Speciale Decreto Sviluppo - Le radici e le cause storiche, non remote, del nuovo intervento normativo

Giannicola Rocca
03 Agosto 2012

L'Autore, dopo un breve excursus sulle modifiche apportate alla legge fallimentare nel triennio 2005-2007, svolge alcune riflessioni sulle novità introdotte dal “Decreto sviluppo”, ritenendo che il legislatore, nel cercare di agevolare la gestione della crisi di impresa, abbia dato una risposta soprattutto giuridico-formale ad un problema di carattere prevalentemente economico, finanziario e strutturale e che in questo modo non potranno certo essere risolte o evitate molte crisi di impresa.
Premessa

Le norme regolatrici della

Legge Fallimentare

sono rimaste sostanzialmente immutate dal

R.D. n. 267 del 1942

fino al 2005, per poi arrivare, nel successivo triennio, ad una sostanziale modifica e ad una serie di integrazioni ed aggiornamenti che hanno fatto della materia una sorta di “cantiere aperto”.

Tale attivismo è certamente la conseguenza di una grande attenzione posta dagli addetti ai lavori e dal legislatore, ma è anche il sintomo, o la conseguenza, di una questione ancora in evoluzione e forse di un problema non del tutto risolto.

Prima di analizzare le modifiche sostanziali apportate dalle norme contenute nel Decreto Sviluppo, cioè l'insieme d'interventi varati dal Governo per rilanciare la crescita, e, nello specifico, le “Misure per facilitare le gestione delle crisi aziendali”, è necessario fare un passo indietro e tornare alla riforma del triennio 2005-2007.

Nel periodo in esame l'attuale crisi, che non è affatto di portata globale come qualcuno si ostina a considerarla, non si era ancora manifestata, ed una delle conseguenze purtroppo inevitabili della stessa, cioè il fallimento di molte imprese di ogni dimensione e settore, non aveva ancora raggiunto le cifre drammatiche degli ultimi anni. Vi erano stati i fallimenti di due grandi aziende come Cirio e (soprattutto) Parmalat, che erano stati considerati come episodi isolati dovuti alla mala gestio o alle frodi messe in atto da manager e amministratori dalla gestione disinvolta. In realtà quelle crisi, certamente le più eclatanti, rappresentarono la punta dell'iceberg di un fenomeno di portata ben più vasta. Infatti negli anni 2004 e 2005 sono andate in scadenza obbligazioni “corporate” per un controvalore di circa 32 miliardi di euro, 21 mld nel 2004 ed 11 mld nell'anno seguente. Il mercato dei “corporate bond” era nato di fatto alla fine degli anni novanta con l'obiettivo di offrire alle imprese una forma di finanziamento alternativa al sistema bancario e al sistema degli intermediari finanziari specializzati e per alcune imprese di medie dimensioni è stato anche un'alternativa tutto sommato a buon mercato alla quotazione in Borsa.

Da un lato, ci sono state le grandi società con emissioni superiori agli 800/1000 milioni di Euro, che di fatto non hanno avuto alcun problema nel rimborsare i prestiti obbligazionari scaduti; ma di contro si sono registrati casi di società che avevano fatto ricorso ad emissioni minori, nell'ordine dei 100/200 milioni di Euro, che hanno avuto enormi difficoltà nel rimborsare i prestiti o che non ci sono riuscite affatto e la prima conseguenza del mancato rimborso della emissione è stata il “default” delle società emittenti.

In seguito a ciò qualche emittente è riuscita, con l'aiuto del sistema bancario e con grandi sacrifici per i possessori delle obbligazioni, ad evitare lo stato di decozione e quindi il conseguente fallimento.

Altre società, invece, sono state costrette al fallimento o, se ne ricorrevano i presupposti, alle procedure di Amministrazione Straordinaria (Prodi bis).

In quella fase il sistema bancario si era trovato a dover fronteggiare un problema di ristrutturazione o di tentativo di salvataggio delle imprese che aveva finanziato, o che aveva supportato nella emissione poi non rimborsata, senza avere gli strumenti per poterlo fare adeguatamente. A quel punto è ipotizzabile che, dovendo salvaguardare i propri crediti, e quindi le aziende clienti, ma dovendo anche porre rimedio al fatto che gli acquirenti di quelle obbligazioni erano stati in ultima istanza i clienti risparmiatori che, di fatto, si erano sostituiti al sistema bancario nel finanziamento alla imprese, le banche abbiano cercato di porre rimedio a quella situazione rendendosi parte attiva nel partecipare, se non nel proporre, un sostanziale mutamento d'indirizzo della disciplina fallimentare.

In quel contesto era quindi nata la riforma del 2005-2007 i cui tratti innovativi erano rappresentati dall'accento posto alla situazione di “crisi d'azienda” e dall'aver previsto una serie di strumenti per la gestione della stessa, con l'obiettivo di salvaguardare gli aspetti socioeconomici ed occupazionali insiti in ogni impresa.

Il principio ispiratore era stato, quindi, quello di privilegiare il rapporto diretto fra l'impresa debitrice ed i suoi creditori, che diventavano parte attiva nella gestione della crisi all'interno del riformato contesto normativo grazie all'innovazione rappresentata dai “piani attestati”, dagli “accordi di ristrutturazione dei debiti” e da una nuova formulazione del “concordato preventivo”.

I piani attestati avevano rappresentato una radicale innovazione della disciplina fallimentare giacché, per la prima volta, si introduceva una soluzione di natura privatistica, al di fuori quindi dei procedimenti giudiziari, che presentava però il vantaggio, pubblicistico, di una “copertura” da eventuali azioni revocatorie per gli atti, i pagamenti e le garanzie offerte nella esecuzione del piano. Nella sostanza, con lo strumento dei piani attestati rappresentato dall'

art. 67,

comma

3

, lettera d),

l.

fall

. veniva offerto al sistema degli intermediari bancari e finanziari, ed alla imprese, lo strumento per intervenire a sostegno delle crisi aventi natura prevalentemente finanziaria.

Con gli accordi di ristrutturazione dei debiti

ex

art. 182-

bis

l. fall

. il legislatore aveva raggiunto l'obiettivo di fornire uno strumento adeguato alla gestione e soluzione delle crisi con creditori anche diversi dal ceto bancario, includendo i debiti di natura fiscale e previdenziale, con lo strumento della transazione fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai piani attestati è rappresentata dalla percentuale minima di aderenti al piano, nella misura del sessanta per cento del totale dei crediti, e dalla necessaria omologazione da parte del Tribunale.

Il Concordato Preventivo riformato rappresentava, invece, uno strumento prevalentemente volto al risanamento dell'impresa e non alla mera soddisfazione dei creditori, a differenza della situazione ante riforma.

Nel complesso, gli interventi del 2005-2007 potevano essere giudicati positivamente. Certamente i tratti innovativi in essi contenuti avevano sin da subito sorpreso gli addetti ai lavori e generato ottimistiche aspettative sulle reali capacità di intervento e quindi di utilizzo di quegli strumenti.

A distanza di sette anni, e considerando le successive modifiche ed integrazioni, i risultati appaiono certamente in chiaroscuro, ma la colpa non è solo degli strumenti e forse neanche degli utilizzatori.

Il sistema delle imprese italiane si è trovato a dover fare i conti con un contesto socio economico di riferimento e con un sistema produttivo ed imprenditoriale caratterizzato da un peggioramento di tutti gli indicatori macroeconomici, da una contrazione del potere d'acquisto, da una riduzione dei consumi, da una crescente difficoltà di erogazione del credito da parte del sistema bancario e finanziario.

Le imprese italiane, storicamente e strutturalmente eccessivamente dipendenti dal sistema bancario, sono entrate in un circolo vizioso e molte sono state costrette a varcare la soglia dei Tribunali.

Analizzando il fenomeno a posteriori

si potrebbe superficialmente affermare che gli strumenti per la gestione e la soluzione della crisi d'impresa non hanno fatto fino in fondo il proprio lavoro, e quindi la nuova riforma contenuta fra le citate “Misure per facilitare le gestione delle crisi aziendali” sia stata la conseguenza di una legge che andava migliorata per rendere gli strumenti più confacenti alla nuova realtà.

Il recente intervento del legislatore a seguito della crisi economica mondiale

Senza entrare nel dettaglio delle modifiche operate, giova ricordarne alcune: la possibilità di presentare una domanda di concordato priva degli allegati; la pos

sibilità per l'imprenditore in concordato di compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione; la creazione di

crediti prededucibili; l'inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni precedenti

la pubblicazione della domanda di concordato; l'istituzionalizzazione del concordato c.d. in continuità

; la r

egolamentazione della

finanza interinale; una n

uova disciplina del pagamento dei

creditori estranei

agli accordi

ex art. 182-

bis

l. fall

.

Queste modifiche, alle quali va anche aggiunta la fattispecie di reato-proprio di falso in attestazioni riferita alla figura del professionista attestatore, testimoniano che la riforma della

legge fallimentare

contenuta nel “Decreto Sviluppo” ha avuto una forte caratterizzazione giuridica, probabilmente perché fortemente influenzata dagli eminenti giuristi e dagli autorevoli magistrati che avevano in origine fatto parte del tavolo tecnico.

L'impressione è che poi, alla fine dell'iter legislativo, nel cercare di agevolare la gestione delle crisi d'impresa, si sia data una risposta soprattutto giuridico-formale (rappresentata dalle sanzioni agli attestatori, dall'allungamento di fatto dei termini per la presentazione della domanda di concordato preventivo, dall'inefficacia delle ipoteche giudiziali presentate nei novanta giorni prima della domanda) ad un problema di carattere prevalentemente economico, finanziario e strutturale.

Inasprendo le sanzioni nei confronti del professionista attestatore o ponendo paletti sempre più stringenti sulle incompatibilità, non si potranno però risolvere o evitare molte crisi d'impresa, ed allungando i tempi per la presentazione delle domande di concordato non si rende un favore al sistema delle imprese, giacché di quel sistema fanno parte sia gli imprenditori “debitori” che gli imprenditori “creditori, e la riforma sembra tutelare solo i primi a danno dei secondi.

Voler mutuare nel nostro ordinamento istituti di ordinamenti differenti, pur con le modifiche e gli adattamenti del caso, è certamente un'iniziativa lodevole sulla carta, ma di fatto non ha alcun senso cercare di utilizzare solo “una parte” di altre legislazione in tema di crisi d'impresa, dal momento che il sistema giuridico, sociale ed economico italiano presenta peculiarità e caratteristiche che ne fanno un unicum.

In Italia c'è una cronica scarsità di fonti di finanziamento, le imprese sono quindi tendenzialmente sottocapitalizzate ed eccessivamente dipendenti dal credito bancario. Il sistema di pagamenti ha tempi non paragonabili a quelli cui fanno riferimento le imprese dei paesi più industrializzati ed i tempi della giustizia civile non ci rendono un Paese da prendere ad esempio.

In questo contesto allungare il tempo concesso al debitore potrebbe andare nella direzione opposta al desiderio di rendere più agevole la gestione delle crisi aziendali.

Il contributo degli autorevoli giuristi e dei prestigiosi magistrati componenti il tavolo tecnico che ha ispirato la riforma, avrebbe trovato una sponda qualificata se, anziché avere uno sbocco improvviso nell'ambito dell'iter legislativo del Decreto Sviluppo, avesse potuto raccogliere le sensibilità e i contributi professionali degli altri attori protagonisti della gestione della crisi di un'impresa, a tutto vantaggio della riforma stessa.

Sarebbe stato utile un confronto anche con gli economisti d'impresa (quali anche i dottori commercialisti possono essere definiti), con le associazioni imprenditoriali, con i rappresentanti delle banche, spesso ceto creditore più rappresentativo e maggiormente falcidiato, con i rappresentanti dei fondi di private equity, anche quelli specializzati in operazioni di ristrutturazioni del debito, e con gli altri investitori istituzionali che potrebbero aiutare a trovare una via d'uscita dalla crisi poiché potenziali apportatori di quelle risorse, non solo finanziarie, di cui l'impresa ha necessità.

Quel confronto potrebbe però essere ricercato anche in seguito, magari ipotizzando un sereno e costruttivo dibattito fra i destinatari della riforma, e auspicando un successivo intervento del Parlamento.

E se questo compito spetta al legislatore, gli addetti ai lavori hanno il dovere di pensare non soltanto alla gestione delle crisi odierne, ma anche alla prevenzione delle crisi di domani, creando un sistema imprenditoriale più efficiente, cercando di sviluppare una cultura aziendale ed una cultura del merito che parta dai percorsi scolastici e formativi, cercando di sviluppare la cultura dell'investimento in borsa per i risparmiatori e favorendo l'accesso alla borsa per le imprese, incoraggiando la diffusione di processi di managerialità nelle aziende in modo da rendere più facile sia il distacco degli imprenditori dalle imprese in crisi, sia la commerciabilità delle stesse, possibilità oggi praticamente inesistente.

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