L'insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza

Danilo Galletti
27 Settembre 2012

Per far fronte alla crisi che negli ultimi anni ha colpito i sistemi economici è emersa con sempre maggior rilevanza la necessità di un'azione coordinata del diritto concorsuale e del diritto societario, mediante il ricorso a strumenti giuridici di prevenzione dell'insolvenza e a regole di governance societaria, che incentivino ex ante comportamenti virtuosi e condotte efficienti.L'Autore esamina, quindi, tutti gli aspetti relativi all'insorgere dell'insolvenza e le conseguenze sul piano del diritto societario.
Premessa

La intensità e la natura sistematica della crisi che ha colpito i sistemi economici negli ultimi anni hanno finalmente fatto comprendere l'importanza degli strumenti giuridici di prevenzione dell'insolvenza, e la gravità delle esternalizzazioni negative connesse al suo insorgere.

Di ciò debbono farsi carico tanto il diritto concorsuale, con il suo potenziale dissuasivo legato alla stigmatizzazione a posteriori dei comportamenti più azzardati assunti dagli organi sociali, quanto il diritto societario, il quale nel dettare le regole di governance per le società ancora in bonis non può più sottrarsi al proprio dovere di incentivare ex ante comportamenti virtuosi.

Il diritto concorsuale non è più soltanto il diritto della liquidazione e della espulsione delle imprese decotte; e così pure il diritto societario non è più soltanto il diritto che governa l'efficienza dei meccanismi decisionali che conducono al profitto.

Se in periodi floridi, caratterizzati da scarsa tensione finanziaria, è (forse) giustificabile una concentrazione dell'attenzione sui procedimenti che sono proiettati all'aumento dei ricavi e dei risultati positivi (e dunque a ciò che per l'economia aziendale è efficienza), con conseguente tendenziale incentivazione dei comportamenti propensi al rischio, quando invece il vento cambia e le risorse si fanno scarse, è inevitabile che l'ordinamento si adatti al mutamento ambientale, e che gli strumenti giuridici deputati alla prevenzione dei rischi si affinino, agendo fra di loro in modo coordinato, così da indurre negli operatori condotte più “prudenti”.

Non si tratta di esigenze necessariamente contrastanti fra di loro: la modifica dell'organizzazione dell'impresa in modo da introdurre apparati e procedure rivolti a prevenire i rischi in realtà asseconda, e non già ostacola, l'aspirazione all'efficienza.

L'introduzione di modelli organizzativi di prevenzione dai reati (

d. lgs. n. 231/2001

), di sistemi di audit, di funzioni interne di compliance, non è mero irrigidimento fine a sé stesso, a tutela di interessi solo esterni all'impresa; è prima di tutto incentivazione di comportamenti virtuosi, volti a prevenire perdite anche catastrofiche, che sviliranno ed annichiliranno i conti economici, se i rischi più gravi si materializzeranno.

E' anche fattore discriminatorio, che può favorire la selezione delle imprese, lasciando competere le migliori e le più virtuose, e creando ostacoli ed argini a quelle border line, infine chiamate a lasciarsi canalizzare in percorsi legali, oppure a sopportare le conseguenze del proprio agire indiscriminato.

Ma certo in un Paese come il nostro, caratterizzato dalla “normalità” del conflitto di interessi, e dalla “allergia” diffusa per ogni strumento di controllo, questo modello culturale ha difficoltà ad affermarsi, persino in un periodo di profonda crisi economica, che porta con sé, qualora l'ordinamento non riesca ad attrezzarsi ed a premiare le imprese più virtuose, un fastidiosissimo fenomeno di selezione avversa, con effetti ancora più fastidiosamente prociclici.

Stupisce tuttavia che si continui a sentir parlare di apparati sanzionatori che sarebbero propri del solo diritto concorsuale, nonché dell'esigenza di modelli di responsabilità “attenuati”, tesi a non disincentivare l'investimento economico, quando il principale disincentivo che il nostro sistema offre all'investimento, soprattutto di capitali stranieri, è proprio il clima da far west, l'assenza di regole certe, come pure di enforcement di quelle poche esistenti.

Fa quasi accapponare la pelle, pertanto, leggere nella Relazione di accompagnamento del

d. lgs. n. 5/2003

il concetto per cui la Riforma del 2003 avrebbe inteso attenuare il regime di imputazione della responsabilità degli amministratori, soprattutto non delegati, così “studiando” il superamento di un orientamento giurisprudenziale che avrebbe prediletto l'imputazione meramente oggettiva e solidale dei comportamenti devianti.

Di seguito, riprodurrò alcuni passi, dedicati all'istituto del wrongful trading, del Rapporto “A modern regulatory frame work for company law”, redatto dall'”High Level Group of Company Law Experts” (c.d. Rapporto Winter), del 2002, benché lo stesso sia ormai decisamente divenuto poco “di moda”.

In our Consultative Document, we particularly addressed the need to strengthen the accountability of directors when the company is threatened by insolvency and suggested the introduction of a European framework rule on “wrongful trading”. This is a matter all Member States' laws have to deal with, usually in a combination of company law and insolvency law. Some respondents argued that, as this is a matter of insolvency law, the EU should not interfere with it at all. The Group rejects this view. The responsibility of directors when the company becomes insolvent has its most important effect prior to insolvency and is a key element of an appropriate corporate governance system. From this perspective, it is irrelevant whether rules relating to this responsibility are laid down in company law or insolvency law.

The gist of the UK “wrongful trading” rules, the French and Belgian “action en comblement du passif”, and other Member States laws is similar : if the directors ought to foresee that the company cannot continue to pay its debts, they must decide either to rescue the company (and ensure future payment of creditors) or to put it into liquidation. Otherwise, the directors will be liable fully or in part to creditors for their unpaid claims.

The details of the national rules vary considerably. In some Member States there are no specific provisions, but a similar effect is achieved through general rules on directors' liability, sometimes by tort law, though the general duty to file a petition for bankruptcy in the case of actual insolvency comes too late. The concept of wrongful trading applies both to independent companies and to companies within groups. The directors of a subsidiary company are subject to the rules, as well as the parent company and its directors if they operate as de facto or “shadow” directors of the subsidiary. The beauty of the rule is that it does not interfere with the on-going business decisions of directors, as long as an insolvency situation is not yet foreseeable.

A general obligation to file for bankruptcy in case of actual insolvency usually comes too late.

The majority of responses supported the suggestion of the Group to introduce a European framework rule on wrongful trading, which would hold company directors (including “shadow” directors) accountable for letting the company continue to do business when it should be foreseen that it will not be able to pay its debts. This support strengthened the Group in its view that it should recommend that such a rule be introduced. It would be a considerable improvement in the functioning of companies and groups of companies.

It would protect creditors without overly restricting companies and their directors, as they can and must make their own choice in case of - foreseeable, not yet actually imminent - insolvency whether to attempt to rescue the company or put it into liquidation. A European wrongful trading rule would enhance creditors' confidence and their willingness to do business with companies. This is even more important in Europe, since doing business across borders may be perceived to be more risky than in one's own jurisdiction where information on business partners may be easier to obtain. Finally, a wrongful trading rule would introduce an equivalent level of protection for creditors of companies across the EU, without any need to harmonise the whole body of directors' liability rules in all Member States.

Le misure di allerta ordinamentali e la loro insufficienza

L'ordinamento societario “classico” non pare per la verità mettere a disposizione granché per le esigenze appena esposte: gli unici apparati di allarme concernono in sostanza la discesa del patrimonio netto al di sotto del capitale minimo

(artt. 2446

-

2447 c.c.

).

Lo stesso valore del meccanismo giuridico del legal capital è stato varie volte sotto accusa, per le sue evidenti lacune ed insufficienze.

Ma è anche vero che non si è ancora rinvenuto un sistema normativo che risulti più efficiente, e ci si è pertanto accontentati dell'esistente, sia pur nella consapevolezza della sua natura sub-ottimale. Anche in questo caso il Rapporto Winter recepisce quelli che sono gli umori più diffusi.

L'insufficienza dell'obbligo legale di procedere alla riduzione di capitale ed al conseguente aumento, o in alternativa a trasformare la società o a porla formalmente in stato di liquidazione, è del tutto palese (

V. Miola, Capitale sociale e tecniche di tutela dei creditori, in La società per azioni oggi. Tradizione, attualità e prospettive, a cura di Balzarini, Carcano e Ventoruzzo, Milano, 2007, 363 ss.); e rari sono del resto i casi in cui la norma trova applicazione tempestivamente.

Nella stragrande maggioranza delle fattispecie la perdita del capitale sociale si manifesta e viene invece sistematicamente occultata mediante una serie di lifting calibrati al bilancio di esercizio, sfruttando le innumerevoli pieghe valutative del documento (ancora più copiose se si adottano i principi contabili internazionali, IASB).

L'esercizio più diffuso per gli organi fallimentari è quindi quello di riclassificare i dati contabili “ufficiali”, così da rincorrere a ritroso il momento in cui è maturata l'emersione della perdita che annulla il capitale, e rende il patrimonio netto negativo.

A volte ci si rende conto di cercare qualcosa di ineffabile, nonché scarsamente rappresentativo della vita reale dell'azienda: la negatività del patrimonio netto può infatti dire poco circa il reale stato di salute di talune imprese, il cui deficit risiede in realtà nella insostenibilità del progetto industriale collocato alla base.

Ancora, si ha spesso l'impressione di giocare a rimpiattino, in una inevitabile rincorsa tautologica in cui si smarrisce il senso di ciò che è causa e di ciò che è effetto: la svalutazione degli attivi immateriali, nonché dei costi capitalizzati, è infatti determinata dalla acclarata non “recuperabilità” di tali componenti dell'attivo negli esercizi successivi; è allora da tale consapevolezza che matura la decisione di svalutare gli attivi, mentre la negatività del patrimonio netto si evidenzia come una conseguenza della sconfitta del progetto imprenditoriale, e non già come la causa della crisi.

Ciononostante, l'approccio tradizionale imputa un obbligo di comportamento preciso (quello di svolgere attività solo “conservativa”, e di convocare l'assemblea) solo in conseguenza della perdita del capitale sociale, e non già in conseguenza della prova della insostenibilità del progetto.

Ma è veramente questa l'unica ricostruzione possibile?

Si ha l'impressione che la scarsa rilevanza della situazione di cui all'

art. 2447 c.c.

, testimoniata anche dalla quasi totale ineffettività della norma, non possa determinare in modo esclusivo conseguenze così rilevanti.

La perdita del capitale sociale focalizza e cristallizza un dato eminentemente patrimoniale, che scaturisce da grandezze che passano per il conto economico (svalutazioni o risultati operativi negativi), e quindi da dinamiche di stampo quasi esclusivamente reddituali.

Stupisce che l'ordinamento si concentri su tali concetti, quando invece l'insolvenza, che costituisce il fenomeno più temuto e dannoso, ha sostanza finanziaria (

A. Lolli, Situazione finanziaria e responsabilità nella governance delle s.p.a., Milano, 2009, passim), si genera attraverso scompensi nei flussi di cassa, esternalizza negatività quando mancano risorse liquide per regolare le passività in scadenza, e si misura attraverso la rilevazione di cash flow negativi.

Ancora, l'insolvenza è un fenomeno dinamico e prospettico (

Trib. Milano, 10 novembre 2009, Risanamento, adesso in Crisi di imprese: casi e materiali, a cura di Bonelli, Milano, 2011, 978 ss): l'impresa è insolvente se non è più in grado di regolare le sue obbligazioni in scadenza (

art. 5

l. fall

.), anche se attualmente sta pagando, ma sulla base dell'esame della situazione oggettiva dell'azienda e dei suoi flussi monetari non lo sarà nel prossimo futuro.

Non credo alla distinzione fra insolvenza attuale e rischio (o pericolo) di insolvenza futura: l'azienda è già insolvente se il suo piano finanziario non regge, e in un arco temporale prevedibile diverrà incapace di reperire le risorse liquide di cui necessita per estinguere le passività di funzionamento (

La ripartizione del rischio di insolvenza

, Bologna, 2006).

Nulla di più distante dalla situazione di cui all'

art. 2447 c.c.

, che attiene ad una tipica situazione statica, che si misura in termini di stock, e non appare caratterizzata, nella utilizzazione normativa, da nessuna “previsionalità”: ciò che si richiede è solo che il patrimonio netto sia inferiore al minimo legale, senza alcuna necessità che ciò sia determinato da fattori contingenti o piuttosto durevoli (anche se nella svalutazione di taluni assets, che può concorrere a generare la perdita, la durevolezza della perdita di valore è rilevante), e soprattutto non esiste alcun obbligo legale per gli amministratori anche se i preventivi economici o reddituali (budget) sono pesantemente negativi, ma la “istantanea” (snapshot) più “aggiornata” (in genere a molti mesi prima) della famigliola mostra ancora delle belle facce sorridenti.

L'insorgere dell'insolvenza

E' evidente tuttavia che anche se il patrimonio netto è positivo, e supera la dimensione del capitale minimo, l'insorgere incontestabile dell'insolvenza della società non può restare senza conseguenze per gli amministratori e gli altri organi sociali.

Anche cioè nell'eventualità in cui ad es. l'attivo sia consistente, ma fortemente immobilizzato, e pertanto lo squilibrio finanziario, senz'altro indotto da gravi perdite gestionali, e quindi da una struttura reddituale insufficiente, renda la società insolvente, ed incapace di coprire il proprio fabbisogno di cassa, la situazione della società, pur apparentemente irrilevante per il diritto societario (qualora, lo si ribadisce, l'esigenza di svalutare gli elementi dell'attivo non recuperabili non conduca comunque alla situazione di cui all'

art. 2447 c.c.

), non può non indurre specifici obblighi di comportamento per gli organi sociali.

Alla S.C. infatti non è estranea la massima per cui l'insorgere dell'insolvenza rende doveroso per gli amministratori instare per il fallimento della società (

.

Cass., 27 f

ebbraio

2002, n. 2906

).

La ratio decidendi si basa sull'

art.

217 l

.

fall

., e dunque sulla incriminazione dell'amministratore qualora il ritardo nel chiedere il fallimento abbia aggravato il dissesto (

Brizzi, Crisi di impresa e doveri di gestione nelle società di capitali, Napoli, 2010, 39 ss ).

Ma è inevitabile che la condotta dell'organo gestorio, il quale protragga l'attività imprenditoriale, nonostante la presa d'atto dell'insolvenza, o la sua colposa ignoranza, non può non attentare anche ai beni tutelati dagli

artt. 2392 ss. c.c.

, in particolare controagendo rispetto al dovere di conservare il patrimonio sociale a beneficio dei creditori (

art. 2394 c.c.

).

La convergenza fra diritto societario e diritto (penale) fallimentare apparirebbe piena.

In realtà, è assai discutibile che l'equazione insolvenza = obbligo di chiedere il fallimento corrisponda ad un precetto che nella sua assolutezza e monoliticità possa discriminare in modo certo i comportamenti degli amministratori.

Se questa poteva forse essere la direttiva principale sino a qualche decennio fa, in un mondo cioè caratterizzato dalla natura “straordinaria” dell'insolvenza, nonché dalla egemonia degli ideali economici neoclassici, sicché poteva apparire normale che all'insolvenza facesse seguito l'applicazione dello strumento liquidatorio fallimentare, in funzione “espulsiva” dell'impresa rivelatasi inefficiente, non altrettanto può dirsi oggi, quando la crisi è divenuta un fenomeno ordinario, addirittura fonte di potenziali opportunità (

Zito, Fisiologia e patologia delle crisi di impresa, Milano, 1999, passim), nel contesto di un sistema economico ove la disgregazione degli attivi, soprattutto immateriali, si deve qualificare come extrema ratio, posto che non è affatto detto che la ricombinazione dei fattori produttivi dissolti si realizzi, e soprattutto che essa possa riprodurre almeno in parte gli stessi valori disgregati.

Si vedrà nel prosieguo quali siano concretamente gli obblighi di comportamento che è possibile imputare agli amministratori non appena emerga lo stato di insolvenza (

Sandulli, I controlli della società come strumenti di tempestiva rilevazione della crisi di impresa, in Fall., 2009, 1104 ss;Vicari, I finanziamenti delle banche a fini ristrutturativi, in Giur. comm., 2008, I,. 507; Miola, I doveri degli amministratori in prossimità dell'insolvenza, in Vicende dell'impresa e tutela dei lavoratori nella crisi dell'Alitalia, a cura di Santoni, Napoli, 2010, 125 ss.; Boggio, Gli accordi di salvataggio delle imprese in crisi Milano, 2007, 370 ss. Con riferimento specifico al collegio sindacale Bonechi, Collegio sindacale e nuova disciplina della crisi di impresa, in Il collegio sindacale, a cura di Alessi, Abriani e Morera, Milano, 2007, 513 ss).

Il problema principale tuttavia resta quello di individuare strumenti tecnici adeguati per consentire di prevedere quell'insorgere; strumenti che possano essere utilizzati anche a posteriori al fine di sottoporre a sindacato le scelte degli amministratori, ed eventualmente la loro reprensibile incapacità di scorgere con anticipo le stimmate dell'insolvenza.

La perdita della continuità aziendale

In realtà la tecnica contabile (o meglio di revisione contabile) ha creato una categoria idonea a determinare il momento oltre il quale i fatti relativi all'impresa non possono più essere misurati secondo la prospettiva del going concern, ma debbono al contrario esser stimati nella previsione della liquidazione.

Tale concetto, della c.d. continuità aziendale, è però straordinariamente negletto dalla letteratura giuridica.

Non che si tratti di una categoria concettuale di semplice utilizzo: la continuità anzi costituisce un banco di prova assai arduo per qualsiasi valutazione contabile, e si apprezza come fattispecie poliedrica, multiforme, sfuggente.

Lo stesso linguaggio usato nei documenti tecnici (

V. il principio OIC n. 28) è palesemente eterogeneo rispetto a quello usato dai giuristi e dagli stessi aziendalisti. Si tratta infatti di una elaborazione dogmatica, ed anzi “tecnica”, propria della revisione aziendale (Principio n. 570, IAS n. 1).

Più vicino alla realtà della gestione, ed al punto di vista del gestore, oltreché del revisore, è il successivo documento del 6 febbraio 2009, redatto congiuntamente da Banca d'Italia, Consob ed Isvap, nonché oggetto di una coeva Raccomandazione Consob. Documento che fra l'altro si segnala anche per la maturata consapevolezza della situazione di grave crisi mondiale, e della rilevanza così assunta dagli strumenti di prevenzione delle situazioni di dissesto.

Le leges artis del settore statuiscono nel senso per cui l'impresa in regime di continuità operativa deve essere ritenuta in grado di svolgere la propria attività in un “futuro prevedibile”; fra gli indicatori, peraltro non tassativi, che segnalano la perdita del requisito, la tecnica individua, fra gli altri, “situazione di deficit patrimoniale o di capitale circolante netto negativo”, “bilanci storici o prospettici che mostrano cash flow negativi”, “consistenti perdite operative o significative perdite di valore delle attività che generano cash flow”.

I suddetti elementi non sono peraltro considerati esaustivi né dal citato Documento n. 570, né dalla giurisprudenza e dalla letteratura, le quali intendono le procedure di revisione ispirate alle leges artis “codificate” come meramente esemplificative, lasciando aperta la strada ad obblighi di adozione di procedure anche non espressamente previste, quando la situazione lo richieda.

Ed in una materia proteiforme e poliedrica come la continuità, non c'è dubbio che la realtà si presti poco ad una classificazione esaustiva dei fenomeni rilevanti, lasciando alla professionalità del revisore il compito di completare le trattazioni e le codificazioni dei tecnici.

D'altro canto anche il periodo annuale è stimato dallo stesso Documento CNDC come misura “minima” (“almeno, ma non limitato a dodici mesi”) per le verifiche, in altra sede riferendosi lo stesso testo alla nozione più elastica di “prevedibile futuro”.

La limitazione dell'orizzonte del revisore ad un periodo contenuto ha dunque senso in relazione a quelle situazioni, già connotate da incertezze significative, ove sussistano elementi idonei a far presumere che ciononostante la società rimarrà in equilibrio, ed in grado di perseguire i propri obiettivi, per almeno un anno (arco temporale non a caso coincidente con la periodicità dell'esercizio).

L'ipotesi tipica è quella in cui vi siano manifestazioni serie (e vincolanti) da parte del “soggetto economico” di riferimento, nel senso di voler sostenere la società dal punto di vista finanziario, avendone ovviamente la disponibilità e la capacità.

Ma se la disponibilità del soggetto economico è limitata, ed in realtà giustificata nell'immediato solo da circostanze contingenti (ad es. la volontà di non far emergere situazioni gestionali stigmatizzabili), il revisore non potrà astenersi dallo svolgere indagini più approfondite: un impegno a ricapitalizzare ha senso economico soltanto se accompagnato da un piano di ristrutturazione serio e credibile, che non si proietti lungo un arco temporale di pochi mesi.

E qui entra in gioco un altro elemento di valutazione, anch'esso per lungo tempo quasi ignorato dai giuristi, prima che il Legislatore lo assumesse espressamente all'interno di alcune importanti norme (come l'

art. 2381 c.c.

): quello della pianificazione strategica (

La trasformazione radicale dell'attività da parte dell'organo amministrativo

, in Riv. dir. comm., 2003, I, 657 ss ).

L'irrompere della pianificazione sulla “tavolozza” del diritto commerciale ha peraltro il sapore di una scoperta, più che di un'invenzione.

L'agire dell'amministratore, infatti, non può essere caratterizzato dall'assoluto arbitrio rispetto alle direzioni da imprimere all'attività imprenditoriale: se l'impresa ha una sia pur minima complessità (complessità deducibile anche dal suo rapporto con l'ambiente esterno), essa deve essere organizzata in modo da contrastare il rischio naturale dell'imprevisione con idonei apparati previsionali: appunto i piani strategici.

Il Documento n. 570 dedica alla pianificazione alcune pagine assai interessanti, ove sono contenuti alcuni precetti, rivolti al revisore, per il caso in cui l'esame della situazione abbia già condotto alla formazione di “dubbi significativi” sulla persistenza della continuità aziendale.

In tali evenienze, infatti, il revisore deve “esaminare e valutare” (espressione che richiama quella dell'

art. 2381 c.c.

) “i piani d'azione futuri della direzione … ottenere elementi probativi sufficienti ed appropriati che confermino la fattibilità dei piani della direzione … richiedere alla direzione delle attestazioni scritte relative ai piani di azione futuri”.

Il revisore è anche onerato di svolgere specifiche “indagini”, al fine di trarre conferma della attendibilità dei detti piani.

Il fatto che il revisore arrivi alla valutazione dei piani soltanto dopo che si sia formato un “dubbio significativo” sulla continuità aliunde, attraverso l'esame degli altri elementi indiziari, di stampo più “classico”, non deve trarre in inganno.

Il Documento n. 570 è infatti diretto ai revisori, e dunque è stato elaborato presupponendo una tipica situazione di asimmetria informativa: il revisore non ha conoscenza diretta dei fatti di gestione, deve acquisirla tramite gli amministratori (“la direzione”). Appare quindi naturale che i dubbi sulla continuità aziendale il revisore li debba trarre da altri elementi obiettivi, di agevole percezione esteriore. Sulla base di questi prenderà in esame più approfonditamente i piani industriali e finanziari, “misurandone” la tenuta, anche sulla base degli elementi istruttori acquisiti presso il management.

Per gli amministratori, invece, che sono direttamente a conoscenza dei fatti rilevanti, e quindi sono in grado di valutare direttamente i presupposti a base dell'elaborazione dei piani strategici, nonché di accedere tramite gli strumenti di reporting all'andamento dell'implementazione dei piani, il fuoco della riflessione (e dell'attenzione) non è dato dagli “indicatori”, bensì dalla stessa fattibilità dei piani.

Ben diversa è del resto l'attenzione dedicata alla tenuta della pianificazione strategica nei due documenti del 2009 (fra cui la Raccomandazione Consob, n. DEM/9012559, che riproduce le specifiche procedure di revisione correlate ai piani già nell'incipit), il cui fuoco cognitivo, non a caso, è maggiormente centrato sugli organi gestori, oltre che su quelli di controllo, a differenza del citato Documento n. 570.

Così come ben più adeguata è la considerazione dell'importanza dei piani (forecasts and budgets) nei principali documenti internazionali dedicati al going concern (

V. il documento IAASB Audit considerations in respect of going concern in the current economic environment, del gennaio 2009; nonché il documento FRC An update for directors of listed compagnie: going concern and liquidity risk, del novembre 2008).

Dunque è in realtà nell'esame del piano strategico che si devono concentrare gli sforzi e le verifiche, volte a rilevare la ormai sopravvenuta cessazione di ogni prospettiva di continuità aziendale.

Si vede bene come difficilmente la perdita della continuità aziendale possa materializzarsi senza che sussista anche lo stato di insolvenza.

Sembrerebbe anzi di poter dire che l'impresa insolvente, per la quale non si disponga allo stato di un percorso di ristrutturazione già progettato, e che appaia ragionevole e razionale, è un'impresa che ha già perso i requisiti di continuità. Come l'insolvenza, infatti, è davvero “irreversibile” solo se non si disponga dei mezzi necessari per progettare una ristrutturazione efficace, così pure la continuità può dirsi davvero persa “definitivamente” solo se non si registra nell'attività strategica del management il disegno pianificatore di un turnaround “sostenibile” e feasible.

Se l'impresa non è in grado di proseguire la propria attività nel futuro prossimo, ciò dipenderà nella stragrande maggioranza dei casi proprio dal fatto che i propri flussi finanziari non le consentono di procurarsi i mezzi di produzione, e di regolare le proprie passività in scadenza.

Ciò soprattutto se si muove dal presupposto, cui ho in passato prestato adesione, per cui l'insolvenza futura è in realtà già insolvenza in atto, rivelata proprio dall'esame della insufficienza della pianificazione finanziaria adottata, o per la sua radicale inadeguatezza originaria, o perché superata dagli eventi, i quali abbiano sconfessato la attuabilità di quelle previsioni, pur se non astrattamente irrazionali al momento in cui furono concepite.

Non è del tutto impossibile tuttavia che le prospettive future siano infauste, anche a medio-breve termine, rispetto all'incapacità dell'impresa di produrre flussi reddituali positivi sufficienti a coprire gli investimenti, e che la prosecuzione dell'impresa non possa che approdare ad uno squilibrio irreversibile di tesoreria, che renderà l'azienda incapace di adempiere; ed eppure che sia possibile, sciogliendo subito la società, pianificare una liquidazione volontaria che conduca alla copertura di tutte le passività.

In quest'ultimo caso la continuità aziendale è indubitabilmente venuta meno; eppure l'insolvenza può essere rimossa attraverso una radicale ristrutturazione della mission societaria, che porti all'abbandono del mercato, ed alla progressiva liquidazione del patrimonio, senza ricorrere a soluzioni concorsuali.

E questo perché la continuità è predicato dell'attività d'impresa, sicché non può esserci se non c'è più o non ci sarà nel futuro progettato impresa; l'insolvenza invece è predicato del soggetto, e può essere rimossa anche programmando l'interruzione dell'attività economica e la sua liquidazione (arg. ex

artt. 10-

11 l

.

fall

.)

Più ragionevolmente, la dimostrazione della perdita della continuità costituirà a posteriori prova indiretta (ma non perciò meno “certa” in senso epistemologico) della emersione dell'insolvenza, posto che se poi quella ristrutturazione non avverrà, ciò si sarà verificato o perché non vi erano in realtà possibilità concrete, oppure in forza di una situazione le cui conseguenze sono imputabili agli amministratori, per aver omesso di fare tempestivamente quanto utile e necessario.

Dunque la ricerca della cessazione della continuità costituirà nella normalità dei casi una buona proxy rispetto all'indagine sull'insolvenza.

Segue: le conseguenze sul piano del diritto societario

Ma qual è la conseguenza sul piano del diritto societario, una volta che possa dirsi (anche a posteriori) cessata la prospettiva del going concern?

I bilanci di esercizio dovranno essere immediatamente redatti secondo la prospettiva di liquidazione (arg.

ex

art. 2423-

bis

c.c.

), anche se la società non si trovi formalmente sciolta ed in stato di liquidazione.

E se la riclassificazione, abbandonato il going concern, conducesse (com'è purtroppo usuale) alla rilevazione di un patrimonio netto negativo, si attiverà il classico strumento di cui all'

art. 2447 c.c.

.

Ma ove ciò non fosse?

Se la società, nonostante la situazione di equilibrio patrimoniale (misurata da un patrimonio netto almeno pari al capitale minimo), fosse in stato di insolvenza, in quanto illiquida, sarà agevole imputare agli amministratori l'obbligo di accedere, non già indefettibilmente al fallimento, bensì più in generale agli strumenti giuridici concorsuali di trattamento dell'insolvenza (su ciò vedasi ampliusinfra).

Immaginiamo tuttavia che gli amministratori omettano di attivarsi in tal senso, e non sussistano tuttavia ancora le condizioni di cui all'

art. 2447 c.c.

. O, in alternativa, diamo credito alla prospettazione dogmatica (in realtà qui avversata) per cui l'insolvenza potrebbe essere percepibile in futuro, ma non in atto (c.d. rischio di insolvenza): l'impresa ovvero si troverebbe nella c.d. twilight zone (

Cfr. in argomento Montalenti, La gestione dell'impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in RDS, 2011, 820 ss ), sicché la sua situazione non sarebbe stigmatizzabile né

ex

art. 5

l. fall

., né

ex

art. 2447 c.c.

.

E' possibile che la cessazione di ogni prospettiva di continuità attivi, sul piano del diritto societario, il solo obbligo di redigere i bilanci secondo principi contabili differenti da quelli “di funzionamento”?

L'ordinamento registra in questa ipotesi una chiara ed evidente lacuna.

Poiché la continuità aziendale, come si è visto, è categoria praticamente misconosciuta per la letteratura giuridica, la materia è oggetto di indagini assai scarse.

In un tentativo recente (

V. Racugno, Venir meno della continuità aziendale e adempimenti pubblicitari, in Giur. comm., 2010, I, 223 ss.; sostanzialmente conforme, sia pur sulla base di differenti considerazioni, Brizzi, Crisi di impresa e doveri di gestione, cit., 79 ss) si è ipotizzato di fare applicazione della causa di scioglimento prevista dall'

art. 2484, n. 2, c.c.

, relativa alla impossibilità di conseguire l'oggetto sociale.

In realtà però sembra difficile poter prescindere da decenni di elaborazione dogmatica che hanno interpretato la causa di scioglimento in discussione come riferita ad una impossibilità definitiva ed irreversibile di conseguire l'oggetto statutario.

Nel caso della cessazione della continuità, invece, l'impossibilità è soltanto relativa, e nient'affatto irreversibile (almeno nel significato in cui il termine è assunto dalla letteratura in discussione); né può essere, pare, di utilità l'interpretazione dell'espressione “salvo che l'assemblea, all'uopo convocata senza indugio, non deliberi le opportune modifiche statutarie”, come se la modifica statutaria idonea a rimuovere la causa di scioglimento potesse consistere anche in un aumento di capitale.

In realtà, l'esperienza insegna che anche con robusti versamenti del soggetto economico a fondo perduto, e dunque senza variazioni del capitale sociale e quindi dell'atto costitutivo, è possibile ripristinare l'equilibrio finanziario della società, e quindi dar vita alle opportune ristrutturazioni industriali.

Il problema si intreccia anche, ovviamente, con quello relativo alla discussa e talvolta contestata possibilità di rimuovere la causa di scioglimento legale, quando essa sia costituita da un fatto, mediante la rimozione di fatto di tale elemento, anziché con un atto formale.

Se l'interpretazione qui criticata fosse accolta, ne scaturirebbe probabilmente un notevole accrescimento dell'incertezza, ove parecchie società in crisi, anche una volta reperite le risorse finanziarie necessarie per “ripartire”, dovrebbero necessariamente provvedere ad intervenire sul capitale sociale, anche se ciò non sarebbe necessario dal punto di vista economico e finanziario.

La Legge

invece sembra saldamente ancorata alla prospettiva per cui, quando il fatto che determina lo scioglimento è soggetto a rapidi mutamenti nel tempo (come nel caso di cui agli

artt. 2484 n. 4

-

2447 c.c.

), allora lo scioglimento stesso opera come una fattispecie a formazione progressiva, ove la rimozione della situazione fattuale priva di efficacia anche gli effetti medio tempore intervenuti.

Lo scioglimento, infatti, non si verifica al momento in cui il capitale è perso, ma per effetto della mancata adozione dei provvedimenti assembleari nel periodo successivo, ed in un lasso di tempo ragionevole.

Se poi il risultato della gestione operativa di periodo porta alla produzione di utili che eliminano le perdite, oppure se vengono effettuati sufficienti versamenti imputati direttamente al “netto”, non occorre più procedere ad alcuna riduzione di capitale, e non occorre alcuna delibera, proprio perché la società non è ancora sciolta, si è solo verificato con la rilevazione della perdita il primo effetto di una fattispecie a formazione progressiva, che in tal modo non avrà modo di completarsi.

Ed in ultima analisi la proposta esegetica qui criticata pare basarsi su di un equivoco: ciò che determina infatti la supposta “impossibilità” di perseguire l'oggetto non è un deficit quantitativo del capitale sociale, bensì un deficit qualitativo del patrimonio, non sufficientemente liquido.

E comunque non potrebbero così trovare risposta quei casi, pur “ipotetici”, ove la società non si trovi nelle condizioni di cui all'

art. 2447 c.c.

, né possa dirsi già insolvente, ed eppure abbia smarrito le condizioni di continuità. Perché in tali situazioni non si potrebbe immaginare nessuna modifica dell'atto costitutivo che possa porre nel nulla la causa di scioglimento, con la conseguenza di dover riconoscere che siamo in realtà al di fuori del relativo campo applicativo, non dilatabile neanche facendo ricorso all'analogia.

Ciononostante, è innegabile che l'ordinamento riveli in questa evenienza una lacuna, come si è già accennato.

Ed alle lacune si può ovviare con il procedimento di integrazione analogica.

Mi pare allora che la causa di scioglimento più “simile”, al fine di riempire di disciplina il vuoto anomico riscontrato, sia quella di cui al n. 4, e non al n. 2, dell'

art. 2484 c.c

.

.

Anche nel caso della perdita della continuità, infatti, si manifesta un fatto, afferente alla gestione, che fa mancare un presupposto essenziale per proseguire l'attività imprenditoriale. Fatto tuttavia che può venir meno se le condizioni materiali cambiano sostanzialmente in uno spazio di tempo contenuto dal verificarsi della circostanza, in conseguenza di una massiccia immissione di mezzi propri e di una radicale riprogrammazione della formula imprenditoriale. Non esiste, infatti, com'è noto, alcuna crisi o insolvenza che possa dirsi realmente “irreversibile” (

Conff. Gambino, Sull'uso alternativo della procedura di amministrazione controllata, in Giur. comm., 1979, I, 240; Pacchi Pesucci, Dalla meritevolezza dell'imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale, Milano, 1989, XIII, nota 12; Lacchini, Le valutazioni del capitale nelle procedure concorsuali, Milano, 1996, 70, 189 ss.).

Medio tempore

, tuttavia, l'ordinamento muta già, e sin da subito, gli obblighi di condotta degli amministratori, imponendo loro di gestire l'impresa in modo conservativo (

art. 2486 c.c.

), ossia in sostanza astenendosi dal programmare nuovi investimenti, e perseguendo linee manageriali che rendano possibile, e non pregiudichino, la futura e prossima programmazione di una ristrutturazione o di una liquidazione ordinata degli assets.

Tale opzione interpretativa naturalmente si renderà disponibile soltanto a condizione che si reputi il catalogo delle cause legali di scioglimento come di natura non eccezionale. Soluzione a mio avviso condivisibile, posto che altro sono le norme tassative, suscettibili di integrazione analogica, ed altro quelle eccezionali.

Mi pare ciononostante che si possa pervenire comunque, anche cioè prescindendo dall'analogia, e sulla base dei principi generali (se si vuole, potremmo parlare di analogia iuris, e non già di analogia legis), ad una adeguata regolamentazione della situazione, anche dal punto di vista degli obblighi di condotta degli amministratori, pur nell'assenza di una disciplina espressa.

La cessazione dei presupposti di continuità, infatti, di cui gli amministratori abbiano preso atto o che comunque essi non possano ignorare, imporrebbe a questi ultimi di convocare l'assemblea, al fine di proporre lo scioglimento “volontario” (

art. 2484, n. 6, c.c.

), e l'apertura dello stato di liquidazione, se non vi siano alternative concretamente disponibili.

I managers infatti non sono più in condizioni di pianificare la loro attività secondo canoni “regolari”, sicché anche il loro compito primario è divenuto impossibile.

Potranno, se lo credono, dimettersi, ma ciò non eliderà le proprie responsabilità già insorte per la gestione precedente, ed in taluni casi la condotta non sarà risolutiva, né forse consigliabile. E' da escludersi in particolare che la mera cessazione della continuità possa costituire giusta causa di rinunzia all'incarico, e questo tanto per gli amministratori quanto per gli altri organi sociali; soltanto se i managers provvedano a sollecitare la compagine sociale al fine di reperire le fonti finanziarie necessarie per la ristrutturazione, oppure la decisione di sciogliere la società (in condizioni che rendano possibile la pianificazione di un “valido” percorso liquidativo, disgregativo o meno), e non riscontrino adesione rispetto alla propria scelta “strategica” (che non è di loro competenza solo quanto alle modalità esecutive), essi potranno legittimamente dimettersi.

Mi pare altrettanto “obbligata” la condotta dell'organo di gestione che individui in assemblea i presupposti di una possibile pianificazione liquidativa, anche secondo più linee generali alternative la cui scelta sia rimessa al consesso dei soci, cosicché questi possano deliberare ai sensi dell'

art. 2487 c.c.

.

Si potrebbe dire che non è detto che l'assemblea recepisca tali indicazioni, e che quindi potrebbe non formarsi la maggioranza necessaria per deliberare lo scioglimento anticipato.

In realtà, la stessa situazione si può verificare rispetto agli

artt. 2447

-

2484, n. 4, c.c.

, ove infatti frequentemente la convocazione assembleare è un mero espediente per prendere tempo, e l'adunanza va ripetutamente deserta.

Di diverso, nell'ultima ipotesi, c'è che la società è comunque già sciolta per legge, e gli amministratori sono tenuti a gestire nel rispetto dell'

art. 2486 c.c.

sino alla nomina dei liquidatori; oltre ad essere tenuti a pubblicare nel R.I. la propria determinazione che accerta il verificarsi della causa di scioglimento.

Mi pare tuttavia che anche nel caso della riconoscibile cessazione dei presupposti di continuità aziendale possa estrapolarsi un principio generale dell'ordinamento per cui la gestione deve comunque modellarsi sulla fattispecie di cui all'

art. 2486 c.c.

, e dunque assumere connotati “conservativi”.

Ciò accade, ad es., nei casi in cui l'organo amministrativo sia colpito da anomalie che impediscono allo stesso di procedere ad una adeguata pianificazione degli investimenti: la gestione strategica infatti, la cosiddetta “alta amministrazione”, spetta in linea di principio all'organo nominato dall'assemblea, sicché, quando quest'ultima condizione è disattivata o limitata, l'ordinamento impone, salvi casi eccezionali, che il gestore si limiti alla gestione “ordinaria” (ossia al c.d. day to day management, senza possibilità di modificare la formula imprenditoriale, di programmare nuovi investimenti, nonché più in generale di orientare la propria azione secondo linee incompatibili con la futura prevedibile programmazione strategica).

Si pensi ad es. alla cessazione dell'intero

c.d.a.

, ed ai poteri gestionali “surrogatori” del collegio sindacale (

art. 2386, comma 5, c.c.

), oppure all'amministratore giudiziario nominato dal Tribunale ai sensi dell'

art. 2409 c.c.

(

art. 92 disp. att. c.c.

).

Se ne può inferire, io credo, un principio generale per cui in tutte le situazioni simili l'organo gestorio deve limitarsi all'ordinaria amministrazione, oppure, c'est à dire, ad una gestione “conservativa” nel senso di cui all'

art. 2486 c.c.

. Ciò almeno sino a che alla pianificazione strategica in essere, ormai “abrogata”, non se ne sostituisca un'altra idonea; fino a che dunque ad una razionalità ormai falsificata se ne sostituisca una nuova.

Si pensi ad es. al differente (ma non troppo) caso in cui l'azienda sia già stata alienata con vincolo preliminare a terzi: in questi casi in genere l'obbligo di gestire in modo “conservativo” è contenuto nel contratto di cessione (o del pacchetto di maggioranza, vincolando allora l'impegno i soli soci, oppure della stessa azienda); anche in questa evenienza, parrebbe, gli amministratori sono tenuti a non immutare le linee di indirizzo strategico impresse al compendio aziendale.

Quanto detto non esclude comunque la competenza pianificatoria degli amministratori. Essi in ogni caso, verificata l'ipotesi della cessazione della continuità (e/o dell'insolvenza), dovranno predisporre un piano: piano consistente alternativamente nella liquidazione “disgregativa”, nella liquidazione “aggregata” (che cioè valorizzi la cessione dell'azienda o di un suo ramo in funzione liquidativa a terzi), oppure nella ristrutturazione economica e finanziaria; il tutto al di fuori o piuttosto nel contesto di una procedura concorsuale o di una soluzione ordinamentale per la crisi di impresa (

art. 67,

terzo comma, lett. d, art.

182-

bis

l.

fall

.).

Ciò non presuppone neppure che i gestori debbano necessariamente e solo rivolgersi all'assemblea.

Se la soluzione progettata consente infatti ragionevolmente la ristrutturazione, mediante il ricorso al solo finanziamento di terzi, la competenza resterà in mano agli amministratori, i quali saranno liberi di perseguire le linee del nuovo piano, rientrante nella funzione di pianificazione strategica di cui sono titolari (

art. 2381 c.c.

).

Qualora si richiedano iniezioni di equity da parte della proprietà, anche per esigenze di bilanciamento della struttura finanziaria risultante dalla ristrutturazione (arg.

ex

art. 2467 c.c.

), i soci dovranno essere sollecitati, ma non necessariamente nel contesto assembleare (a meno che non si richieda un aumento di capitale, subentrando allora l'esigenza di rispettare il diritto di opzione); l'adesione dei soci al progetto infatti rileverà come un semplice fatto che rende il disegno feasible, al pari del finanziamento di un soggetto terzo.

Parimenti costituisce competenza degli amministratori, riconducibile agli

artt. 2380-

bis

-2381 c.c.

, l'adozione di una soluzione concordataria (

art.

152 l

.

fall

.), oppure concretizzante la proposta di un accordo di ristrutturazione (

art. 182-

bis

l.

fall

.) o di un piano attestato di risanamento (art. 67, terzo comma, lett. d).

Non è privo di rilevanza come l'ordinamento consenta adesso (v. il Decreto Sviluppo) di prescindere dalla formalizzazione della causa di scioglimento qualora si faccia ricorso ad una soluzione “ordinamentale” (concordato od accordo di ristrutturazione), disattivando il funzionamento degli

artt. 2446-2447 c.c.

, e pur facendo salva l'applicazione dell'

art. 2486 c.c.

per il periodo precedente al deposito della domanda.

Ciò fa sì che il ricorso a tali soluzioni “istituzionali” consenta di deflettere completamente dal ricorso all'assemblea, il che può comportare in taluni casi una necessità economica (come quando l'impresa sia vincolata al rispetto anche formale dell'ongoing concern, in forza di clausole contenute in contratti con partners strategici o in provvedimenti amministrativi concessori o permissivi), ma in ogni caso consente di mantenere la “barra di comando” saldamente in mano al management. Ed al contempo, come può vedersi, la norma realizza una condivisibile incentivazione del ricorso a tali soluzioni “controllate” della crisi di impresa, senza tuttavia cancellare con un colpo di spugna la rilevanza pregiudizievole dei comportamenti commissivi od omissivi pregressi.

Soltanto nell'eventualità in cui sia necessario procedere ad una liquidazione “atomistica”, in forza della indisponibilità dei soggetti economici e degli altri stakeholders di impegnarsi nella ristrutturazione, oppure se non si ritenga di procedere al ricorso ad una delle soluzioni “istituzionali”, si dovrà anche procedere a formalizzare la causa di scioglimento con iscrizione nel R.I. e nomina dei liquidatori.

Alla conclusione di questo excursus diviene evidente come la mera cessazione della continuità, così come l'insolvenza, non sia mai realmente ed ontologicamente “definitiva” e/o “irreversibile”: se lo strumento pianificatorio in essere è divenuto irrealizzabile, sicché la sua pervicace ed ostinata implementazione produrrà l'interruzione dell'attività d'impresa, l'impresa è già insolvente, ed ha anche perso la propria continuità operativa, perché non potrà restare sul mercato per un “prevedibile futuro”.

Tale stato attiva subito l'obbligo di gestire in modo “conservativo” (sicché non potranno essere più pianificate, allo stato, scelte di gestione che non si armonizzino con le linee di una futura ristrutturazione/liquidazione fra quelle astrattamente possibili e “fattibili”), e tuttavia è “transitorio”, solo nel senso per cui è ancora possibile pianificare la ripresa della continuità, ed il superamento dell'insolvenza, attraverso una delle formule che ho appena esposto.

Soltanto quando ciò non accada in un contesto di tempo ragionevole (valutabile in modo variabile a seconda della complessità dell'impresa e della crisi, ma comunque nell'ambito di mesi, non di anni), l'esito dissolutivo diviene inevitabile, con conseguente iscrizione della causa di scioglimento, ed eventuale obbligo di chiedere il fallimento, se non sia possibile progettare un percorso liquidativo “atomistico” in equilibrio (ciò che solo esclude l'insolvenza in condizioni di liquidazione della società).

Segue: obbligo di chiedere il fallimento?

Nei paragrafi precedenti si è visto come alcuni eventi negativi apicali che possono interessare la vita di un'impresa organizzata in forma societaria, l'emersione dell'insolvenza, la perdita del capitale sociale, la cessazione dei requisiti di continuità aziendale, abbiano l'efficacia di mutare anche radicalmente l'organizzazione societaria, attivando specifici obblighi di comportamento in capo agli amministratori in carica.

I più importanti di tali obblighi sono costituiti dall'agire in senso “conservativo”, secondo il modello dell'art. 2486 c.c., nonché, nei casi in cui la società sia insolvente, l'accesso ai rimedi concorsuali.

Una pronunzia del S.C. del 2002, come si è ricordato, fonda un preciso obbligo di comportamento degli amministratori di instare per il fallimento della società, qualora si manifesti lo stato di insolvenza. Ciò al fine di non aggravare il dissesto, secondo i dettami dell'

art.

217 l

.

fall

..

Mi sembra tuttavia che tali pur importanti acquisizioni si collochino all'inizio del percorso ermeneutico, e non già alla fine.

Da un lato, se la società non è insolvente (oppure, rectius, se la situazione non è immediatamente percepibile come tale, posto che difficilmente potrà darsi il caso di una società che abbia perso i presupposti di continuità, e/o abbia perso integralmente il capitale, ed eppure non si trovi ancora nelle condizioni di cui all'

art.

5 l

.

fall

.), gli amministratori non potranno limitarsi a tempo indefinito ad una gestione “conservativa”: tale situazione è infatti inevitabilmente transitoria, e destinata a saldarsi con una sistemazione definitiva, che potrà passare o meno per le opportune deliberazioni assunte ai sensi dell'

art. 2487 c.c.

.

Se non si rinvengono le condizioni per esperire una efficace pianificazione della ristrutturazione e/o della liquidazione, così da ricavare dalle operazioni di realizzo degli elementi dell'attivo i flussi necessari per estinguere integralmente le passività, allora si avrà la prova che la società è insolvente, e la situazione confluirà nell'altra.

Ma può sostenersi davvero che sia obbligo degli amministratori instare per il fallimento della stessa, ai sensi dell'

art.

14 l

.

fall

.?

Mi pare che tale conclusione, forse un tempo ragionevole, e fondata alla luce dei dati positivi, non possa oggi aver più credito. Ciò discende inoltre per conseguenza da quanto si è appena dimostrato.

Se così fosse, allora tutti gli istituti del diritto concorsuale alternativi al fallimento, ivi comprese procedure concorsuali vere e proprie (come il concordato preventivo), potrebbero essere esperiti soltanto a rischio degli amministratori, i quali in caso di insuccesso, anche per cause esogene ad essi non imputabili, dovrebbero trovarsi ad essere sanzionati per il ritardo tenuto nell'adottare l'unica condotta riconosciuta dall'ordinamento come corretta.

E' evidente che ne uscirebbe gravemente disincentivato l'accesso agli strumenti “alternativi”, con problemi sistematici anche significativi, dato che appare contraddittorio che l'ordinamento (civile) consenta ed addirittura incentivi (con esenzioni da revocatoria ed altri meccanismi) l'utilizzo di strumenti che invece non risultino pienamente facoltizzati dall'ordinamento penale. La chiusura fra sistema civile e penale è stata poi in parte realizzata nell'ambito dell'intervento legislativo del 2010 (arg.

ex

art. 217-

bis

l.

fall

.).

Dunque mi pare debba riconoscersi che, in linea di principio, fra le condotte alternative corrette che gli amministratori di società insolvente possono assumere, vi è anche quella di decidere di accedere agli strumenti “alternativi”, siano essi giudiziali (concordato preventivo), stragiudiziali (piani attestati, o concordati “privatistici”), oppure “ibridi” (accordi di ristrutturazione

ex

art. 182-

bis

l. fall

.).

In negativo, la riflessione che precede si presta tuttavia ad una lettura ulteriore, credo assai intrigante: come risulta lecito procedere ad un tentativo ristrutturativo in alternativa alla dichiarazione di fallimento, così dovrà forse ritenersi addirittura doveroso per i gestori muoversi in tale direzione, quando l'esito prevedibile sia più favorevole, soprattutto per i creditori.

Così come essi saranno onerati di redigere l'istanza di fallimento “in proprio” con modalità tali da attenuare il danno che il patrimonio sociale subirà dalla stigmatizzazione che conseguirà all'apertura della procedura: se dunque all'attivo vi sono valori immateriali che possono subire pregiudizio dall'arresto dell'attività, gli amministratori dovranno segnalare al Tribunale fallimentare tutte le circostanze che rendono opportuno procedere a disporre l'esercizio provvisorio (

Pasquariello, Gestione e riorganizzazione dell'impresa nel fallimento, Milano, 2010, passim ), addirittura già nella sentenza dichiarativa (

art.

104 l

.

fall

.).

Ma in che termini si può sostenere che sia censurabile la scelta degli amministratori di tentare la via di un accordo di ristrutturazione oppure di un concordato preventivo, oppure di un certo piano di concordato piuttosto che di un altro?

Si può cioè imputare ai gestori di aver effettuato una determinata scelta concorsuale piuttosto che un'altra?

Oppure così facendo si contravviene al “divieto” di censurare le scelte gestorie discrezionali, il c.d. merito della gestione (business judgement rule)?

Il problema necessita di un adeguato approfondimento delle regole che governano i processi di imputazione delle responsabilità gestionali.

La inadeguatezza organizzativa e gli equivoci della business judgement rule

L'affermazione per cui un sindacato sul merito di tali scelte contravverrebbe alla c.d. business judgement rule appare in realtà poco armonica con il nuovo modello di responsabilità introdotto dopo il 2003.

La Riforma

ha senz'altro spostato il baricentro del meccanismo della responsabilità dalla diligenza dell'amministratore, concetto caratteristico di un giudizio statico, volto a verificare la conformità di un atto ad una fattispecie tipica, all'adeguatezza dell'organizzazione, concetto invece dinamico, ed intraneo ad una valutazione dell'impresa in termini di attività.

Gli amministratori debbono “adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze” (

art. 2392, comma 1, c.c.

).

Nella considerazione della “natura dell'incarico” giocano elementi di carattere oggettivo, legati alle dimensioni dell'impresa, ed alla complessità dell'attività sociale (

Cfr. Ant. Rossi, Responsabilità degli amministratori verso la società per azioni, in judicium.it, 2004); non è ammissibile in particolare che i soggetti i quali accettarono la carica di amministratori di società di rilevanti dimensioni, con flussi finanziari in entrata ed in uscita di grande entità, possano poi addurre a propria scusa la propria incapacità gestionale, oppure l'inettitudine ad affrontare con gli strumenti più adeguati la grave crisi che caratterizza questi anni.

L'

art. 2392, comma 2, c.c.

, infatti, fa sì salva, ai fini della responsabilità, l'ipotesi in cui le attribuzioni siano oggetto di delega; ma la norma va notoriamente posta in correlazione sistematica non soltanto con il successivo comma 3, alla luce del quale “in ogni caso gli amministratori … sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne i compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”, ma anche e più specificamente con l'art. 2381, ove si rinviene l'esatta delimitazione normativa degli obblighi dei consiglieri non delegati.

In particolare, l'

art. 2381, comma 3, c.c.

sancisce l'obbligo per i consiglieri “deleganti” di valutare “l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”, oltre al “generale andamento della gestione”.

Tali obblighi si rispecchiano in via sistematica anche nelle disposizioni del c.d. Codice Preda (codice applicato alle società quotate, che riempie di contenuto anche l'obbligo di diligenza generale ascrivibile all'amministratore di società di rilevanti dimensioni), il quale prescrive che il

c.d.a.

“esamina ed approva i piani strategici, industriali e finanziari della società e la struttura societaria del gruppo di cui essa sia a capo”, e “verifica l'adeguatezza dell'assetto organizzativo ed amministrativo generale della società e del gruppo”.

Così, su tutti gli amministratori incombe ora esplicitamente, ai sensi dell'

art. 2381 c.c.

, l'obbligo di esaminare i piani strategici redatti dagli organi delegati; essi inoltre debbono valutare, come si è detto, l'adeguatezza del sistema organizzativo (nonché contabile), di cui i “piani” fanno parte.

Nel caso di predisposizione di piani strategici irrazionali o comunque inattendibili, tanto più in società di rilevanti dimensioni, il sistema organizzativo sociale, in carenza di strumenti previsionali razionali atti a ridurre la complessità ed i rischi dell'attività, non può ritenersi “adeguato”.

Al di là dei pur comprensibili sforzi della letteratura di giungere ad interpretare il duplice riferimento, nell'

art. 2381 c.c.

, ai piani ed agli assetti organizzativi, in termini distinti, mi pare infatti che il piano costituisca esso stesso un assetto organizzativo, forse il più importante.

Dunque non vi è alcuna differenza, in realtà, fra lo spettro dei doveri che ricadono sui consiglieri, soprattutto sforniti di delega, quanto al controllo sulla redazione dei piani strategici e sulla predisposizione, più in generale, degli assetti organizzativi.

In entrambi i casi, al di là della differente terminologia (“esamina”, “valuta”), è il

c.d.a.

nel suo complesso ad essere onerato del compito di controllare che gli assetti siano adeguati. Ed un assetto organizzativo non può dirsi “adeguato” qualora esso prescinda da una idonea pianificazione strategica.

Quest'ultima potrà poi trasfondersi o meno in un documento organizzato in forma sistematica ed intelligibile, ma non potrà prescindere, per attività di complessità non insignificante, da una minima “esteriorizzazione”, che consenta ai consiglieri non delegati di valutarlo.

Idem

dicasi per l'assenza di qualsiasi sistema di controllo interno, obbligatorio espressamente per le sole società quotate, ma la cui istituzione è da ritenersi imposta agli amministratori (sempre dagli

artt. 2381-2392 c.c.

) nell'ambito di qualsiasi società di grandi dimensioni, e che potrebbe consentire forse di rilevare le anomalie gestionali e di pianificazione con maggiore anticipo, se non impedirle (

Trib. Trento, 25 gennaio 2010; in dottrina cfr. Montalenti, Il sistema dei controlli interni: profili critici e prospettive, in Riv. dir. comm., 2010, I, 935 ss.).

Di tale inadeguatezza gli amministratori non delegati non sono ovviamente vittime, bensì i responsabili, stanti le precise incombenze sul punto in capo ai medesimi (

Cfr. per tutti Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull'

art. 2381, commi 3 e 4, del codice civile

, in Giur. comm., 2006; Irrera. Assetti organizzativi adeguati e governo della società di capitali, Milano, 2006, 85 ss; Trib. Trento, 25 gennaio 2010).

Questo è del resto il nuovo modello legale di responsabilità (

Cfr. sul punto, per tutti, Rabitti, Rischio organizzativo e responsabilità degli amministratori, Milano, 2004, 97 ss., 187 ss., 210 ss.) che non può non dominare la scena nell'ambito delle società di rilevanti dimensioni; a nessun gestore o sindaco può essere infatti rimproverato di non essere al corrente di tutto quel che avviene nel dominio dell'impresa; ciononostante, quando gli eventi mettono in crisi la continuità della gestione, incombe su tutti l'obbligo di informarsi con zelo e puntualità (

Zamperetti, Il dovere di informazione degli amministratori nella governance della società per azioni, Milano, 2005, 314 ss )

, al fine di apprezzare la reale portata dei rischi, e se tale esigenza informativa trova un ostacolo nell'inadeguatezza dell'apparato organizzativo della società, delle conseguenze di tale inefficienza debbono pure rispondere tali soggetti, in forza delle previsioni normative ricordate.

Il sistema evolve infatti verso un modello di responsabilità degli amministratori “per funzione”, ove al tradizionale criterio di imputazione “per atti” si sostituisce, a causa della complessità delle vicende che caratterizzano l'impresa contemporanea, un modello che si incentra sulla predisposizione di assetti organizzativi “adeguati”, idonei a prevenire l'insorgere dei comportamenti dannosi, vero “presidio avanzato” contro l'adozione di condotte devianti.

D'altro canto se il merito delle decisioni gestionali non è sindacabile, ciò non può dirsi invece qualora le stesse devino dagli standards razionali di condotta esigibili dall'organo gestorio (

App. Milano, 3 marzo 2004), più in generale quando difetti “l'adozione di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere” (

Trib. Milano, 2 maggio 2007;

Cass., 12 agosto 2009, n. 18231

).

Ancora, l'

art. 2381, comma 6, c.c.

fissa l'obbligo di “agire in modo informato”, al contempo indicando il diritto-dovere per “ciascun amministratore” di “chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”.

E l'apparente abrogazione del dovere di informarsi sul “generale andamento della gestione”, sostituito con un modello di valutazione del rischio che sembra incentrarsi sulla ricezione da parte dei consiglieri non delegati dei flussi informativi prescritti da parte dei delegati, non consente di ritenere “appiattita” la responsabilità di questi ultimi sulla mera messa a disposizione delle informazioni da parte di coloro che le custodiscono (amministratori delegati e direttore generale), ma impone comunque obblighi attivi e “riflessivi” di informazione, che nascono là dove le informazioni fornite siano inesistenti, oppure appaiano insufficienti. Si tratta in sostanza del dovere di “adeguata istruttoria” elaborato dalla giurisprudenza ante Riforma (

Rordorf, La responsabilità civile degli amministratori di s.p.a. sotto la lente della giurisprudenza, in Società, 2008, 1199 ss.; Montalenti, Gli obblighi di vigilanza nel quadro dei principi generali sulla responsabilità degli amministratori di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Abbadessa e Portale, Torino, 2007, II, 844).

Risulta pertanto possibile fornire una ricostruzione del sistema di responsabilità civile degli amministratori (e dei sindaci) assai differente rispetto a quello che la vulgata tende ancora a tramandare, dopo averlo appena spazzolato in superficie, al fine precipuo di soggiungere che la Riforma del 2003 ne avrebbe solo mitigato le asprezze del passato.

Il primo obbligo dell'amministratore, delegato o meno, consiste nell'informarsi adeguatamente, ossia nel ricevere, anche sollecitandoli (

Cass., 19 giugno 2007, n. 23838

), gli elementi informativi necessari non solo al fine di adottare collegialmente le decisioni che siano poste all'ordine del giorno del consiglio, ma anche di svolgere la propria funzione residuale e continua di controllo.

“Sulla base delle informazioni ricevute”, infatti, ma comunque onerato di chiedere informazioni aggiuntive rispetto ai flussi periodici, se carenti, o comunque se valutati anche nella situazione concreta come insufficienti, il consigliere, al limite anche “indipendente”, svolge il suo ruolo, che è pur sempre quello di gestire la società, e non già di scaldare una poltrona in consiglio, quasi come un consulente esterno, munito di particolari competenze tecniche, erogabili a richiesta del presidente o degli altri membri dell'organo durante le riunioni collegiali (

Trib. Trento, 25 gennaio 2010).

L'adeguatezza di tali informazioni, anche sotto il profilo della eventuale omessa attivazione dell'amministratore al fine di informarsi, in presenza di indici preoccupanti, percepibili da parte del soggetto agente, è certamente sindacabile nel merito da parte del Giudice.

La business judgement rule non ha infatti validità generale, e non costituisce un principio “ontologico”, ma una regola tecnica di giudizio: essa risponde semplicemente alla ratio della impossibilità per il Giudice, e della inopportunità in generale, di sindacare concrete scelte di gestione, elevatamente discrezionali, per la loro natura fortemente opinabile e “soggettiva”, ciò che potrebbe risolversi in un forte disincentivo all'adozione delle determinazioni imprenditoriali del management.

Il Giudice pertanto non può confrontare la condotta specifica dell'amministratore con un proprio ideale astratto di “buon amministratore”, non può cioè immaginarsi manager nella stessa situazione, e assumere quale sarebbe stato il comportamento più opportuno.

Questo non perché il Giudice non “sappia”, perché alle inevitabili (ed anche in un certo senso auspicabili, dato il suo ruolo “terzo”) lacune cognitive del Giudice rimedia la c.t.u., ma piuttosto perché la natura elevatamente discrezionale e “relativa” del giudizio imprenditoriale renderebbe assai pericoloso il sindacato a posteriori sull'atto, il quale si risolverebbe probabilmente in una “delega” di fatto del potere sanzionatorio al consulente tecnico d'ufficio, con forti e non auspicabili conseguenze disincentivanti ex ante.

Il limite di tale impostazione, non a caso, è la c.d. irrazionalità dell'atto gestorio, ossia la formula, in fondo abbastanza equivoca, del “sindacato di legittimità attraverso l'esame del merito”, per cui il Tribunale confronta la condotta dell'amministratore con gli standards astratti applicabili al settore, andando a stigmatizzare quei comportamenti che nessun amministratore ragionevole avrebbe potuto assumere, che cioè vanno al di là di ogni discrezionalità, risolvendosi in sostanza in un mero “azzardo morale”, e trasformando così l'impresa in una “casa da gioco autorizzata”.

Diverso ancora è il ruolo rivestito dal dovere “riflessivo” di informarsi, posto che il quantum dell'informazione di cui l'amministratore si è dotato è sindacabile in termini di ragionevolezza ed efficienza dal Giudice, il quale ben può individuare, con le necessarie cautele proprie di qualsiasi giudizio ex post, quali sarebbero stati i supporti conoscitivi di cui il gestore avrebbe dovuto munirsi.

L'accertamento circa la “sufficienza” dell'informazione acquisita non esaurisce comunque il giudizio di responsabilità, altrimenti basterebbe informarsi su tutto, per giustificare qualsiasi condotta anche assurda.

Dopo l'istruttoria infatti deve essere adottata la decisione, ed è tale processo logico che il Giudice non può sindacare “nel merito”, se non per la sua disformità rispetto a qualsiasi standard di comportamento razionale.

Ma prima e dopo la istruttoria, o meglio, nella “cornice” entro la quale si esplica il processo di decisionmaking, sta l'assetto organizzativo, valutabile anch'esso dall'esterno per la sua adeguatezza o meno.

In assenza di un sistema organizzativo “adeguato”, non sarà infatti possibile informarsi in modo sufficiente, posto che difetteranno sistemi di audit, di controllo interno e di reporting efficienti.

Allo stesso modo, l'assenza di un piano strategico, o la sua inattendibilità, renderanno l'organizzazione altrettanto “inadeguata”, determinando un andamento della gestione del tipo “navigazione a vista”, che non può soddisfare i requisiti di cui agli

artt. 2381

-

2392 c.c.

.

Di tali lacune dell'organizzazione, lo si ribadisce, gli amministratori, delegati o meno (così come i sindaci), non possono disinteressarsi, né la situazione conseguitane può costituire per tali soggetti un alibi.

Essi sono infatti tutti responsabili dell'approntamento di un sistema organizzativo “adeguato”, e se tali omissioni siano collocabili in correlazione causale con i pregiudizi verificatisi, di tali conseguenze i soggetti agenti debbono rispondere, secondo il modello della causalità “adeguata” che caratterizza l'applicazione giurisprudenziale dell'

art. 1223 c.c.

.

Anche il sindacato degli organi sociali (amministratori o sindaci) sull'adeguatezza degli assetti è sottoponibile a revisione giudiziaria ex post, con intromissione completa del Giudice nel “merito” di tali scelte.

Non si tratta infatti di valutare una specifica scelta di gestione, che possa apparire più o meno opinabile od arbitraria, ma di confrontare l'organizzazione concretamente forgiata dagli amministratori con i modelli “virtuosi” sui quali il Giudice può documentarsi, sfrondando il suo giudizio da apriorismi e soggettivismi, al di là di quanto caratterizza ordinariamente qualsiasi giudizio.

Comunque si debba apprezzare il contenuto della prestazione fornita dagli amministratori, se in termini di obbligazione “di mezzi”, o di “risultato”, non può omettersi di rilevare come la predisposizione di un assetto organizzativo “adeguato”, così come la assunzione di informazioni “sufficienti”, compongano precipuamente l'approntamento di quel “sostrato” della prestazione, che consente di ritenere adempiuto il dovere dell'organo amministrativo, anche se qualificato in termini di mera “strumentalità” rispetto alla realizzazione dell'interesse del creditore (ossia il conseguimento del “risultato”).

A questo punto sembra possibile valutare, anche in relazione alla loro responsabilità, ed alla esigibilità di condotte specifiche, la condotta degli amministratori nel caso di sopravvenuta insolvenza della società e/o di cessazione dei requisiti di continuità operativa.

Il vademecum per gli amministratori di società in crisi

Nella maggior parte dei casi la prima disfunzione che sarà possibile registrare, da parte degli amministratori (ma per i sindaci il discorso non cambia, se non in relazione alla disponibilità da parte degli stessi delle informazioni necessarie), verterà sul mancato raggiungimento degli obiettivi di gestione così come pianificati dal management.

Gli scostamenti rispetto al piano industriale possono essere del tutto normali, costituendo il piano null'altro che uno strumento volto a tentare di rimediare a quello che è l'ordinario rischio della imprevisione.

La verificazione di eventi imprevisti, o il mancato avveramento di circostanze programmate, possono rendere il piano superato, o comunque meritevole di aggiornamenti.

Qualora gli obiettivi previsti dal piano possano ancora essere raggiunti, mediante un riposizionamento delle risorse impiegate, la situazione non presenterà particolari patologie: gli amministratori porranno in essere le dovute rettifiche alla pianificazione in essere, e la persistenza della continuità aziendale non sarà posta in discussione.

Se tuttavia le disfunzioni della pianificazione sono più radicali, e sono in atto espedienti rivolti ad occultare la realtà della situazione, nonostante l'esistenza di budget e di bilanci previsionali che espongono flussi negativi, gli scostamenti registreranno in realtà la inadeguatezza ed inattendibilità originarie del piano.

In tali circostanze l'assetto organizzativo dell'azienda è inadeguato, poiché il suo elemento centrale, il piano, che orienta l'attività verso le linee di indirizzo strategico impresse dal management, è anch'esso inadeguato.

La censura che è possibile rivolgere agli amministratori è pertanto direttamente quella di aver predisposto un assetto ab origine insufficiente: la distruzione di valore successiva all'elaborazione ed all'attuazione del piano pertanto sarà imputabile agli organi sociali.

Può darsi del resto che il piano non fosse ab origine inattendibile, e nemmeno redatto artatamente al fine di celare la realtà della situazione; e tuttavia che mutamenti radicali del contesto ambientale rendano lo stesso inattuabile, in modo tale da non consentire di perseguire più le stesse linee strategiche, neanche in modo differente.

L'impresa necessita pertanto di una rielaborazione funditus dei propri obiettivi di fondo, ossia della redazione di un nuovo piano.

Se gli amministratori redigono il nuovo business plan, al limite anche riposizionando l'azienda dal punto di vista commerciale e/o industriale, la continuità aziendale potrà persistere.

Nell'ipotesi che più comunemente si verifica a proposito dell'impresa insolvente, tuttavia, gli amministratori non apportano alcuna modifica alla pianificazione; essi continuano anzi a perseguire apparentemente gli obiettivi del business plan originario, negando la sua inattuabilità, al limite apportandovi variazioni “cosmetiche”, che spostino in avanti nel tempo il conseguimento degli obiettivi economici principali, così da ritardare la presa d'atto della impraticabilità delle previsioni.

Tanto se la riscrittura degli obiettivi sia ancora possibile, quanto se la stessa (com'è più comune) non possa ormai prescindere da una soluzione concorsuale, l'inerzia degli organi sociali nell'affrontare la situazione è senz'altro censurabile, ed il deterioramento del patrimonio normalmente imputabile ai medesimi. Costituisce infatti una massima di esperienza accettabile quella per cui, qualora l'attività prosegua secondo tale linea di sviluppo, e si verifichi una diminuzione del patrimonio netto, tale variazione non si sarebbe prodotta qualora gli amministratori avessero adottato il comportamento corretto. L'occultamento della irrealizzabilità del piano, e l'immobilismo degli organi sociali, costituiscono infatti dei sufficienti indizi della ricorrenza di tale situazione.

Trascorso il tempo sufficiente e necessario affinché i titolari delle funzioni sociali possano rendersi conto della infattibilità del piano, nonché apprezzare il novero delle alternative strategiche concretamente praticabili, tempo misurabile secondo lunghezze variabili, a seconda della complessità e delle dimensioni dell'impresa, ma comunque in termini di mesi, non di anni, il danno prodotto potrà essere ascritto alla negligenza degli amministratori.

L'azienda che non sia più in grado di introdurre le necessarie modifiche della propria pianificazione strategica avrà infatti perso la propria continuità operativa.

Nella stragrande maggioranza (se non nella totalità) dei casi, come si diceva, tale impresa si troverà anche in stato di insolvenza.

L'insolvenza impone di adottare soluzioni drastiche, che influiscano anche sulla struttura finanziaria.

L'impresa insolvente dispone infatti di assetti organizzativi assolutamente inadeguati: la pianificazione finanziaria è stata per definizione superata dagli eventi, e non è più in grado di assicurare il soddisfacimento “regolare” delle passività in scadenza; il piano industriale non riesce a conseguire flussi positivi e risultati operativi sufficienti a sostenere la gestione finanziaria.

Come si è visto tuttavia è impensabile che il comando che l'ordinamento impartisce agli amministratori sia semplicemente quello di instare per il fallimento della società.

Ciò può dirsi solo nell'ipotesi in cui non sia efficacemente pianificabile una soluzione alternativa, che tuttavia risulti più favorevole per gli interessi coinvolti, in specie per quelli dei creditori sociali.

Se pertanto è possibile esperire un tentativo concordatario che consenta di tutelare meglio del fallimento gli interessi dei creditori, sarà obbligo degli amministratori procedere in tal senso.

Il danno altrimenti prodotto sarà ascrivibile agli organi sociali, i quali non possono semplicemente “arrendersi”, e consegnare l'azienda al Tribunale.

La censura infatti in tali casi non impinge nel merito della scelta di gestione, bensì nella inadeguatezza del sistema organizzativo.

Poco o nulla sembra modificarsi il giudizio ascrittivo della responsabilità a seconda della funzione gestoria o di controllo rivestita dal titolare dell'organo; in particolare, non pare che il collegio sindacale, sprovvisto di controllo contabile, possa chiamarsi fuori dalla costante necessità di monitorare la persistenza delle condizioni di continuità operativa: se è vero infatti che la continuità è categoria nata dalla elaborazione scientifica ed applicativa dei revisori, è anche vero che la stessa permea di sé tutta l'attività imprenditoriale, è rilevabile attraverso elementi di rango ora quantitativo, ma anche qualitativo, e risulta direttamente correlata all'adeguatezza dei sistemi organizzativi.

Dunque il collegio sindacale, munito o meno della funzione di controllo legale dei conti, sarà responsabile ove possa constatare la perdita del requisito di continuità ed ometta le azioni di contrasto che può adottare (convocazione dell'assemblea, ricorso

ex

art. 2409 c.c.

, azione di responsabilità

ex

art. 2393 c.c.

, esposto al PM affinché questi chieda il fallimento ai sensi degli

artt. 6-

7 l

.

fall

.).

Su tale conclusione d'altro canto convergono ormai le indicazioni operative codificate dalle leges artis (si vedano le Norme di comportamento del collegio sindacale diramate dal CNDCEC ed in vigore dal 1 gennaio 2012: § 11).

Secondo la stessa prospettiva, anche l'adozione di una soluzione di uscita alla crisi inidonea, in astratto od in concreto, sarà sindacabile, in quanto concernente la inadeguatezza dell'apparato organizzativo, tanto con riferimento agli amministratori, quanto degli organi di controllo (ove questi ultimi omettano le doverose iniziative di contrasto). L'adozione ad es. della soluzione concordataria, in situazione che renda maggiormente indicato il tentativo di perseguire un accordo di ristrutturazione, potrà essere censurato in quanto estrinsecatosi in un assetti organizzativi, ed in particolare in fattispecie programmatorie, inadeguati.

Non opera infatti in materia, come si è visto, la c.d. Business Judgement Rule.

Al limite, anche la proposta concordataria inidonea, infattibile, ed insuscettibile di intercettare il consenso dei creditori e il vaglio di ammissibilità del Tribunale, sarà censurabile, e tutto il pregiudizio così arrecato al patrimonio sociale (misurabile in termini di aggravio di spese, nonché di maggiori interessi, ma anche di deterioramento degli attivi) risarcibile.

Fondamentale, in tali ultimi casi, sarà il vaglio del Tribunale, e l'eventuale stigmatizzazione della proposta concordataria in sede di ammissione (

art.

162 l

.

fall

.), revoca (

art.

173 l

.

fall

.) od omologazione (

art. 180 l.

fall

.).

Potrebbe dubitarsi della capacità del Tribunale di apprezzare tali circostanze, e della difficoltà per qualsiasi osservatore esterno di individuare quale sia la “tecnica” più idonea per “trattare” l'insolvenza dell'impresa nel caso specifico. Ma in realtà tale valutazione non sembra più complessa di quella che il Legislatore ha imposto al Tribunale in caso di omologazione del concordato, e di esperimento del c.d. cram down, ove il Giudice deve esaminare le “alternative concretamente praticabili”.

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