione, quale atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo, sia specificato (lettera f) “il termine entro il quale sarà completata la liquidazione dell'attivo” e che tale termine non vada oltre due anni dal deposito della sentenza di fallimento. Il legislatore è disponibile ad ammettere deroghe, ma limitatamente a determinati cespiti dell'attivo e soltanto qualora il curatore ritenga necessario un termine maggiore e ne dia ampia motivazione circa le ragioni a giustificazione di tale prolungamento. A sancire la prescrittività assoluta della norma sta il fatto che il legislatore considera giusta causa la revoca del curatore a seguito del mancato rispetto senza giustificazione del termine previsto dal programma di liquidazione.

Tra i principali compiti di cui è investito il curatore figura la ricostruzione del patrimonio del fallito e quindi la legittimazione all'avvio di azioni di ricomposizione del patrimonio da parte del curatore, più note come azioni revocatorie, risarcitorie, recuperatorie e ricostruttive in genere, spesso prime cause e motivo del prolungamento oltremodo eccessivo dei termini processuali.

Già nella stesura del programma di liquidazione il curatore è chiamato a compiere delle valutazioni circa l'opportunità di intraprendere tali azioni, con la consapevolezza che l'avvio di dette attività giudiziarie potrà comportare un prolungamento del processo fallimentare. Tale circostanza, sebbene debba essere tenuta in debita considerazione, non può tuttavia essere considerata determinante nella scelta del curatore di intraprendere o meno azioni giudiziarie fondamentali per la ricomposizione del patrimonio e necessarie per il ripristino della par condicio creditorum.

Già il legislatore del 2006 è intervenuto, senza tuttavia ottenere particolari benefici, in favore della riduzione dei tempi processuali modificando l'

art. 106 l. fall

. e concedendo la possibilità al curatore di cedere le azioni revocatorie ed i crediti controversi. L'attuazione di una simile disposizione avrebbe sicuramente potuto contribuire alla causa, non fosse che ad oggi, purtroppo, sembra non vi sia nel mondo dell'impresa e della finanza molta consapevolezza rispetto alla possibilità, o comunque fiducia nella capacità del sistema giudiziario, di dare avvio al c.d. “mercato delle crisi”.

La nuova norma che modifica l'art. 118 l. fall. è davvero innovativa?

La chiusura anticipata del fallimento, in presenza dei presupposti di cui all'

art. 118 l. fall

., sarà realmente una soluzione all'annosa questione della durata dei processi fallimentari? Oppure si tratterà soltanto di chiudere la prima fase di una procedura articolata per dare vita ad una procedura successiva finalizzata alla conclusione di un processo pendente, al cui esito resteranno a quel punto sospesi la maggior parte dei diritti soggettivi che troveranno una risposta soltanto con la definitiva chiusura vuoi del processo che della procedura fallimentare (fino ad esempio, per alcune circostanze, all'ottenimento della stessa esdebitazione)?

Si fa strada il sospetto che la chiusura amministrativa del fallimento in presenza di giudizi pendenti possa avere soltanto valenza ai fini statistici in modo che sia lecito affermare, nei confronti di chi avrebbe titolo a pretendere risarcimenti, che la procedura è terminata in un tempo ragionevolmente veloce, seppur restino da definire cause ovviamente correlate al processo ancora aperto, che possono cambiare totalmente i livelli di soddisfacimento dei creditori ed anche l'ottenimento di eventuali benefici personali del fallito.

Vi saranno differenze sostanziali tra quanto accadeva prima della riforma introdotta nell'estate del 2015 e quanto accadrà successivamente, salvo la cancellazione dell'impresa dal registro delle imprese? Da parte di chi scrive è molto forte il sospetto che la novità non sia un'innovazione sostanziale, ma prevalentemente un escamotage per arginare temporaneamente quanto ci viene addebitato dagli Organi giudiziari europei.

La giurisprudenza della Corte dei diritti concernente l'art. 6 § 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali è comunemente nota per le condanne inflitte agli Stati nazionali in ordine alla ragionevole durata del processo: molto probabilmente, nonostante l'applicazione dell'

art. 118 l. fall

., come è stato novellato, la stessa Corte continuerà a condannare il nostro Paese per la durata dei processi fallimentari considerando la durata del processo un unicum tra la prima fase (chiusura del fallimento) e la seconda fase (riparto supplementare).

La Corte, nelle pronunce emesse sull'argomento, ha ritenuto che il tempo ragionevole di un processo non sia determinabile a priori, ma che spetti ad essa valutarne la congruità tenendo conto degli elementi di fatto dei singoli casi processuali: l'oggetto della contesa, il numero dei soggetti processuali, il grado di difficoltà degli accertamenti probatori.

La Corte di Giustizia, in un caso innovativo avente ad oggetto un processo svolto davanti alla Corte dei conti, ha ritenuto eccessivo un procedimento durato cinque anni per un solo grado di giudizio ed ha ribadito che la ragionevole durata del processo deve essere valutata alla luce delle circostanze specifiche e con riferimento alla complessità del caso, alla condotta dei ricorrenti e delle autorità competenti, alla natura degli interessi in gioco nella controversia.

Gli elementi positivi collegati alla chiusura anticipata del fallimento

Ci sono in ogni caso elementi positivi collegabili alla chiusura anticipata del fallimento che sono individuabili come segue:

a)

viene meno la limitazione di cui all'

art. 42 l. fall

. circa l'amministrazione e la disponibilità dei beni da parte del fallito;

b)

viene meno la limitazione di cui all'

art. 43 l. fall

. circa il fatto che nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, debba stare in giudizio il curatore (in sostanza con la chiusura del fallimento il fallito riacquisisce la legittimazione processuale nei rapporti personali);

c)

viene meno la limitazione di cui all'

art. 48 l. fall

. circa l'obbligo del fallito di consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento;

d)

viene meno la limitazione di cui all'

art. 49 l. fall

. circa l'obbligo di comunicare al curatore, da parte del fallito, ma anche da parte degli amministratori e dei liquidatori, ogni cambiamento della residenza o del domicilio.

La chiusura del fallimento fa venir meno, infine, anche le incapacità a carico del fallito stabilite dal codice civile, non certo meno gravi di quelle ricordate sopra. Innanzitutto, gli

artt. 350

e

393 c.c.

prevedono l'incapacità per il fallito di ricoprire la funzione di tutore o curatore, ma questi non sono gli unici divieti, perché il fallito non può essere nominato amministratore di una società (

art. 2382 c.c.

), membro di un collegio sindacale (

art. 2399 c.c.

) o rappresentante comune di obbligazionisti (

art. 2417 c.c.

).

Al fallito è inoltre vietato esercitare professioni liberali: non può, ad esempio, essere iscritto all'albo degli avvocati o a quello dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

La modifica dell'art. 118 l. fall.

L'

art. 118 l. fall

. indica quattro fattispecie, salve le ipotesi concordatarie, al verificarsi delle quali si può procedere alla chiusura del fallimento che sono in sintesi:

1)

assenza di domande di ammissione al passivo;

2)

prima del riparto finale quando sono stati soddisfatti nel loro ammontare tutti i creditori ammessi;

3)

quando è compiuta la ripartizione dell'attivo;

4)

quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura.

La novità introdotta con il

D.L. 83 del 2015

riguarda tutte le procedure che potrebbero effettuare la ripartizione finale dell'attivo se non vi fossero cause pendenti. In questi casi, prima della modifica dell'

art. 118 l. fall

. la procedura, salvo l'estinzione del giudizio per qualsivoglia ragione, non poteva essere chiusa, mentre con la novella 2015 la procedura può essere chiusa anche in pendenza di giudizi, con la particolarità che “il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43”.

La novità introdotta è sicuramente opportuna e tale da non permettere a nessun curatore di addurre quale motivazione del protrarsi della procedura l'esistenza di cause in corso, in qualsiasi grado esse siano, sia di fronte alla magistratura civile che penale.

Il legislatore, sempre nell'ottica di snellire le procedure ed evitare che le cause pendenti, seppur con fallimenti cessati, abbiano comunque una durata eccessiva, ha introdotto in sede di conversione del

D.L. 83 del 2015

, modificando l'art. 43

l. fall

., il principio della priorità dei giudizi in ambito fallimentare rispetto a tutti gli altri giudizi pendenti. La norma impone agli Uffici giudiziari di rendicontare puntualmente alla Corte d'appello sia il numero dei procedimenti in cui è parte un fallimento sia la durata degli stessi, nonché di precisare quali siano state le disposizioni adottate dagli Uffici per applicare il nuovo principio della priorità; contestualmente la Corte d'appello dovrà dare contezza nella relazione annuale all'amministrazione giudiziaria dell'attività posta in essere.

Sicuramente questa modifica sul piano pragmatico è apprezzabile, i tempi di attesa di un giudizio fallimentare si ridurranno mentre, molto probabilmente, per il principio “dei vasi comunicanti”, si allungheranno i tempi di attesa di tutti gli altri giudizi civili. Si segnala da parte di alcuni tribunali di merito (Tribunale di Novara, Presidente,

decreto n. 28 del 7 settembre 2015

) una presa di posizione precisa su come debba essere organizzata l'attività dei vari Uffici giudiziari e di quali cause si tratti.

È pacifico, a prescindere dalle problematiche connesse all'

art. 118 l. fall

., che la formulazione letterale della norma è talmente ampia da poter ricomprendere in essa tutte quelle controversie idonee ad incidere sulla consistenza del patrimonio delle imprese fallite o in concordato preventivo. Beneficeranno della “priorità” non solo quelle cause di immediata derivazione dal fallimento o dal concordato, ma anche tutte quelle, di qualunque natura, sia cognitoria che esecutiva, in cui una delle parti in causa sia un fallimento o un'impresa in concordato preventivo. Rientrano nel concetto di “priorità” anche le cause penali quando in esse sia esercitata un'azione civile per conto e nell'interesse del fallimento o dell'impresa in concordato.

Per quanto concerne invece l'individuazione della tipologia dei giudizi pendenti in presenza dei quali il curatore può richiedere la chiusura anticipata della procedura, il

Tribunale di Ferrara

(

Nota Tribunale

di

Ferrara del 25 settembre 2015

) in una nota inviata a tutti i curatori precisa che il termine “giudizio” debba essere inteso in senso ampio “comprensivo non solo delle più comuni azioni di ricognizione ordinaria esercitate dal curatore fallimentare (quali ad esempio azioni di condanna al pagamento di somme di denaro, azioni revocatorie e azioni di responsabilità nei confronti degli organi della società fallita), ma anche dei giudizi di scioglimento di comunioni in cui sia parte il fallimento e delle esecuzioni immobiliari nelle quali sia intervenuto il curatore”.

Una simile interpretazione appare di buon senso, oltre che coerente con la norma. Il Tribunale di Vicenza con un comunicato (Circolare Giudice Delegati del

Tribunale di Vicenza del 16 ottobre 2015

), più analitico ma anche più limitativo, effettua un'elencazione dei giudizi pendenti che possono rientrare nelle nuove disposizioni del 118

l. fall

. ed invita tutti i curatori a dare avvio alle procedure di chiusura secondo i seguenti criteri: a) liti attive – in cui il curatore sia attore ed il giudizio penda per l'acquisizione di attivo, sia che si tratti di azioni già nel patrimonio del debitore prima del fallimento, che il curatore ha proseguito o iniziato ex novo, sia che si tratti di azioni di massa, la cui legittimazione è sorta in capo al curatore per effetto della dichiarazione di fallimento; b) procedure di esecuzione forzata immobiliare in cui il curatore sia intervenuto ai sensi dell'

art. 107 l. fall

. – tali procedure sono equiparate alle liti attive; c) liti passive – in cui il curatore sia resistente nel giudizio di opposizione allo stato passivo, e altri simili e il giudizio penda per accertare il diritto del ricorrente a partecipare al concorso.

Il Tribunale di Vicenza, nell'elencare i giudizi che possono permettere la chiusura della procedura, è molto selettivo, in particolar modo per le esecuzioni immobiliari la chiusura è possibile soltanto quando il curatore è subentrato, alla data di dichiarazione del fallimento, ai sensi del sesto comma dell'

art. 107 l. fall

., in una procedura esecutiva pendente.

Per completezza di casistica esiste poi un nodo da sciogliere, di non poco conto, e cioè comprendere se la chiusura della procedura sia possibile anche qualora si sia nella fase esecutiva a seguito di

condanna emessa a favore della curatela. Nell'ipotesi in cui la parte soccombente non dovesse adempiere spontaneamente alla sentenza passata in giudicato, il curatore sarà legittimato a porre in esecuzione la stessa incardinando un processo esecutivo senza [forse] per tale fattispecie aver la possibilità di chiudere la procedura fallimentare.

La chiusura della procedura anche in presenza di giudizi pendenti si inserisce su un istituto già conosciuto nella

legge fallimentare, l'art. 117

l. fall

., in materia di accantonamenti in sede di riparto finale, il quale prevede che nel momento in cui la condizione non si sia ancora verificata, ovvero il provvedimento non sia ancora passato in giudicato, le somme accantonate siano depositate in un libretto giudiziario e soltanto successivamente al verificarsi degli eventi che erano stati ostativi alla distribuzione possano essere versate ai creditori aventi diritto.

Tali accantonamenti esistenti nel momento in cui si addiviene al riparto finale non impediscono la chiusura della procedura, così come accade oggi per i giudizi pendenti.

L'invito alla chiusura dei fallimenti da parte di alcuni tribunali in pendenza di giudizi

Alcuni Tribunali italiani (

Tribunale di Ferrara nota del 25 settembre 2015

,

Tribunale di Vicenza nota del 16 ottobre 2015

,

Tribunale di Pistoia

nota del 30 settembre 2015

,

Tribunale di Roma nota del 6 ottobre 2015

,

Tribunale di Bergamo nota del 3 luglio 2015

) si sono attivati per dare informazioni ai curatori circa il corretto comportamento da tenere quando vi è la possibilità di effettuare il riparto finale, ma ci sono giudizi pendenti che ostacolano la possibilità di predisporlo e di chiudere il fallimento. La richiesta di informazioni da parte del tribunale, anche se appare ultronea viste le relazioni periodiche che il curatore rende ai sensi dell'

art. 33 l. fall

., prevede:

1)

informazioni analitiche circa la causa o le cause pendenti, il loro stato e grado, l'entità del petitum;

2)

una relazione del legale della procedura inerente i tempi di definizione e la probabilità che la causa abbia esito favorevole;

3)

una stima delle somme necessarie per spese future connesse alla pendenza della causa e delle eventuali somme che siano state ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato.

Le note informative emesse dai diversi tribunali prevedono la concessione di un termine al curatore per l'invio delle sopra riportate informazioni e tutte quante precisano che in ipotesi di inadempienza, da parte di quest'ultimo, si potranno ravvisare gli estremi di revoca dall'incarico. Sarà il giudice delegato, una volta analizzate le informazioni e valutati gli elementi acquisiti, qualora ravvisasse la necessità della chiusura anticipata del fallimento – previo parere del comitato dei creditori – ad autorizzare l'avvio delle operazioni di chiusura. Per i curatori, quando ricorrono tali circostanze, non vi potranno essere più alibi e dovranno pertanto procedere alla chiusura del fallimento.

Nel prosieguo di questo lavoro si darà ordine ad una serie di criticità che potrebbero emergere nel momento in cui il curatore si appresta ad analizzare la chiusura di una procedura fallimentare in pendenza di giudizi e di come debba affrontare alcune situazioni una volta che la procedura sia stata chiusa.

Riparto finale dell'attivo

Come già indicato, la condizione per poter chiudere la procedura fallimentare, in pendenza di giudizi, è quella prevista al punto 3 dell'art. 118

l. fall

., ossia che “sia stata compiuta la ripartizione dell'attivo”. La norma prevede, dunque, quale unica condizione, che il curatore abbia compiuto la ripartizione finale dell'attivo, escludendo per conseguenza le procedure fallimentari, con giudizi pendenti, prive di liquidità da assegnare ai creditori.

Una simile circostanza appare discriminante per tutte quelle procedure che non hanno attivo da distribuire, ma che, avendo di giudizi pendenti, ne ricaveranno, molto probabilmente, all'esito degli stessi.

Nonostante la norma limiti la chiusura anticipata a molte procedure, ad oggi non pare vi siano possibilità diverse di chiusura dei fallimenti rispetto alla fattispecie prevista al n. 3 e pertanto non resta che auspicare l'estensione della modifica alla causa n. 4) prevista dall'

art. 118 l. fall

., ossia quando “nel corso della procedura [il curatore] accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura”. Poter chiudere la procedura in presenza della fattispecie indicata al punto 4 dell'art 118

l. fall

., in pendenza di giudizi, potrebbe incentivare i curatori ad attivare cause che in prima ipotesi potrebbero sembrare ostative al buon esito della procedura senza però andare a compromettere la durata del processo fallimentare.

Attività post chiusura del fallimento: funzionamento degli organi della procedura

Il quinto comma dell'

art. 120 l. fall

. precisa che, nell'ipotesi di chiusura del fallimento in pendenza di giudizi ai sensi dell'

art. 118 l. fall

., comma 2, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini della chiusura del giudizio; una volta chiusa la procedura fallimentare il curatore manterrà la legittimazione processuale e le eventuali rinunzie alle liti e le transazioni, in deroga all'

art. 35 l. fall

., saranno autorizzate dal giudice delegato.

La modifica introdotta nell'

art. 118 l. fall

. che dispone che, in presenza di “eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento”, rappresenta una deroga all'

art. 121 l

.

fall

.

Quest'ultimo articolo prevede che nei casi di cui ai nn. 3 e 4 dell'articolo 118

l. fall

. il tribunale, entro cinque anni dal decreto di chiusura, su istanza del debitore o di qualunque creditore, possa ordinare che il fallimento già chiuso sia riaperto, qualora risulti l'esistenza nel patrimonio del fallito di attività in misura tale da rendere utile il detto provvedimento o quando il fallito offre garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi. Il tribunale, nel caso in cui accolga l'istanza, richiama in ufficio il giudice delegato ed il curatore e in questo caso il comitato dei creditori sarà nominato dal giudice delegato.

Nell'

art. 118 l. fall

., diversamente dall'

art. 121 l. fall

., il curatore ed il giudice delegato restano in carica in prorogatio, limitatamente all'attività connessa al giudizio pendente, senza alcuna necessità di riconferma del loro ruolo da parte del tribunale.

Diversamente da quanto previsto dall'

art. 121 l. fall

., il legislatore non ha ritenuto necessaria la permanenza del comitato dei creditori delegando il ruolo che apparteneva a detto organo della procedura allo stesso giudice delegato, come del resto avviene, ai sensi del quarto comma dell'

art. 41 l. fall

., nel caso in cui vi sia inerzia, impossibilità di costituzione o di funzionamento del comitato o per questioni di somma urgenza.

Chi scrive si chiede a questo punto quali siano le modalità di comunicazione circa l'andamento del giudizio pendente tra il curatore ed il giudice delegato, seppur rimasti in carica unicamente per gli adempimenti connessi a detto giudizio. Appare evidente che non possa trattarsi di un rapporto riepilogativo

ex

art. 33, comma 5, l. fall

., in quanto adempimento proprio di una procedura ancora in essere; tuttavia allo scrivente sembra opportuno e necessario che il curatore relazioni al giudice delegato circa gli accadimenti che si verificano nel periodo in esame, da un lato in favore della trasparenza che deve caratterizzare la procedura concorsuale, sebbene risulti chiusa in detta fase, dall'altra per garantire la funzione di vigilanza del giudice delegato sull'operato del curatore. Si domanda inoltre se anche i creditori debbano essere in quale modo resi edotti sull'andamento del giudizio pendente, soprattutto in ordine ai possibili mutamenti circa le previsioni di recupero prospettate.

È auspicabile che i tribunali forniscano delle linee guida in merito, ritenendo comunque opportuno che il curatore informi quanto meno il giudice delegato nell'ipotesi in cui vi siano dei nuovi fatti circa la procedura e comunque, nell'ottica della collaborazione fra i due organi, si renderà opportuno che, a prescindere dagli eventi, il curatore comunichi al giudice delegato una volta l'anno.

A tal proposito ci potremmo chiedere che tipo di comunicazione debba intrattenersi tra il curatore ed il giudice delegato, se utilizzando lo strumento del processo civile telematico o tramite altri mezzi. Seppur non vi siano al momento indirizzi in merito si renderà opportuno che nella sentenza dichiarativa di fallimento sia il tribunale a dare informazioni in tal senso e comunque non si ritiene possibile l'utilizzo del P.C.T. proprio per il fatto che il fallimento risulterà chiuso.

Segue: la gestione delle somme

Certamente la gestione della procedura post cessazione necessita di denari sufficienti per le attività connesse alle cause pendenti, per gli onorari dovuti ai legali ed ai periti, per le spese di registro o di soccombenza.

Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri, nonché le somme che il curatore ha ricevuto per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono dallo stesso trattenute, come previsto dal secondo comma dell'

articolo 117 l. fall

., e quindi secondo le indicazioni stabilite dal tribunale nel decreto di chiusura della procedura. Nessuna difficoltà si presenterà al curatore nel dover quantificare le somme da accantonare ai sensi del citato

articolo 117 l. fall

., diversamente non sarà semplice preventivare le ulteriori somme, non distribuite nel riparto finale, per spese future.

Come in precedenza indicato, il curatore dovrà farsi coadiuvare dal legale della procedura per la quantificazione degli importi che dovranno essere comunque sufficienti per soddisfare i bisogni nascenti. Del resto, seppur non sarà motivo di apprezzamento da parte dei creditori, è consigliabile accantonare somme maggiori che potranno sempre e comunque essere distribuite successivamente nel c.d. riparto supplementare.

Come si è avuto modo di precisare, la chiusura del fallimento in pendenza di giudizi non è assimilabile ad una riapertura del fallimento per sopraggiunte attività riconducibili al fallito e quindi non saranno neppure applicabili le disposizioni di cui agli

artt. 122

e

123 l. fall

.

Segue: il riparto supplementare

Dopo la chiusura della procedura di fallimento il curatore avrà cura di accantonare tutte quelle somme ricevute per effetto di provvedimenti definitivi che andranno a sommarsi alle eventuali somme ricavate dall'esito dei giudizi pendenti, per formare il totale da attribuire con il riparto supplementare ai creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'

articolo 119 l. fall

.

La norma attribuisce al tribunale il compito di prevedere già nel decreto di chiusura del fallimento le modalità di distribuzione dell'attivo residuo (sia per la parte accantonata, che eventualmente per la parte rinveniente dall'esito dei giudizi pendenti) secondo la graduazione spettante ai creditori iscritti nello stato passivo.

Così stando le cose, nell'istanza che il curatore depositerà per la chiusura della procedura, in pendenza di cause non definite, dovrà indicare le modalità di distribuzione dell'attivo eventualmente accantonato ai sensi dell'

art. 117 l. fall

. ed anche delle somme eventualmente provenienti dall'esito dei giudizi. Il legislatore ha voluto altresì precisare con le modifiche apportate all'

art 120 l. fall

. “che in nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi”, ossia sul ricavato proveniente dai giudizi pendenti.

Segue: l'esdebitazione

Nell'ultima parte del secondo comma dell'

art. 118 l. fall

., si affronta l'eventuale ipotesi che dalla chiusura del fallimento con giudizi pendenti consegua, una volta conclusosi l'iter giudiziario, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'

articolo 142 l.

fall

.

Qualora ricorra tale circostanza, il debitore, persona fisica, può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato. La precisazione del legislatore serve a prevenire effetti distorsivi della nuova formulazione dell'

art. 118 l. fall

., posto che la possibilità di chiusura in pendenza di giudizi farebbe altrimenti decorrere l'anno per l'istanza di esdebitazione prima del completamento delle operazioni di ripartizione supplementare dell'attivo fallimentare.

I requisiti di tipo soggettivo ed oggettivo per poter beneficiare della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti sono quelli dettagliati nell'

art. 142 l.

fall

., primo comma, dal n. 1 al n. 6, ed è del tutto ovvio che gli stessi debbano essere posseduti nel momento in cui verrà dichiarata la chiusura della seconda fase della procedura, ovvero quella che si concluderà all'esito dell'azione giudiziaria con il riparto supplementare: il requisito di cui al secondo comma dell'

art. 142 l. fall

. potrebbe non essere posseduto al momento della chiusura della procedura in presenza di cause pendenti in quanto potrebbero non essere “stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali”.

Alla luce di detta considerazione appare del tutto corretto l'inserimento dell'ultima parte dell'

art 118 l. fall

.: diversamente, se non fosse possibile tener conto delle somme distribuite in sede di riparto supplementare, il debitore sarebbe stato penalizzato dalla chiusura anticipata della procedura.

Interessante appare l'iter che sarà seguito dai tribunali di merito quando ricorrerà tale fattispecie: l'

art. 143 l. fall

. precisa che “il tribunale, con il decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l'anno successivo, verificate le condizioni di cui all'

articolo 142 legge fall

. e tenuto altresì conto dei comportamenti collaborativi del medesimo, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dichiara inesigibili nei confronti del debitore già dichiarato fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente. Il ricorso e il decreto del tribunale sono comunicati dal curatore ai creditori a mezzo posta elettronica certificata”.

Possiamo senz'altro affermare che non potrà essere il tribunale autonomamente nel decreto di chiusura a dichiarare inesigibili nei confronti del debitore i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente, la norma su questo punto è precisa ed individua quale unico soggetto legittimato a richiederla il “debitore”, non rinviando all'

art. 142 l. fall

.

L'esdebitazione, in tale circostanza, non potrà che essere concessa su impulso del solo fallito.

L'

art. 144 l. fall

. precisa che il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo; in tale caso, l'esdebitazione opera per la sola eccedenza rispetto alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado ma non produrrà gli effetti verso i creditori sorti nel periodo successivo che va dalla chiusura del fallimento al riparto supplementare.

Questioni aperte: compenso al curatore

L'

art. 39 l. fall

. disciplina il compenso dovuto al curatore per l'attività svolta nel corso della procedura fallimentare. La norma precisa che il compenso e le spese dovuti al curatore, anche se il fallimento si chiude con concordato, sono liquidati secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della giustizia. La liquidazione del compenso è fatta dopo l'approvazione del rendiconto e nessun compenso, oltre quello liquidato dal tribunale, può essere preteso dal curatore, nemmeno per rimborso di spese.

È del tutto palese che il curatore percepirà il compenso dopo l'approvazione del rendiconto e comunque prima dell'approvazione del riparto finale. La chiusura del fallimento

ex

art 118 l. fall

. n. 3 in pendenza di giudizi potrebbe riservare brutte sorprese al curatore se il proprio compenso non potesse essere aggiornato dopo l'esito della causa pendente al momento della chiusura del fallimento.

La norma non si occupa del fatto che potrebbero esserci delle sopravvenienze attive atte ad incidere significativamente sul compenso del curatore. Il

D.M. 25 gennaio 2012, n. 30

, concernente il regolamento per l'adeguamento dei compensi spettanti ai curatori fallimentari e la determinazione dei compensi nelle procedure di concordato preventivo, prevede che il compenso del curatore debba essere calcolato sull'attivo e sul passivo accertato.

È del tutto evidente che prima del riparto finale l'ammontare dell'attivo è quello recuperato dal curatore durante la propria attività, mentre il passivo è quello risultante dallo stato passivo reso esecutivo dal giudice delegato. Prima della chiusura del fallimento non si può tener conto di eventuali sopravvenienze non ancora entrate nell'attivo fallimentare.

A questo punto due sono i dubbi che emergono: a) la procedura recupera delle somme dall'attività giudiziaria; b) al curatore è già stato liquidato, ponendolo a carico dell'erario, il compenso minimo (come previsto dall'art. 4 del richiamato decreto) spettante al curatore in assenza di attivo.

Quanto al primo dubbio sub a), una volta conseguite delle sopravvenienze dall'esito delle cause, queste ultime devono nuovamente formare oggetto di ricalcolo del compenso, tenendo conto dell'attivo complessivamente realizzato prima e dopo la chiusura della procedura, al fine di assegnare la differenza al curatore? Credo che la soluzione prospettata sia la più corretta, in quanto non vi sarebbe alcuna motivazione per estromettere dal calcolo del compenso il maggiore importo rinveniente dall'esito positivo della causa.

Prima della riforma dell'

art. 118 l. fall

. il fallimento non poteva essere chiuso in pendenza del giudizio, ma il compenso, una volta approvato il rendiconto, veniva calcolato sull'importo complessivo dell'attivo realizzato; oggi che l'

articolo 118 l. fall

. è stato modificato, con l'introduzione di una norma di buon senso, non appare che vi sia alcuna motivazione per penalizzare il lavoro svolto dal curatore anche se in due tempi.

Quanto al dubbio sub b), nell'ipotesi che al curatore sia stato liquidato, da parte dell'erario, il compenso minimo in assenza di attivo, una volta che la causa abbia esito positivo e si realizzino somme, il riparto dovrà prevedere la liquidazione del compenso al curatore sul valore dell'attivo realizzato liquidando a quest'ultimo il totale al netto della somma già percepita dall'erario, contestualmente il riparto supplementare dovrà prevedere il versamento all'erario delle somme che precedentemente erano state dallo stesso versate al curatore.

Segue: la cancellazione della società dal registro delle imprese

Il primo comma dell'

art. 2495 c.c.

precisa che una volta “approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese” obbligo che cade, per le società in bonis, sui liquidatori oppure sugli amministratori nell'ipotesi che la società non sia stata posta in liquidazione. Nel processo fallimentare l'obbligo è traslato sul curatore. Il secondo comma del medesimo articolo stabilisce “Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”; appare evidente che tale norma è applicabile ai fallimenti limitatamente alla prima parte, ossia alla parte che prevede l'estinzione dell'impresa dopo che questa è stata cancellata.

Per i fallimenti dichiarati successivamente al 16 luglio 2006 il legislatore ha previsto che sia onere del curatore chiedere, alla chiusura del fallimento, la cancellazione della società dal registro delle imprese ed anche la chiusura del fallimento dei soci illimitatamente responsabili nel caso in cui si tratti di società con soci illimitatamente responsabili, a meno che questi non fossero stati dichiarati falliti quali imprenditori individuali.

Con le modifiche del 2006, infatti, il curatore deve chiedere la cancellazione dal registro delle imprese soltanto nei casi di chiusura di cui ai nn. 3) e 4) dell'art. 118

l.

fall

. (sempre che si tratti di fallimento di società di persone o di capitali). Diversamente per i casi di cui ai nn. 1) e 2), la chiusura della procedura è estesa ai soci ai sensi dell'

art. 147 l. fall

. salvo che nei loro confronti non sia stata aperta una procedura di fallimento come imprenditori individuali.

L'attuale riformulazione dell'

art. 118 l. fall

. non precisa se la cancellazione dal registro delle imprese debba essere fatta a seguito della chiusura (riparto finale) o una volta completate le operazioni di ripartizione anche di eventuali sopravvenienze.

La ripartizione della sopravvenienza post chiusura è da considerarsi fatto straordinario seppur volontario e quindi appare logico che la cancellazione debba effettuarsi nel momento in cui viene effettuato il riparto finale. Del resto la nuova riformulazione dell'ultima parte dell'

art. 118 l. fall

. prevede che “la chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi”: anche il legislatore, prevedendo la prosecuzione, utilizza il termine chiusura e pertanto la soluzione è che la cancellazione della società avvenga subito dopo la chiusura del fallimento in pendenza di giudizi (ma prima dell'eventuale riparto supplementare). Non sembra condivisile l'interpretazione che qualcuno potrebbe avanzare circa il fatto che la cancellazione dell'impresa dal registro delle imprese possa considerarsi come rinuncia alle stesse azioni giudiziarie.

Come è stato in precedenza precisato, le eventuali sopravvenienze post chiusura non determinano la riapertura della procedura e pertanto non si avrà alcuna continuità aziendale e quindi neppure la sopravvivenza del soggetto titolare del patrimonio oggetto della procedura di liquidazione.

Segue: fisco post chiusura del fallimento

La chiusura della partita IVA non è strettamente correlata alla chiusura del fallimento, differentemente che per la cancellazione dal registro delle imprese. La cessazione anticipata della partita IVA rispetto alla chiusura del fallimento è giustificata da esigenze collegabili alla presentazione della dichiarazione IVA per poter richiedere anticipatamente il rimborso IVA,

ex

art. 30 D.P.R. 633/72

, così da poterne disporre in sede di riparto finale.

L'esistenza del credito IVA si pone spesso come causa ostativa alla chiusura del fallimento poiché fino al suo incasso lo stesso non potrà essere ripartito tra i creditori; da qui scaturisce la necessità di attivarsi anticipatamente per cessazione della partita IVA non appena terminate le operazioni di vendita dei beni (

art. 35, comma 4, D.P.R. 633/72

) al fine di poter ottenere il rimborso del residuo credito IVA spettante nel momento in cui viene cessata l'attività ovvero, in alternativa, di cederlo pro-soluto a terzi per poterlo monetizzare nei modi e con le autorizzazioni previste dalla

legge fallimentare

, oppure ancora, valutare la possibilità del recupero del credito IVA mediante la compensazione con le ritenute da versare relative a prestazioni professionali o lavorative in genere.

La chiusura della partita IVA ante cessazione del fallimento determina, come del resto avviene anche per il periodo post cessazione del fallimento in presenza di giudizi pendenti, l'irrecuperabilità dell'IVA addebitata alla procedura dai soggetti che hanno eseguito la prestazione professionale o il servizio o la fornitura di beni; in definitiva una volta chiusa la partita IVA la procedura sottostà al medesimo trattamento del consumatore finale.

Sull'irrecuperabilità dell'IVA collegata al compenso finale del curatore è oramai pacifico che la stessa non possa essere recuperata per il riparto salvo che non si attenda un tempo non breve intercorrente tra la liquidazione del compenso finale al curatore ed il riparto finale ai creditori.

La medesima situazione, ai fini fiscali, si presenterà nella fase post chiusura finale con giudizi pendenti, in tutta questa fase le attività non saranno compiute da un soggetto in possesso di partita IVA e l'imposta addebitata sarà irrecuperabile, così come le prestazioni professionali rese dai professionisti intervenuti (legali, curatore, ecc.) non saranno soggette a ritenute d'acconto avendo la procedura perso il requisito di sostituto d'imposta (

art. 23, comma 1, D.P.R. 600/73

).

In ultimo, le note di variazione IVA

ex art. 26 D.P.R. 633/72

.

La

legge IVA

precisa che il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione l'imposta corrispondente alla variazione tutte le volte che sia stata emessa fattura e viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'

articolo 182-

bis

l. fall

., ovvero di un piano attestato ai sensi dell'

art. 67 , comma 3, lett. d), l. fall

., pubblicato nel registro delle imprese.

Sul concetto di procedure concorsuali rimaste infruttuose l'Agenzia delle Entrate si è pronunciata espressamente con la risalente Circolare n. 77/E/2000, stabilendo che il momento da cui fare partire il termine per l'emissione della nota di variazione ex art. 26 decorre, in caso di dichiarazione di fallimento, a seguito della ripartizione finale dell'attivo, in particolare decorsi 10 giorni dal deposito in cancelleria del piano di riparto, ovvero dopo 15 giorni dal decreto di chiusura: in caso di concordato fallimentare o preventivo, dopo 15 giorni dall'affissione della sentenza di omologazione del concordato.

Dal momento in cui il fallimento si chiude, ma resta attiva una coda collegata alla causa pendente, occorre stabilire quale sia il momento a cui far risalire l'infruttuosità della procedura concorsuale, se la chiusura del fallimento o il riparto supplementare per somme rinvenienti dalla causa stessa.

A parere di chi scrive il momento in cui poter emettere la nota di variazione non può che essere successivo al riparto supplementare, in quanto la norma non fa riferimento alla chiusura della procedura ma fa riferimento all'infruttuosità della stessa, del resto così avveniva anche prima della recente modifica dell'

art. 118 l. fall

. quando il riparto finale ricomprendeva tutto l'attivo fallimentare.

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