Prime osservazioni su una disciplina in itinere: la composizione delle crisi da sovraindebitamento del consumatore

Emma Sabatelli
07 Novembre 2012

L'Autrice esamina la disciplina della composizione delle crisi da sovraindebitamento, alla luce delle novità introdotte dall'art. 18 del d.l. n. 179/2012 (c.d. Decreto Sviluppo bis), che ha profondamente modificato la l. n. 3/2012, introducendo anche un'apposita disciplina per il consumatore.Vengono analizzati i presupposti soggettivi ed oggettivi e il contenuto dei tre distinti procedimenti previsti dalla nuova normativa: l'accordo di ristrutturazione dei debiti e la liquidazione dei beni, comuni all'imprenditore (non fallibile) e al consumatore, e il piano di ristrutturazione, riservato al solo consumatore.
Profili generali

Con una sorta di “colpo di scena”, con l'

art. 18 d.l. 18.10.2012, n. 179

, recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, il Governo è ancora una volta intervenuto nel tormentato iter della regolamentazione delle crisi da sovraidebitamento dei soggetti comunemente, quanto impropriamente, definiti “debitori civili”, in quanto non sottoponibili alle previgenti procedure concorsuali. Benché la lettera della norma si esprima in termini di “modificazioni” alla

legge 27.1.2012, n. 3

, attuate mediante la tecnica dell'interpolazione, in effetti si tratta di una radicale riscrittura del precedente impianto normativo, che, già ad un primo approccio, solleva numerosi interrogativi, tanto da giustificare la decisione di rendere pubbliche queste osservazioni, mentre ancora corrono i termini per la conversione in legge del decreto.

Per dare un'idea della portata innovativa del provvedimento, è sufficiente considerare che accanto alla disciplina dell'accordo con i creditori sono ora previsti due nuovi procedimenti: quello concernente il piano del consumatore e quello relativo alla liquidazione del patrimonio del debitore. E, per vero, quantomeno riguardo al primo fra questi, si deve ammettere che il legislatore sembra aver accolto una fra le critiche più frequentemente mosse alla

l. n. 3/2012

, in quanto la previsione di un unico percorso normativo era apparsa da subito inadeguata per favorire l'uscita dalla crisi di realtà profondamente diverse sul piano economico, giuridico e sociale, quali sono la crisi dell'impresa non fallibile, alla quale può essere assimilata quella del professionista intellettuale (benché si tratti di una figura affatto trascurata dal legislatore in questa occasione), e la crisi del consumatore.

Ai sensi della versione emendata della

l. n. 3/2012

, alla quale d'ora in poi si farà riferimento, il consumatore, che versi in una situazione di sovraindebitamento, può, con l'ausilio di un Organismo di composizione della crisi (di seguito, OCC):

1) proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti, che abbia i requisiti previsti dall'art. 7, comma 1;

2) formulare una proposta di piano di ristrutturazione contenente le stesse indicazioni di cui alla disposizione appena citata;

3) chiedere la liquidazione di tutti i suoi beni, ex art. 14-ter e seguenti.

Mentre la prima e l'ultima delle summenzionate procedure possono essere attivate tanto dagli imprenditori non assoggettabili alle procedure concorsuali e dai professionisti intellettuali, quanto dai consumatori, la seconda è riservata in via esclusiva a questi ultimi. Di essa in particolare ci si occuperà, fra l'altro ponendola a confronto con il procedimento che regola la proposta di accordo con i creditori, per evidenziarne le peculiarità allo scopo di pervenire ad una - certamente sommaria - valutazione della idoneità di tale procedimento, del tutto nuovo per il nostro ordinamento, a governare la specificità della crisi da sovraindebitamento del consumatore.

Ad una prima lettura emerge, infatti, la sostanziale coincidenza di taluni aspetti di ambedue le procedure, specialmente per quel che concerne i profili relativi alla fase iniziale (determinazione del contenuto della proposta e del piano) e finale (effetto liberatorio conseguente alla regolare esecuzione di quanto promesso). Radicalmente differenti risultano, invece, i presupposti soggettivi di accesso, che nel caso della proposta di un piano consistono sia nella qualità di “consumatore” del proponente, sia nella sussistenza di uno specifico parametro di “meritevolezza”, ma è anche assolutamente diverso il ruolo attribuito ai creditori ai fini dell'omologazione del piano.

Il presupposto soggettivo: il consumatore

L'unico soggetto legittimato a proporre ai creditori un piano di risanamento della propria situazione patrimoniale è, dunque, il consumatore, come definito dall'art. 6, comma 2, lett. b), cioè la “persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. Benché tale disposizione sembri riecheggiare quella contenuta nell'

art. 3, comma 1, lett.

a)

, cod. cons.

, in realtà se ne allontana decisamente non solo perché, come è ovvio nel quadro normativo in esame, viene posto l'accento sull'assunzione di obbligazioni, ma soprattutto per il fatto che le obbligazioni in parola devono essere state contratte “esclusivamente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. Il risultato è una disposizione dal significato decisamente ambiguo, in quanto il riferimento all'eventuale svolgimento di un'attività imprenditoriale o professionale potrebbe suscitare il dubbio che la proposta del piano di composizione della crisi possa essere avanzata legittimamente anche da imprenditori e professionisti, i quali versino in una situazione di sovraindebitamento derivante in via esclusiva da obbligazioni non pertinenti all'attività esercitata.

Per gli imprenditori agricoli dovrebbe soccorrere quanto disposto dall'art. 7, comma 2-bis, che consente a quelli fra costoro che si trovino in stato di sovraindebitamento di proporre un accordo di composizione della crisi. Da questa norma si può dedurre:

a) che il presupposto oggettivo per accedere alla procedura è una situazione di sovraindebitamento in sé considerata (posto che non ne vengono specificate le cause);

b) che l'unico procedimento esperibile è quello dell'accordo con i creditori, dal momento che quello relativo al piano di risanamento non viene affatto menzionato. Rispetto agli imprenditori commerciali è legittimo ritenere che gli stessi principi possano essere applicati in via analogica, dal momento che risulterebbe incomprensibile la ragione per la quale, in punto di fruizione dei procedimenti di composizione della crisi, l'imprenditore agricolo, sovraindebitato per motivi che nulla hanno a che fare con l'esercizio dell'impresa, dovrebbe essere sottoposto a regole diverse e più restrittive di quelle previste per l'imprenditore commerciale, che versi nell'identica situazione.

Più incerta è l'esclusione dalla procedura di proposizione del piano rispetto ai professionisti intellettuali sovraindebitati per ragioni estranee allo svolgimento dell'attività professionale. Se per gli imprenditori agricoli e, di riflesso, per gli imprenditori commerciali, si può ritenere che nella valutazione del legislatore il carattere imprenditoriale dell'attività si sia imposto e sia risultato assorbente rispetto alle cause dell'indebitamento, l'estensione analogica degli stessi risultati interpretativi anche ai professionisti intellettuali può apparire azzardata, dal momento che, per tradizione consolidata e ancora vigente nel nostro ordinamento, si tratta di soggetti la cui attività è oggetto di specifica considerazione ed è sottoposta a regole differenti da quelle che presiedono all'esercizio dell'impresa.

Il presupposto oggettivo: il sovraindebitamento

Presupposto oggettivo dell'accesso alle procedure di composizione della crisi è il sovraindebitamento del debitore, che, ai sensi dell'art. 6, comma 2, lett. a), è costituito da una “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte ovvero [dal]la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni”. Ambedue le locuzioni rievocano concetti ben noti al diritto delle crisi di impresa, poiché corrispondono rispettivamente alle definizioni comunemente accolte di crisi patrimoniale e di crisi finanziaria, sulla cui valenza sostanziale e sulla eventuale reciproca interferenza evidentemente non ci si può soffermare in questa sede. Qui, ci si limiterà soltanto a sottolineare che la norma non richiede più che le due situazioni ricorrano congiuntamente, essendo sufficiente, ai fini dell'apertura di ciascuna procedura, che una sola di esse si sia verificata.

Si deve altresì osservare che nella nuova formulazione della legge - come, del resto, anche nella precedente - non vi è alcun indizio che consenta di individuare una sorta di sottinteso collegamento fra la qualificazione soggettiva del debitore, come consumatore ovvero come imprenditore e/o professionista, e una specifica situazione di sovraindebitamento: in altri termini, la lettera della disposizione, che colloca esattamente sullo stesso piano le due definizioni di sovraindebitamento, senza introdurre distinzioni di alcun genere, non sembra lasciare spazio all'opinione che, in ragione del carattere statico o dinamico della crisi, volesse introdurre una sorta di abbinamento fra squilibrio patrimoniale e consumatore, da un lato, e impossibilità dell'adempimento e imprenditore/professionista, dall'altro, sì da far corrispondere a ciascuna situazione soggettiva uno specifico presupposto oggettivo di indebitamento.

E questo mancato collegamento, come si vedrà tra breve, costituisce uno dei punti critici del nuovo sistema. Infatti, non si può non notare che, benché la nozione di sovraindebitamento di cui all'art. 6, comma 2, lett. a), ultima parte (“definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni”) risulti praticamente equivalente, anzi ancora più incisiva sul piano lessicale, della corrispondente locuzione usata per definire lo stato di insolvenza dell'imprenditore fallibile nell'art. 5, comma 2, ultima parte,

l. fall

., il termine “insolvenza” non ricorre mai nella attuale, come nella originaria versione della

l. n. 3/2012

, ma è costantemente sostituito appunto dall'espressione “sovraindebitamento”. Sembra, insomma, che si sia voluto rimarcare che la crisi dell'impresa commerciale fallibile è cosa concettualmente diversa e non sovrapponibile alla crisi dei soggetti che possono usufruire delle procedure disciplinate dalla disciplina in esame.

Questa singolare “reticenza” del legislatore potrebbe essere spiegata dalla circostanza che, in sede di stesura della

l. n. 3/2012

e delle successive modifiche, è stata percepita - senza, però, trovare esplicito riconoscimento nel testo di legge - la sussistenza di una differenza ontologica in un elemento centrale della crisi del consumatore, da un lato, e dell'imprenditore/professionista, dall'altro, che è costituito dall'oggetto rispetto al quale deve essere formulata la valutazione della situazione di sovraindebitamento. Nel caso del consumatore esso è un patrimonio, staticamente considerato, mentre per l'imprenditore/professionista si tratta di un'attività, che deve essere apprezzata prospetticamente. Se ciò è esatto, si deve dissentire proprio sul metodo costantemente seguito nella

l. n. 3/2012

in punto di definizione del presupposto oggettivo per l'accesso alle procedure ivi disciplinate, poiché, nell'affrontare questo specifico aspetto, sembra che si sia voluta tracciare una linea di demarcazione, che si potrebbe definire “orizzontale”, separando coloro che sono assoggettati o assoggettabili alle preesistenti procedure concorsuali da coloro che possono usufruire dei procedimenti di composizione delle crisi, i quali ultimi vengono unitariamente considerati, ignorando completamente la peculiarità della crisi del consumatore.

Il fatto è che se, come sembra indubbio, la patologia dell'impresa (e, probabilmente, anche dell'attività professionale) presenta sempre le stesse caratteristiche, quali che ne siano la natura e le dimensioni, poiché, appunto, coinvolge un'attività, cosa ben diversa è la crisi di un patrimonio non produttivo, come quello del consumatore, sicché, se proprio si riteneva indispensabile porre una la linea di demarcazione, questa si sarebbe dovuta tracciare, piuttosto, in senso verticale, elaborando una nozione specifica di sovraindebitamento riferita a quest'ultimo, mentre agli imprenditori ed ai professionisti intellettuali si sarebbero potute tranquillamente applicare le nozioni di insolvenza (e di crisi) elaborate nell'ambito del diritto fallimentare.

L'irreversibilità della crisi

Tuttavia, uno sforzo di elaborazione concettuale come quello appena suggerito avrebbe avuto senso solo se fosse stato finalizzato a far emergere con maggiore chiarezza le effettive intenzioni del legislatore rispetto ad un'altra questione, sulla cui soluzione esso è stato assai vago fino a questo momento. Si tratta, innanzitutto, di stabilire se l'accesso alle procedure di cui alla

l. n. 3/2012

sia consentito anche a chi versi in una situazione di crisi ancora riparabile ovvero soltanto a colui che si trovi in uno stato di dissesto ormai insanabile e, in secondo luogo, di precisare se il presupposto oggettivo - in termini appunto di reversibilità o irreversibilità della crisi - debba essere univoco, quale che sia la qualificazione soggettiva del debitore (imprenditore/professionista o consumatore) ovvero se sia opportuno che venga differentemente modulato.

Per vero, la lettera dell'art. 6, comma 2, lett. a), non sembra lasciare molti spazi all'interprete in ragione della particolare enfasi con la quale viene sottolineata la gravità della situazione: lo squilibrio fra le obbligazioni assunte (ancorché non scadute) e il patrimonio prontamente liquidabile del debitore deve essere perdurante; alternativamente, il debitore deve trovarsi di fronte alla impossibilità definitiva di eseguire adempimenti regolari. Insomma, a meno di forzare notevolmente la lettera della norma, si deve ammettere che tutti i dati testuali concorrono a indurre il convincimento che per essere legittimato ad avviare i procedimenti di cui alla

l. n. 3/2012

il debitore si debba trovare di fronte ad una situazione di dissesto patrimoniale irreversibile.

Rispetto alle crisi di impresa questa scelta normativa appare assolutamente inopportuna per ragioni che sono insieme di carattere sistematico e pratico. Essa si pone in netta contraddizione con tutte le opzioni di politica legislativa effettuate negli ultimi anni in materia fallimentare, che, per gli aspetti che qui interessano, sono univocamente orientate a favorire soluzioni compositorie della crisi - vuoi attraverso un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti, vuoi mediante un piano attestato - non soltanto qualora questa sia divenuta insanabile, ma anche, e preferibilmente, nel caso in cui vi si possa ancora porre qualche rimedio. Dal momento che, anche se con un minore impatto sulla collettività, le stesse motivazioni di ordine economico e sociale, oltre che giuridico, che hanno indotto il legislatore a privilegiare queste scelte di prevenzione del dissesto totale del patrimonio - le quali, ove possibile, consentono di salvaguardare la continuità aziendale - sussistono anche per le imprese sottratte al fallimento (nonché per i professionisti intellettuali), risulta incomprensibile la ragione per la quale anche rispetto a costoro non ci si sia mossi nella medesima ottica, favorendo in maniera inequivocabile l'apertura della procedura di composizione della crisi anche nel caso in cui quest'ultima possa ancora essere sanata.

E, pur se per motivazioni totalmente diverse da quelle fin qui esposte, sembrerebbe che si debba pervenire alle stesse conclusioni anche rispetto al dissesto del consumatore. Come si è già rilevato, in questo caso ci si trova di fonte a un patrimonio statico, inidoneo in sé alla produzione di nuova ricchezza, il quale, fra l'altro, in caso di crisi tende a depauperarsi, piuttosto che ad mantenersi stabile o ad accrescersi nel tempo. Infatti, la conservazione o l'incremento del valore complessivo del patrimonio può darsi solo di riflesso e sovente per motivi del tutto estranei alla volontà e alle capacità del creditore; ciò può avvenire, per esempio, se il valore di mercato dei singoli cespiti che lo compongono si accresce in misura tale da compensarne quantomeno il deprezzamento dovuto all'usura e all'inflazione e se, corrispondentemente, aumentano in quantità e/o valore i frutti prodotti (sempre che i redditi complessivi del debitore siano almeno pari alle spese necessarie per la manutenzione beni e per il mantenimento del nucleo familiare).

Non vi è in questa fattispecie nessun interesse - né della collettività, né dei creditori - alla conservazione dell'integrità del patrimonio, sicché, quale che sia la procedura prescelta dal consumatore, essa non può che avere natura eminentemente liquidatoria, anche se si tratta di una liquidazione dalla quale il debitore si propone di ottenere alcuni vantaggi - sia pure in termini di mero risparmio di costi e di tempo - rispetto alla procedura di liquidazione ora prevista dall'

art. 14-

ter

e seguenti della l. n. 3/2012

. Tuttavia, non vi è dubbio che anche di fronte alla crisi del consumatore in via di principio si dovrebbe ritenere che sia nell'interesse comune del debitore e dei creditori addivenire al più presto ad una composizione.

Il punto è che, mentre l'accordo - che può essere proposto anche dal consumatore - transita necessariamente attraverso il consenso di una maggioranza qualificata dei creditori, l'omologazione del piano ne prescinde del tutto e, come si vedrà tra breve, pone i creditori del consumatore in una situazione così sfavorevole che potrebbe giustificare in pieno - de iure condendo - la scelta di riservarne l'utilizzo soltanto ai consumatori che si trovino in una situazione di dissesto irreversibile. Insomma, la conversione in legge del

d.l. n. 179/2012

potrebbe essere l'occasione per riscrivere ancora una volta l'

art. 6, comma

2, l

. n. 3/2012

, al fine di sgomberare il campo da ogni ambiguità, chiarendo una volta per tutte quale è il “livello” di sovraindebitamento (insolvenza o crisi sanabile), che viene richiesto per accedere a ciascuna procedura e se effettivamente si intende consentire ai consumatori la possibilità di attivare il procedimento ad essi riservato anche in caso di dissesto reversibile.

Ma sarebbe probabilmente opportuno che tutta la disciplina dei presupposti fosse maggiormente ponderata. Si osservi che in nessuna fase nell'iter che conduce all'omologazione della proposta o del piano è previsto che sia verificata la sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi in capo al debitore. In apertura di ambedue le procedure il giudice deve verificare che la proposta ovvero il piano soddisfino i requisiti di cui agli artt. 7, 8 e 9, ma non quelli di cui all'art. 6, che le norme appena citate non menzionano affatto; né tale verifica rientra fra i molteplici compiti affidati all'OCC. Inoltre, l'eccezione di difetto di legittimazione per carenza dei presupposti soggettivi e oggettivi non sembra neanche poter essere sollevata dai creditori; rispetto al piano proposto dal consumatore, essi non hanno nemmeno il potere di esprimere il loro voto e - similmente a quanto avviene per la proposta di accordo - in sede di omologazione sembra che le eventuali contestazione dei creditori, al pari di quelle di qualunque altro interessato, possano avere per oggetto soltanto la convenienza del piano o dell'accordo.

Nella prospettiva di una revisione sistematica della

l. n. 3/2012

, risulterebbe più coerente che anche i presupposti di cui all'art. 6, comma 2, confluissero fra i requisiti di ammissibilità alla procedura, previsti dall'art. 7, comma 2, sì da essere, al pari di questi, sottoposti a controllo giudiziale; diversamente ci si esporrebbe fortemente al rischio che essi restino meri enunciati di principio, privi di ogni concreta rilevanza giuridica, poiché vengono attestati attraverso una sorta di autocertificazione del debitore, che non è sottoposta, al momento, né ad oneri probatori, né ad alcun tipo di verifica.

La situazione dei creditori rispetto al piano proposto dal consumatore

La situazione dei creditori appare assai sfavorevole nel procedimento di proposizione del piano formulato dal consumatore. In verità, ad un primo approccio parrebbe esservi una perfetta coincidenza fra il contenuto minimo “necessario” previsto dall'art. 7, comma 1, per la proposta di accordo con i creditori e quello richiesto per il piano del consumatore, cosicché in ambedue le fattispecie non è nemmeno chiaro se, per ottenere l'omologazione, il debitore debba necessariamente mettere a disposizione tutto il suo patrimonio o possa riservare per sé alcuni beni, al fine di favorire il proprio start up, riducendo il livello di soddisfacimento offerto ai creditori. In ogni caso, tanto il piano, quanto la proposta devono essere idonei ad assicurare:

  1. il regolare pagamento dei crediti impignorabili;

  2. il pagamento integrale, ancorché dilazionato, dei tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, dell'I.V.A. e delle ritenute operate e non versate;

  3. il pagamento, anche parziale, dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, purché previsto in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione dei beni o dei diritti sui quali insiste la causa di prelazione, tenendo conto del valore di mercato, come attestato dall'OCC, e della collocazione preferenziale del credito.

Proprio dalla considerazione del trattamento a cui sono assoggettati questi ultimi crediti inizia ad emergere il disfavore, che il legislatore riserva ai creditori del consumatore; infatti, oltre che decurtati, i crediti di costoro possono essere sottoposti ad una moratoria fino ad un anno dalla omologazione del piano, il quale, come si è in precedenza osservato, in questa fattispecie non può che avere natura eminentemente liquidatoria. Invece, nell'ipotesi della proposta di accordo con i creditori, che contempli la liquidazione tout court del patrimonio, non può essere concessa alcuna moratoria, se non quando sia anche prevista la prosecuzione dell'attività di impresa, cosicché il beneficio appare palesemente indirizzato a favorire la conservazione dell'integrità del complesso aziendale.

Inoltre, se si confronta l'art. 7, comma 1, con l'art. 12-bis, comma 3, che fissa gli adempimenti che il giudice deve soddisfare prima di procedere all'omologazione, non si può non notare una singolare distonia fra le due disposizioni, poiché quella da ultima citata stabilisce, fra l'altro, che il giudice deve verificare l'idoneità del piano del consumatore ad assicurare il pagamento dei crediti di cui alle lett. a) e b), ma non contiene nessuna previsione a tutela dei crediti assistiti a privilegio, pegno o ipoteca, rispetto ai quali non è nemmeno richiesto che il giudice provveda ad accertare che il pagamento possa essere eseguito quantomeno nella misura minima prevista dalla legge. Come si vede, ancora una volta si pone l'interrogativo se ci si trovi di fronte ad un lapsus, che può essere emendato in sede di conversione in legge, o ad una scelta consapevole, e difficilmente spiegabile, del legislatore, che affievolisce ulteriormente la tutela di questa categoria di creditori.

Indubbiamente, però, il punto di maggior disfavore per i creditori del consumatore è costituito dalla circostanza per cui si perviene all'omologazione del piano e alla produzione dei conseguenti effetti vincolanti per tutti i creditori senza che alla volontà di costoro venga riconosciuta alcuna rilevanza giuridica. A differenza di quanto avviene rispetto alla proposta di accordo, che non può essere omologata se non viene accettata da tanti creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti, i creditori del consumatore non hanno diritto di voto sul piano, ma devono subire i giudizi formulati su di esso da soggetti terzi (l'OCC e il giudice). Ragioni di equità, ancor prima che di diritto, avrebbero richiesto allora che si fosse imposto un particolare rigore nella valutazione della convenienza del piano, essendo questa sottratta ai diretti interessati, ma così non è stato. È vero che un giudizio di convenienza deve essere contenuto nella relazione redatta dall'OCC e allegata al piano stesso, ma tale giudizio - fra l'altro formulato da un soggetto in palese conflitto di interessi, avendo concorso a determinare il contenuto del piano - ha per oggetto soltanto la probabile convenienza del piano rispetto ad un termine di paragone estremamente aleatorio, quale è la misura del soddisfacimento, che può essere ottenuto in sede di liquidazione del patrimonio ai sensi dell'art. 14-ter ss. In conclusione, se certamente si deve convenire che ogni valutazione prognostica - come, ad esempio, quella sulla fattibilità del piano, sulla quale l'OCC deve parimenti pronunciarsi - ha in sé un certo margine di opinabilità, si deve anche ammettere che non può essere casuale che soltanto rispetto al giudizio sulla convenienza se ne sia enfatizzato il livello di incertezza, finendo così, di fatto, per riconoscere al valutatore un più ampio margine di discrezionalità.

Quel che è più grave, però, è che su questo punto della relazione il giudice non sembra poter esercitare alcun controllo, né formale, né sostanziale, prima di procedere all'omologazione del piano, sicché il giudizio dell'OCC risulta determinante per sancirne la sorte. Secondo quanto prevede l'art. 12-bis, comma 4, soltanto nel caso in cui un creditore o qualsiasi altro interessato ne contesti la convenienza, il giudice, prima di procedere all'omologazione, deve considerare - peraltro, esclusivamente rispetto al credito a tutela del quale è stata esercitata la contestazione - se questo “possa essere soddisfatto dall'esecuzione del piano in misura non inferiore all'alternativa liquidatoria”.

La ragione di tanto rigore è dichiarata con un “candore” quasi sconcertante nella Relazione di accompagnamento al d.l. n. 197/2012. In essa si ammette che si è giunti alla determinazione di prescindere da qualsivoglia forma di consenso dei creditori nella speranza di dare qualche chance di successo al procedimento di composizione della crisi del consumatore, avendo la piena consapevolezza che normalmente i creditori di costui non soltanto non hanno alcun interesse ad aderire al piano di risanamento, ma hanno, anzi, l'interesse esattamente opposto a conservare la piena disponibilità delle azioni a tutela dell'intero loro credito. Infatti, il maggior vantaggio per il consumatore proponente rinviene dalla circostanza per cui la regolare esecuzione del piano comporta automaticamente la liberazione per la quota parte dei debiti rimasti insoddisfatti. In tal caso nulla potranno i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca - che presumibilmente dovranno anche subire la moratoria di cui all'art. 8, comma 4 - per i quali sia stato previsto un soddisfacimento parziale; essi, anzi, non potranno vantare alcun diritto nemmeno se il bene su cui insiste la garanzia viene liquidato per una cifra pari o inferiore al valore nominale del credito, ma comunque superiore a quella stabilita nel piano. Ma, soprattutto, nulla potranno i chirografari, se non subire una vera e propria espropriazione dei loro diritti, nel caso in cui, di fronte a un patrimonio largamente incapiente, il piano preveda per essi un livello di soddisfacimento minimo o addirittura nullo.

Si tratta, insomma, di un procedimento sicuramente anomalo per il nostro ordinamento, che si espone fortemente al sospetto di incostituzionalità, quantomeno per lesione dell'

art. 24 Cost.

, poiché, di fatto, preclude ai creditori del consumatore, che abbia ottenuto omologazione del piano proposto e che lo abbia regolarmente eseguito, di agire in giudizio a tutela dei propri diritti. Né, in senso contrario a quanto fin qui sostenuto, è possibile attingere argomenti dalla disciplina dell'esdebitazione contenuta negli

artt. 142 ss. l. fall

., che si potrebbe essere indotti a richiamare, vuoi perché sortisce il medesimo effetto liberatorio rispetto ai crediti insoddisfatti, vuoi perché, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, recentemente ribadita dalle Sezioni Unite con la sentenza 18.11.2011, n. 24214, può essere concessa anche nel caso in cui il fallimento si sia chiuso senza che taluni creditori abbiano ottenuto alcun soddisfacimento.

Il paragone non sarebbe pertinente innanzitutto sul piano sistematico, perché se proprio si volesse instaurare un confronto fra procedure comunque differenti, l'“omologo” del piano di risanamento dovrebbe essere rinvenuto, piuttosto che nel fallimento, nel concordato preventivo, la cui esatta esecuzione ha un effetto parimenti liberatorio per il debitore, il quale, però, richiede necessariamente il consenso della maggioranza, peculiarmente computata, dei creditori. Si deve, poi, rammentare che la ricordata

Cass. Sez. Un. n. 24214/2011

non si limita ad affermare tout court che il fallito può essere ammesso al beneficio dell'esdebitazione - che non è una conseguenza automatica della chiusura del fallimento - pur se taluni crediti sono rimasti del tutto insoddisfatti, ma precisa anche che, prima di concederlo, il giudice di merito deve effettuare “secondo il suo prudente apprezzamento una valutazione di tale consistenza [del soddisfacimento] rispetto a quanto complessivamente dovuto”. Nella procedura in esame, invece, non vi è alcuno spazio per l'applicazione di questo principio, appunto perché l'unica condizione richiesta ai fini della liberazione del debitore è costituita dalla regolare esecuzione del piano, senza che intervenga alcuna valutazione da parte del giudice.

Il consumatore “meritevole”

Fin qui si è illustrato un procedimento che appare fortemente sbilanciato a favore dei consumatori; non di tutti, però, ma soltanto di coloro che presentano peculiari requisiti di “meritevolezza”. Fra tali requisiti sollecitano una particolare attenzione, per essere strettamente connessi alla situazione di sovraindebitamento, quelli sui quali, ai sensi dell'art. 9, comma 3-bis, lett. a) e b), è chiamato ad esprimersi in prima battuta l'OCC nella relazione particolareggiata di accompagnamento al piano; essi concernono le “cause dell'indebitamento” e la “diligenza impiegata dal consumatore nell'assumere volontariamente le proprie obbligazioni”, nonché le “ragioni dell'incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte”. Si tratta di elementi ai quali viene data una particolare rilevanza nell'ambito del procedimento in quanto, secondo quanto dispone l'art. 12-bis, comma 3, devono essere sottoposti ad una specifica verifica da parte del giudice - che in questo caso deve entrare nel merito della questione - prima di procedere all'omologazione del piano.

La norma da ultimo richiamata esprime in maniera più esplicita quali sono gli elementi oggetto della valutazione del giudice rispetto a quanto è detto relativamente al contenuto della relazione dell'OCC: affinché il consumatore possa accedere al procedimento di composizione della crisi ed al conseguente beneficio dell'esdebitazione, non deve aver assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere e non deve aver colposamente determinato la situazione di sovraindebitamento, anche facendo ricorso al credito in misura non proporzionata alle proprie capacità patrimoniali. In conclusione, si deve ritenere che sia legittimato ad usufruire della procedura solo il consumatore che abbia agito con diligenza, la quale deve essere valutata in rapporto alla ragionevolezza ed alla incolpevolezza della condotta tenuta nell'assunzione delle obbligazioni, che ne hanno determinato il dissesto patrimoniale.

L'uso del termine “diligenza”, al fine di qualificare l'agire del consumatore “meritevole”, appare, però, assolutamente eterodosso rispetto al nostro sistema giuridico. Come è noto, tanto in ambito contrattuale, quanto in ambito extracontrattuale, un comportamento negligente assume rilevanza soltanto se lede un interesse altrui giuridicamente protetto, perché solo in tal caso il soggetto al quale la condotta colpevolmente dannosa è imputabile è tenuto a risarcire il pregiudizio arrecato ad altri. Nella fattispecie in esame viene imputato al consumatore di avere assunto obbligazioni in una situazione nella quale sapeva (o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere) che non sarebbe stato in grado di onorarle; pertanto, i soggetti, ai quali si sarebbe dovuta offrire tutela da parte dell'ordinamento, sono i creditori colposamente esposti alla pressoché sicura insolvenza della controparte. Però, così non è, in quanto la attuale disciplina del procedimento riservato al consumatore sortisce effetti paradossalmente opposti: il consumatore “diligente” ricava dalla sua condotta un concreto vantaggio, potendo attivare una procedura di composizione della crisi tutta orientata a suo favore, mentre per i creditori è sicuramente meglio avere a che fare con un debitore negligente, e perciò escluso dalla summenzionata procedura, poiché in questo caso conservano la piena disponibilità delle azioni a tutela del credito, non possono essere sottoposti ad alcuna moratoria e soprattutto non corrono il rischio che il debitore possa usufruire del beneficio dell'esdebitazione.

Ma, osservando, poi, la questione dal punto di vista del debitore, si può davvero ritenere che vi sia nell'ordinamento italiano un principio in base al quale il consumatore sarebbe tenuto ad adottare un comportamento diligente? Anche rispetto alla nozione di diligenza non è certo questa la sede per affrontarne l'esame in termini generali; si può, però, ricordare che per opinione comune si tratta di un concetto relativo, che è suscettibile di variare in rapporto alle qualità soggettive e al contesto sociale entro il quale il debitore opera, e che la dottrina e la giurisprudenza più recenti tendono ad attribuire ad essa una sempre più accentuata connotazione solidaristica. Seguendo quest'ultima prospettiva, si potrebbe pervenire, dunque, a qualificare come negligente la condotta di chi abbia assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero abbia fatto ricorso al credito sopravvalutando le proprie capacità patrimoniali.

Vi sono, però, alcuni indici normativi di segno opposto relativamente alla esistenza di un dovere di diligenza in capo al consumatore. Nella consapevolezza che spesso più che negligente, il consumatore è un soggetto che non è in grado di gestire correttamente le risorse di cui dispone, l'

art. 2, comma 2, lett.

e)

, cod. cons.

, inserisce l'educazione al consumo fra i diritti fondamentali del consumatore, anche se il successivo art. 4, dedicato appunto a questo tema, non va oltre la mera enunciazione di principi (nella specie, finalità e oggetto dell'attività educativa), privi, ad oggi, di ogni rilievo pratico. Se, poi, si considera che, di norma, i crediti di maggior peso, che gravano sui consumatori, sono quelli verso i finanziatori professionali, non si può trascurare che nell'ambito della attuale disciplina del credito al consumo vi è ora l'

art. 124-

bis

Tub

, il quale impone al creditore, in termini che parrebbero tassativi, di valutare il merito creditizio del consumatore prima di stipulare un contratto di credito, se necessario consultando la banca dati pertinente; tuttavia, anche questa disposizione corre il rischio di essere disattesa, dal momento che manca l'esplicita previsione di una sanzione per il caso di inadempimento dell'obbligo di verifica. Comunque, alla luce di questi dati è certamente sorprendente il radicale mutamento di prospettiva attuato con il d. l. n. 179/2012 e, soprattutto, resta del tutto oscuro il principio giuridico da cui si vorrebbe far discendere una regola - che deve essere ovviamente generale e preesistente al verificarsi del dissesto - in forza della quale il consumatore vedrebbe quelli che finora gli sono stati riconosciuti come diritti tramutarsi in obblighi di condotta a suo carico.

Se, poi, il legislatore dovesse confermare la scelta di riservare al solo consumatore “meritevole” la legittimazione a proporre il piano di composizione della crisi anche in sede di conversione in legge del decreto, ben pochi fra i consumatori sovraindebitati sarebbero in grado di accedere alla procedura. Come è noto, molte possono essere le cause del sovraindebitamento del consumatore; per fare qualche esempio, basta ricordare l'aggressività di alcune campagne pubblicitarie, che in molti casi raggiungono il destinatario in situazioni nelle quali egli è particolarmente indifeso - come nell'intimità della propria abitazione - attraverso l'utilizzo di strumenti di comunicazione di massa e anche del telefono; esse possono indurre in alcuni soggetti la percezione di bisogni che talvolta sono fittizi o che, comunque, vengono soddisfatti a costi non sostenibili per l'economia familiare; si pensi, ancora, alla enfatizzazione dei vantaggi della rateazione, magari con inizio differito nel tempo, senza che l'utente abbia l'effettiva consapevolezza del prezzo complessivo del bene o del servizio erogato; oppure, ancora, all'ipotesi, per vero puramente teorica, di chi, colpito dalla crisi economica che ormai da anni imperversa nel nostro Paese, per ragioni di quasi sopravvivenza abbia contratto un debito con un finanziatore professionale - anziché, come solitamente avviene in questi casi con un usuraio - sapendo perfettamente di non essere in grado di restituirlo. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma è evidente che nessuno dei soggetti appena menzionati avrebbe titolo per accedere alla procedura riservata ai consumatori, poiché la condotta da essi tenuta non solo non può essere definita diligente, ma non appare nemmeno ispirata da criteri di ragionevolezza.

È evidente che il consumatore “meritevole” prefigurato dal legislatore corrisponde a quello che nei Paesi anglosassoni viene definito well educated middle-class consumer; a colui, cioè, che già sa come tutelarsi da solo, in quanto è in grado di comprendere le informazioni che gli vengono fornite, di confrontare e talvolta anche negoziare le condizioni dell'acquisto o del finanziamento. Un soggetto con tali caratteristiche potrà aver bisogno di questa procedura solo in ipotesi assolutamente marginali, in genere in seguito ad accadimenti assolutamente imprevedibili (per esempio, morte, malattia, perdita del lavoro…), che si siano verificati successivamente all'assunzione del credito. Restano fuori dalla tutela, perché immeritevoli, proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, le fasce sociali più fragili, che non solo sono più esposte a subire il fascino della chimera dei consumi e non sono in grado di fare confronti fra le offerte, ma spesso non hanno altre alternative, se non il ricorso al credito.

Ovviamente non si intende con ciò sostenere la legittimità e nemmeno l'opportunità di costruire percorsi normativi che riversino l'insolvenza dei consumatori su coloro che hanno fornito ad essi beni, servizi o credito; si vuole semplicemente rimarcare che la strada prescelta dal

d.l. n. 179/2012

non pare assolutamente idonea a costituire uno strumento efficace per consentire ai debitori di uscire dalla crisi. Insomma, nonostante le premesse sembrino essere tutte a favore del consumatore, si deve concludere che la situazione dei creditori - e fra questi segnatamente dei finanziatori professionali, i cui crediti costituiscono normalmente la parte più rilevante dell'esposizione debitoria - in concreto non risulterebbe, poi, sostanzialmente peggiorata a seguito dell'entrata in vigore di una normativa così congegnata.

Il sovraindebitamento delle famiglie

Sia consentito concludere con un'ultima osservazione di metodo. La disciplina fin qui commentata ruota intorno alla figura del consumatore, cioè di una persona fisica costantemente considerata uti singulus. Sembra si sia voluto ignorare ciò che purtroppo è ormai ben noto all'esperienza quotidiana di ciascuno di noi: nella maggior parte dei casi il cosiddetto sovraindebitamento del consumatore designa, in realtà, la crisi di una famiglia, anche se le obbligazioni sono normalmente - ma non sempre - assunte dal cosiddetto capofamiglia. Non a caso tutti gli studi economici che affrontano la questione, muovono dall'esame del nucleo familiare, oltretutto, avendo come punto di riferimento una nozione allargata di famiglia, che comprende anche i soggetti non legati da vincoli di parentela, ma stabilmente conviventi (S. MAGRI - R. PICO, L'indebitamento delle famiglie italiane dopo la crisi del 2008, in Questioni di economia e finanza, n. 134, settembre 2012, che può essere letto in Bancaditalia.it., nonché l'approccio alla questione del sovraindebitamento in COMMISSIONE EUROPEA, Toward a Common Operational European Definition of Over-indebtedness, Office for Official Publications of the European Communities, Lussemburgo, 2008); su questa base , per così dire, “collettiva”, si procede, poi, a valutare tanto il livello dell'indebitamento, quanto la capacità di reddito del nucleo familiare.

Considerato l'insuccesso della precedente versione della

l. n. 3/2012

, nel momento in cui ci si accinge a varare una riforma che ne stravolge completamente l'impianto originario, introducendo istituti finora estranei alla nostra tradizione giuridica, non sarebbe opportuno fare almeno il tentativo di elaborare una normativa, che tenga conto dei dati di realtà della crisi patrimoniale ed economica delle famiglie, piuttosto che dettare una disciplina tutta incentrata su una figura di astratta di consumatore, che - se si eccettua l'ipotesi del consumatore single, il quale costituisce ancora un modello sociale percentualmente poco rilevante - non corrisponde alla reale struttura socio-economica del Paese?

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